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| << | < | > | >> |IndiceGUIDO DAVICO BONINO 9 Premessa ALBERTO BOLAFFI 11 Introduzione 13 La «parola scritta» dei primordi (3000 a.C. - 800 d.C.) 31 La «parola scritta» dei mercanti e delle grandi scoperte (801-1660) 49 La «parola scritta» prefilatelica (1661-1840) 67 La «parola scritta» filatelica (dal 1840) 85 La «parola scritta» nel cielo (dal 1783) 103 La «parola scritta» nello Spazio (dal 1928) 121 La «parola tecnologica» (dal 1450 circa) 139 L'Archivio Storico Bolaffi della Filografia e della Comunicazione 145 Quanto vale la parola scritta? |
| << | < | > | >> |Pagina 11IntroduzioneNon è certamente consueto che sulla copertina di un libro appaia un'indicazione etimologicamente inusuale. Almeno sino a oggi infatti il termine «filografia» non veniva menzionato in nessun dizionario italiano. Si tratta comunque di un neologismo dal contenuto talmente evidente da non richiedere particolari approfondimenti. Se sino a oggi l'uomo non ha dovuto ricorrere a questa definizione per dichiararsi «amico della scrittura», ciò appare del tutto normale, in quanto nessuno avrebbe potuto concepire di eliminare la più significativa traccia del nostro intelletto, fatta naturalmente eccezione per qualche svogliato alunno agli inizi del suo percorso scolastico e tralasciando sofistici interventi, come quello di Socrate nel Fedro. Ma tutto cambia e, almeno a parer nostro, ci sembra giunto il momento di dimostrare questa «amicizia». Un'amicizia che deve essere essenzialmente rivolta nei confronti di quella traccia che, in diretta simbiosi col nostro cervello, attraverso la pulsione della mano «scrivente», sino a non molto tempo fa, era l'unica tradizionale forma di scrivere. Oggi il nostro comunicare si sta allontanando sempre più da questo rapporto di causa ed effetto e l'esprimersi diventa inevitabilmente più mediato da sofisticati strumenti che, cavalcando le onde magnetiche, stanno rapidamente sostituendo la più espressiva traccia del nostro apparire: quella che si evidenziava attraverso inchiostro, penna e foglio. Pur non avendo nessuna intenzione di contrappormi al progresso attraverso il divenire della comunicazione, che peraltro viene annotata in questo volume nel capitolo La parola tecnologica, è dall'humus della scrittura, tracciata dalla già citata mano «scrivente» dell'uomo, che nasce la nostra intenzione di esaltare la filografia, non solo in quanto analisi di contenuti e di autorevoli autografi, ma anche in veste di vero ed esplicito oggetto da collezione. Un oggetto da collezione che negli intendimenti di questo volume deve essere guardato e possibilmente raccolto e conservato sin dai suoi albori, attraverso le sue più variegate ed emozionanti tracce. Questo percorso cronologico ci porta anche a un capitolo che non ha invece bisogno di alcun contributo per essere conosciuto ed esaltato. Intendiamo quello filatelico, che esprime quanto può essere definito il «Rinascimento» della comunicazione scritta, in quanto si deve ascrivere all'invenzione del francobollo quel processo di divulgazione dell'informazione che ha dato vita al fenomeno della globalizzazione delle notizie e del sapere. Un «motore postale» che, attraverso la sua esistenza e soprattutto la sua testimonianza, ha portato la parola scritta anche nel cielo e poi nello Spazio. La parola scritta, che emana fascino e interesse in ogni forma del suo manifestarsi e che oggi dà segni sempre più evidenti di «vecchiaia», proprio per questa sua evidente ragione deve essere guardata con sempre maggior interesse e curiosità antiquarial-collezionistica. Ciò le è dovuto, in quanto molto probabilmente dopo circa quattro millenni di impegno per narrare la nostra evoluzione, la mano «scrivente» dell'uomo si è sentita stanca e ha deciso di «dematerializzarsi» per rendere sovente anche meno faticoso il lavoro del nostro cervello. ALBERTO BOLAFFI | << | < | > | >> |Pagina 22Lettera di Plinio il Giovane a Gemino (109 d.C. circa)Caro Gemino, mi esalti, sovente di presenza e ora anche per lettera, l'amico tuo Nonio, per la sua generosità verso taluni; e io pure lo lodo, purché non lo sia solo con costoro. Penso infatti che un uomo sia veramente generoso se benefica la sua patria, i congiunti, gli affini, gli amici, ma intendo gli amici poveri; non come quelli che sono generosi verso coloro da cui possono essere ricambiati con doni anche maggiori. Costoro io credo che con il vischio e l'esca dei propri doni, non diano il proprio agli altri, ma scrocchino l'altrui. Sono simili a loro per carattere quelli che tolgono agli uni, ciò che donano agli altri; e si fanno con l'avarizia una fama di generosità. Bisogna dunque essere anzitutto contenti di ciò che si ha, poi, soccorrendo e favorendo chi sai essere particolarmente in bisogno, creare una specie di cerchia della benevolenza. Se il tuo amico fa tutte queste cose, è da lodare senza restrizione; se ne fa solo qualcuna, è sempre da lodare, meno però: è infatti ben raro l'esempio di una generosità anche se non perfetta. Gli uomini sono invasi da una tale avidità che sembra siano posseduti dai loro beni, più che possederli. Addio.
Plinio il Giovane,
Lettere ai familiari,
a cura di L. Lenaz, Rizzoli, Milano 1994, vol. I.
Adottato dallo zio Plinio il Vecchio, e allievo di Quintiliano, Gaio Plinio Cecilio Secondo (61-112 d.C. circa) fu brillantissimo avvocato, nonché questore, tribuno della plebe, pretore, console e legato imperiale di Traiano in Bitinia, la regione dell'Asia Minore nordoccidentale dove morì. Nelle Epistulae, la sua opera più nota, in dieci libri, seppe ritrarre con acume e ironia la vita quotidiana a Roma, potentissima capitale di un impero all'apice della sua espansione. Il testo qui riprodotto è quello della trentesima lettera contenuta nel nono libro. | << | < | > | >> |Pagina 40Lettera di Niccolò Machiavelli a Luigi Guicciardini (8 dicembre 1509)Affogaggine, Luigi; et guarda quanto la fortuna in una medesima faccenda dà ad li huomini diversi fini. Voi, fottuto che voi havesti colei, vi è venuta voglia di fotterla et ne volete un'altra presa; ma io, stato fui qua parechi dì, accecando per carestia di matrimonio, trovai una vechia che m'imbucatava le camicie, che sta in una casa che è più di meza sotterra, né vi si vede lume se non per l'uscio. Et passando io un dì di quivi, la mi riconobbe et, factomi una gran festa, mi disse che io fossi contento andar un poco in casa, che mi voleva mostrare certe camicie belle se io le volevo comperare. Onde io, nuovo cazzo, me lo credetti, et, giunto là, vidi al barlume una donna con uno sciugatoio tra in sul capo et in sul viso che faceva el vergognoso, et stava rimessa in uno canto. Questa vechia ribalda mi prese per mano et menatomi ad colei dixe: «Questa è la camicia che io vi voglio vendere, ma voglio la proviate prima et poi la pagherete». Io, come peritoso che io sono, mi sbigottì tucto; pure, rimasto solo con colei et al buio (perché la vecchia si uscì subito di casa et serrò l'uscio), la fotte' un colpo; et benché io le trovassi le coscie vize et la fica umida et che le putissi un poco el fiato, nondimeno, tanta era la disperata foia che io havevo che la n'andò. Et facto che io l'hebbi, venendomi pure voglia di vedere questa mercatantia, tolsi un tizone di fuoco d'un focolare che v'era et accesi una lucerna che vi era sopra; né prima el lume fu apreso che 'l lume fu per cascarmi di mano. Omè! fu' per cadere in terra morto, tanta era bructa quella femina! [...]. Niccolò Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1961. | << | < | > | >> |Pagina 62Lettera di Giacomo Leopardi ad Antonietta Tommasini (5 luglio 1828)Mia carissima Antonietta. Dall'amorosissima vostra ultima conosco che fu veramente un'imprudenza la mia di scrivere all'Adelaide quelle poche righe che vi hanno cagionato tanto dispiacere. La bile me le dettò, e io le lasciai correre: poi me ne pentii subito, e me ne pento ora maggiormente. Ma come assicurai allora l'Adelaide, così adesso vi giuro, che l'amore che io porto infinito agli amici e ai parenti, mi riterrà sempre al mondo finché il destino mi ci vorrà; e di questa cosa non si parli mai più. Intanto non vi posso esprimere quanto mi commuova l'affetto che mi dimostrano le vostre care parole. Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né d'altre cose simili; ma ho bisogno d'amore: potete immaginare quanto conto ne faccia, e in quanto gran pregio io lo tenga, trovandolo così vivo e sincero in voi e nella vostra famiglia, i quali amerei di tutto cuore, quando anche non ne fossi amato perché così meriterebbero le vostre virtù da per se sole. Io sto non molto bene, e questa cosa mi dispiace, perché non posso far nulla e non posso muovermi; ma i miei mali fin qui non son tali che meritino l'onore di produrre un allarme. Perciò quantunque il desiderio che ho di rivedervi sia sommo, vi dico però sinceramente che mi dispiacerebbe che intraprendeste il viaggio di Firenze per sola cagion mia. Quanto alle mie nuove io non mancherò di darvene di mano in mano, come voi vorrete [...].
Giacomo Leopardi,
Epistolario,
a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
Una delle non molte missive del contino Giacomo Leopardi (1798-1837), in età di trent'anni, a una corrispondente del sesso gentile (le donne, da cui aveva patito poche, ma cocenti delusioni, lo spaventarono sempre). Lui sta a Firenze in un'estate torrida, lei, il marito - un illustre clinico - e la figlia Adelaide a Bologna: una distanza non invalicabile, nonostante l'Appennino. Ma lui è malato, l'amico Ranieri lontano, dietro a un'attricetta. Forse per questo sgorga quella confessione: «Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né d'altre cose simili: ma ho bisogno d'amore...». | << | < | > | >> |Pagina 90Lettera di Victor Hugo a G. Tissandier (9 marzo 1869)Io credo, signore, a tutti i progressi. Alla navigazione oceanica fa seguito la navigazione aerea; dall'acqua l'uomo deve passare all'aria. Ovunque il creato gli consentirà di respirare, l'uomo vi penetrerà. Il nostro unico limite è la vita. Là dove cessa la colonna d'aria la cui pressione impedisce alla nostra macchina di scoppiare, l'uomo si deve fermare. Ma egli può, deve e vuole arrivare fin là, e ci arriverà. Voi ne siete la prova. Seguo con il massimo interesse i vostri utili e coraggiosi viaggi perpendicolari. Il vostro ingegnoso e audace compagno M. W. de Fonvielle possiede l'istinto superiore della vera scienza. Anch'io parteciperei della fiera inclinazione per l'avventura scientifica. L'avventura nel fatto, l'ipotesi nell'idea: ecco i due grandi processi della scoperta. Certo, il futuro è nella navigazione aerea, e il dovere dell'oggi è di lavorare per il domani. E voi, questo dovere, lo state adempiendo. Io, solitario ma attento, vi seguo con lo sguardo e con forza vi dico: Coraggio!
Victor Hugo,
Correspondance,
a cura di J. Rouff, Editions Jules Rouff, Parigi 1898-1902, Tomo 3.
Chimico di formazione, Gaston Tissandier (1843-1899) divenne aeronauta per approfondire i suoi studi di meteorologia. Compì la sua prima ascensione nel 1868 nei pressi di Calais, onde studiare le correnti aeree della Manica. A quel primo volo ne sarebbero seguiti molti altri, durante i quali avrebbe superato prima i cinquemila metri di altitudine (1870) e poi gli ottomila (1875). Nel 1883, con il fratello Albert, avrebbe per la prima volta utilizzato l'elettricità nella navigazione aerea, sperimentando con successo un piccolo dirigibile munito di elica a motore. | << | < | |