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| << | < | > | >> |IndicePREMESSA 7 INTRODUZIONE 9 Stati mentali e stati psicopatologici 11 di Massimo Biondi intervistato da Guido Traversa «Perché ero più sano dei dottori». 37 Terapie endogene ed empatia di Luca Nostro, Guido Traversa «Io sono quello che sono». La tautologia 47 nella fenomenologia della depressione di Dorthe Berntsen Le emozioni degli altri: verso nuove terapie 61 dei disturbi emozionali di Gian Luigi Lenzi intervistato da Brunella Antomarini e Luca Nostro Per una bioestetica. Note sull'arte della medicina 73 di Brunella Antomarini Emicrania: la meta-malattia scambiata per metà 79 malattia di Ambrogio Borsani Il decorso naturale della malattia: ciò che 85 il medico non può ignorare. Il caso emblematico delle patologie muscoloscheletriche Gianluca Cinotti Il laboratorio biomedico come luogo di intersezione 89 filosofica Dario Sacchini Un respiro di sollievo. Sulle terapie respiratorie 113 Cecilia Pizzi Il concetto di modello reattivo come strumento 121 ermeneutico: oltre l'omeopatia Luigi Turinese La signora C.: un caso di cura della depressione 131 Monica Fadda Sulla storia naturale della coscienza 137 Franco Voltaggio SED CONTRA 145 SUMMARIES 149 INDICE DEI NOMI 152 HANNO COLLABORATO 155 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Con questo volume intendiamo mettere in evidenza tutti quegli aspetti della scienza medica che possono far riflettere sulle attività scientifiche che si applicano direttamente al mondo umano. Dando per scontato alcuni assunti che sembrano ormai generalmente accettati almeno in sede teorica: - la consapevolezza della mancanza di un limite netto e definitivo tra la malattia e la salute; - l'esperienza, non solo clinica, della malattia anche come una forma di conoscenza e, al minimo, come uno stato di alterazione della coscienza e del mentale; - la storicità (sociale e culturale della nozione di malattia; la questione è allora quella di affrontare i problemi epistemologici, logici e, diciamo così, di «comportamento» etico che conseguono da questi assunti e, insieme, tanto dalla prassi scientifica della medicina (cioè dal momento della ricerca nomologica), quanto dalla sua concreta attività clinica (il momento idiografico); ci si è trovati pertanto ad invitare gli autori del volume a ripensare, in base alla propria specifica attività di ricerca, alcuni punti: - il concetto di causa: il fatto che la causa di una malattia non sia univoca; che spesso tanto il ricercatore quanto il clinico si muovano per necessità tra molte cause concorrenti, senza poter ignorare il ruolo delle contingenze (compresa la stessa relazione terapeutica): ciò rende manifesto il carattere antideterministico delle indagini sulle connessioni causali (Turinese); - la complessità epistemica della nozione di terapia (Berntsen, Biondi, Traversa, Nostro, Antomarini), che implica una certa indistinzione tra il soggetto e l'oggetto, sia se per soggetto si intende il paziente e per oggetto la malattia, sia se per soggetto si intende il terapeuta e per «oggetto» l'individuo malato; l'imprescindibilità di una simile indistinzione conduce a poter affermare che c'è sempre un elemento di attivazione endogena della terapia e quindi un lavoro medico centrato sull'esperienza diretta, empatica, da parte del medico e del paziente della molteplicità disomogenea dei tanti dettagli ed effetti che costituiscono una determinata affezione; da ciò la necessità di accompagnare il modello della spiegazione a quello della descrizione. Per questo ordine di motivi si è dato un certo rilievo a - la questione della classificazione delle malattie e al conseguente rapporto classe-individuo, ai diversi modelli di spiegazione medica (Cinotti, Voltaggio, Lenzi) e di ricerca laboratoristica (Sacchini), e al tipo di protocolli (Pizzi) che ne possono derivare; a tal fine la descrizione di alcuni casi clinici è stata di fondamentale importanza (Fadda). Una simile dimensione problematica ci ha portato ad evidenziare un ulteriore aspetto su cui invitare a riflettere: il fatto che la medicina si muove sempre tra eziologia e fenomenologia (Borsani), senza soluzione di continuità. Da ultimo ci è apparso necessario almeno sollevare la questione di come tali problemi di filosofia della medicina possano agire sul concreto operare clinico. Il lavoro del clinico corrisponde, alla luce del variegato materiale raccolto, a una scienza dell'individuale, in cui guarire e curare si integrano costantemente, senza che mai l'uno possa prevalere sull'altro. Roma, agosto 2001 | << | < | > | >> |Pagina 11Nel tuo libro, La mente selvaggia, dici che la «malattia» è un concetto di cui non si può fare a meno, ma per due motivi principali, la cultura e i cambiamenti delle teorie scientifico-mediche, il concetto di malattia cambia. A livello della ricerca scientifica in psichiatria come gestisci il peso di questa consapevolezza, cioè del fatto che in base al paradigma di spiegazione usi un particolare concetto di malattia e che, in un certo senso, il concetto di malattia può cambiare? Insomma che cosa è il concetto di malattia mentale a partire dal tipo di scienza che tu praticbi? È una domanda basilare, che centra l'essenza stessa della psichiatria. Credo che ciascun psichiatra faccia all'inizio della sua carriera un parto con se stesso, che viene tramandato dagli altri suoi colleghi, patto che lo rende un po' differente dal medico generale o di altre specializzazioni. Il patto è questo: «accetto che nella mia disciplina, almeno attualmente, le diagnosi non possono in genere essere formulate mediante strumenti di laboratorio e di rado potrò fondarmi su riscontri oggettivi come in altri campi della medicina che ho studiato. La dimensione soggettiva ha in questo campo, forse più di ogni altra branca della medicina, un ruolo fondamentale. Mi devo preparare a questo e accettarlo, nel bene e nel male, in ogni condizione». La materia fondamentale con cui lo psichiatra lavora sono pensieri, comportamenti, emozioni (dell'altro e suoi), ed egli si deve basare su sintomi e segni che rileva dal comportamento, dal colloquio, dall'interazione con il paziente, dal racconto della sua storia. Il medico generale invece si basa presso che esclusivamente sulla storia, sui sintomi e su segni obiettivi dell'esame fisico. Intendiamoci: è sbagliato identificare lo psichiatra con uno che parla e ascolta soltanto, e si occupa di una «mente senza corpo». Anche lo psichiatra è medico e ogni diagnosi la basa anche sull'esame fisico. Varie patologie fisiche si presentano con sintomi di tipo psichiatrico, ad esempio disturbi d'ansia, depressivi, deliranti. Spesso occorre effettuare attente diagnosi differenziali. Lo psichiatra è uno che per professione deve rispecchiare, riflettere, oltre che comprendere e agire. Sono alla base del suo curare. È la specialità della medicina in cui la persona conta di più. Spesso non vi è null'altro in mano per confermare o confutare un'ipotesi diagnostica: questo paziente ha una depressione? Un disturbo d'ansia? Un disturbo di personalità? Non esiste nessun esame di laboratorio che lo confermi, almeno per ora. Lo strumento diagnostico principale, per così dire, è solo lo psichiatra stesso! Quali le ragioni di questa differenza della psichiatria rispetto ad altre discipline mediche? Esistono persone che stanno male e mostrano un insieme di sintomi sul piano del comportamento e intrapsichico, riferiscono in genere (anche se non tutti) uno stato di sofferenza, spesso hanno la loro vita interpersonale e di lavoro compromessa, ma non troverai (tranne che nelle cosiddette «sindromi psicorganiche», oggi dette «patologie psichiatriche secondarie a cause mediche») corrispondenti alterazioni o lesioni del cervello così come ne trovi per altre malattie (per esempio, infarto, polmonite ecc.) che danno invece corrispondenti riscontri all'esame degli organi, dei tessuti. In altri termini, non trovi alterazioni evidenti a livello di organi, e ai sintomi non corrisponde un segno oggettivo: in psichiatria questo tipo di corrispondenza in genere non si dà. Si cerca da decenni, ed è una storia di ripetute illusioni e delusioni. La diagnosi in psichiatria, il riconoscimento di uno stato di malattia, procede dunque sulla base di sintomi e segni che vengono raggruppati in insiemi, che sono ritenuti tipici, ad esempio la malattia che chiamiamo «A» è fatta dei sintomi «uno» «due» «tre», invece la malattia che chiamiamo «B» dai sintomi «quattro», «cinque» e «sei» (diagnosi sindromiche). Non sempre vi è accordo tra gli psichiatri tra il nome esatto da dare a un certo raggruppamento di sintomi, oppure se quella sindrome costituisca veramente un'entità a sé stante: anzi, è tipica la storia di disaccordi. Un sintomo come l'ansia può essere presente in patologie diverse. Il campo delle diagnosi psichiatriche fino agli anni '70 è stato uno dei più problematici. Vi sono rare eccezioni, quali i disturbi da stress post-traumatici, certe depressioni indotte da gravi lutti, alcuni disturbi d'adattamento (un tempo chiamate nevrosi o sindromi reattive) dove l'agente eziologico è identificabile e la diagnosi viene fatta sulla base della causa (diagnosi eziologiche). In questo senso un manuale per la diagnosi basato sulla osservazione dei sintomi come il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM IV) dell'American Psychiattic Association o l' International Classification of Diseases - Behavioural Section, ICD-10 della Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno fatto ordine ed aiutato a trovare più accordo tra i clinici. Un altro modo di procedere ad una diagnosi, spesso affiancato al precedente è quello dell'andamento del fenomeno osservato nel tempo: l'andamento della depressione nel tempo è distinto da un alternarsi frequente di «episodi» di malattia, e di periodi di benessere. Le depressioni sono distinte in «unipolari» (ovvero solo con episodi di deflessione del tono dell'umore), oppure «bipolari», dove episodi di deflessione ed episodi di euforia (mania) si alternano. In sintesi, in psichiatria le diagnosi sono «sindromiche» e non «eziologiche»: in psichiatria la diagnosi la faccio per raggruppamenti di sintomi che osservo, ricorrenti insieme in gruppi tipici in alcuni malati (un depresso è triste, piange, non mangia, dorme male, è stanco, ha ridotto i suoi interessi ecc.) piuttosto che per identificazione di cause. La medicina invece ha diagnosi anche per eziologia e/o per patogenesi: rintraccia il microbo, l'agente patogeno, il tipo di alterazione di organi o tessuti. Le polmoniti le classifico secondo l'agente causale: batterico, virale, fungino ecc., e molte altre malattie in medicina sono classificate secondo il processo (patogenesi) che caratterizza una certa condizione di malattia e con cui essa tipicamente si presenta. La classificazione della anatomia patologica e della patologia medica è molto ricca di esempi di questo tipo. | << | < | > | >> |Pagina 471 - INTRODUZIONE Dal momento che nell'asserzione tautologica il predicato non aggiunge nessuna informazione sul soggetto, è un «errore logico». L'assertore anticipa nel soggetto il contenuto del predicato. Ma la tautologia è anche un tropo classico. Asserzioni del tipo «sono quello che sono» e «sarà quel che sarà», oppure «i ragazzi sono ragazzi» sono molto comuni nel linguaggio quotidiano, o anche nella musica popolare. Berntsen e Kennedy (1996) sostengono che la tautologia come figura dei discorso serva spesso a esprimere un atteggiamento di resistenza verso il cambiamento e lo sviluppo, come quello conservatore aristocratico, o di rassegnazione o di autocommiserazione. E a trasmettere questo atteggiamento è la forma non informativa del tropo. La tautologia viola la convenzione metalinguistica secondo cui il significato di un'asserzione dovrebbe svilupparsi dal soggetto al predicato, ed è in particolare questa violazione, o contraddizione, a trasmettere l'atteggiamento di resistenza, secondo Berntsen e Kennedy. Lakoff and Johnson (1980) hanno sostenuto che i tropi sono modi di pensare e non solo di parlare, che il sistema concettuale è strutturato metaforicamente e i concetti astratti si capiscono in termini di schemi di fenomeni concreti, cioè di movimenti nello spazio. In particolare la ricerca si è concentrata su metafora e metonimia (per esempio Lakoff 1987; Johnson 1987; Gibbs 1994) ed è stata criticata (per esempio Berntsen 1999; Kennedy, Vervaeke 1993; Vervaeke, Kennedy 1996). Non voglio qui ribadire la mia difesa del punto di vista lakoffiano, secondo cui il sistema concettuale è strutturato figurativamente, ma intendo solo mostrare che la tautologia è rilevante per caratterizzare il tipo di idea che una persona depressa si fa di se stessa, utilizzando le descrizioni cliniche, letterarie o estetiche della depressione. Suggerirò che la tipica immagine di sé di una persona depressa può essere parafrasata come: «io sono quello che sono (cioè un fallimento)». La tautologia esprime un atteggiamento di disperazione e passività. Al livello del corpo, questo atteggiamento è accompagnato da una profonda diminuzione di energia e di attività pratica. Inoltre, suggerirei che l'immagine di sé tautologica e negativa derivi da una narrazione esistenziale piuttosto schematica di idee reciprocamente disgiuntive, di felicità o infelicità, che ricorda quello che in psicoanalisi si chiama scissione (splitting). Ritengo che i ricordi autobiografici accompagnati da una riattivazione sensoriale di esperienze passate possano aiutare la persona depressa a riguadagnare il senso del valore personale nella sua unicità e il sentimento di essere vivi al livello corporeo della realtà. Mostrerò esempi dalla letteratura clinica e dalla letteratura autobiografica per illustrare questi punti, cominciando dalla letteratura clinica sulla depressione. | << | < | > | >> |Pagina 79Gin a body meet a body Coming through the rye; Gin a body kiss a hody, Need a body cry? Robert BurnsSi può vedere la malattia come il territorio estremo del linguaggio. Il campo dove gli alfabeti dell'uomo giocano la battaglia finale. Da una parte c'è il malato che raccoglie segni dentro l'oscurità della sua deviazione e li trascina fuori. Dall'altra c'è il medico che legge i reperti e prepara le risposte da sparare all'avversario. Tutto il gioco è nelle mani di questi due lettori. Si deve ancora stabilire chi serve meglio la causa della rinascita. Non sappiamo se abbia più meriti l' Intelligence che spiandosi fornisce informazioni precise sulle postazioni del Male, oppure il Generale che dopo aver letto le mappe decide la controffensiva. Ma tutti questi movimenti di spionaggio e tutte queste strategie belliche non hanno impedito ad alcune malattie di resistere nei secoli dei secoli agli attacchi concentrici degli eserciti dei curatori. Ci sono mali che perdono qualche battaglia, ma mai la guerra. Dopo aver fatto compagnia all'uomo di Neanderthal e a quello di Cro-Magnon, ai babilonesi, ai greci e ai romani, l'emicrania arriva nell'era di Internet con tutta la freschezza di chi ha saputo costruire strategie efficaci per mantenere un potere millenario, adattandosi a tutte le mutazioni dell'uomo. Dal suo quartier generale, nascosto nelle ultime trincee dell'Io, dove la coscienza non osa avventurarsi per paura di agguati spaventosi, l'emicrania continua a lanciare le sue offensive terroristiche. «Senza dubbio tutte le generazioni della specie umana, con la sua storia di 25.000 anni, hanno conosciuto questa costellazione di disturbi. Tuttavia, è opinione molto diffusa, tanto fra il pubblico quanto fra i medici, che sull'emicrania si sappia poco», dice Oliver Sacks nella sua straordinaria summa sull'argomento: Emicrania. Si sa poco perché ancora oggi l'emicrania si avvale della facoltà di non rispondere alle rogatorie internazionali di chi la vorrebbe giustiziata. Agisce come una società off-shore che da invisibili paradisi fiscali impoverisce la macchina uomo a beneficio di non si sa quali negrieri di anime. E le strategie dell'emicrania non si risolvono nella sfera della sofferenza fisica e psichica. Agiscono anche dentro il sociale. Quando la malattia presenta contorni astratti, il malato non può servirsene per assentarsi dagli impegni che la società gli ha affidato. Spesso egli è costretto a inventare malattie più accettate come impedimento al discutibile attivismo dell'uomo. L'emicrania non viene riconosciuta come malattia perché appartiene più alla sfera delle «metamalattie», delle malattie che vanno oltre il concetto di non-salute, delle malattie non provabili, delle malattie metafisiche, delle malattie invisibili. Per questo usate anche dai cialtroni della salute per accampare scuse sugli appuntamenti mancati, esibite come alibi da chi vuole saltare un giro nel gioco erotico. E così viene vista come malattia a metà, malattia dimezzata. All'emicrania lo statuto di giusta causa per un'assenza non è concesso. Il manager che abbandona la sua scrivania per una «semplice» emicrania verrà bollato come un irresponsabile che lascia la nave per un semplice mal di testa da signorina mestruata. E allora la vera signorina mestruata e per di più emicranica, cosa dovrà fare? Che difese avrà se si è messa in testa di diventare manager e magari per disgrazia ci è riuscita? Al dirigente non è dato di soffrire per mali vagamente legati alla sfera della psiche. Vorrebbe dire che non manifesta una totale adesione al progetto di felicità aziendale in cui è coinvolto. E per questo progetto il corpo non basta, è richiesta anche la partecipazione dell'anima. | << | < | > | >> |Pagina 137l. INTRODUZIONE Esiste una storia della coscienza così come esiste una storia dell'uomo. Se volessimo scriverne tutti i momenti cruciali, quale che fosse l'approccio da noi scelto, naturalistico o spiritualistico - per limitarci alle due opzioni più comuni - saremmo costretti a procedere a ritroso per un percorso lunghissimo che, probabilmente, andrebbe assai più lontano del milione di anni fa quando, per convenzione comune, avrebbe fatto la sua comparsa l' homo sapiens. Dovremmo forse riandare alle origini dell'universo o, almeno, all'apparizione della vita sulla Terra che i biologi datano a circa quattro miliardi e mezzo di anni fa. Cionondimeno non crediamo che, in sé e per sé, l'animale umano meriti una riflessione di portata metafisica tanto ampia, né, a pensarci bene, siamo più vittime della petulanza speculativa - o forse della magnifica ossessione - di un Newton che intendeva proporre il conteggio esatto dei tempi della creazione dal suo esordio sino al XVIII secolo. Tutto sommato, la nostra coscienza è fatta del vissuto di tante piccole cose, un cruccio quotidiano, la nostalgia di un antico amore, l'umiliante ripetitività delle abitudini, piccoli dolori, modeste speranze, tutti fatti che davvero non meritano un'attenzione tale da porre il nostro io al centro del cosmo. Preferiamo perciò chiudere la storia della coscienza nella contemporaneità da quando filosofi prima e scienziati poi ne hanno fatto la protagonista di una romantica avventura. Non a caso perciò la nostra riflessione prende le mosse dalla Fenomenologia dello spirito di Hegel, il massimo esponente della filosofia classica tedesca e nel contempo il significativo epigono del tardo illuminismo. 2. LE AVVENTURE DELLA COSCIENZA Il culmine dell'ultima vera opera della filosofia contemporanea, per l'appunto la Fenomenologia hegeliana, inizia come il recitativo di un'opera lirica o meglio come una complicata e suggestiva sinfonia - nella quale si avverte l'eco della «pazza musica» (Mozart e Beethoven) che Hegel prediligeva - scandita, di volta in volta, da «adagio», «allegretto», «crescendo», «andante con moto». L'io vi è presentato come un infante che ha in sé tutte le possibilità di uno sviluppo destinato a realizzarsi, talché il momento iniziale, quello della mera certezza sensibile, contiene in nuce tutte le fasi dell'evoluzione successiva e, del pari, a sua volta, il momento finale, quello dell'avvento dello spirito soggettivo, sembra riassumere in sé, in una gratificante ricapitolazione, tutte le tappe attraversate dalla coscienza. La conclusione di questo lungo viaggio, «le ferite dello spirito guariscono senza lasciare traccia. La parola della conciliazione è il concreto spirito, esistenziale, l'individuo» (Hegel 1973: 173), pare trasudare pianto: lacrime che, disperate come quelle del fantolino quando viene alla luce, diventano consolatorie ora che l'io si è definitivamente formato. Possiamo immaginare questa coscienza o io come quella propria di un corretto borghese tedesco del primo Ottocento: uomo dedito al lavoro, alla patria cittadina, alla famiglia, al decoro. Un gentiluomo affabile e riservato a un tempo, come gli eroi dei Buddenbrook in cui, tuttavia, sembra trasparire una sottile angoscia, il timore di perdere tutto quello che si è conquistato. In una parola il senso della precarietà delle fortune e dell'esistenza stessa che costituisce il segreto - la croce e la delizia - dell'esser borghesi. In tutto questo forse sembra esserci la traccia di qualche cosa di ignobile: l'assoluto viene identificato in una bella casa, nell'andarnento sicuro degli affari, nella condotta (che si spera lungimirante e onesta) del patrio governo, nella rinuncia ai fermenti e ideali rivoluzionari da cui pur la borghesia è nata. Lo stesso equilibrio è spesso apparente. La crescita delle masse, il selvaggio andamento del capitalismo, l'inclinazione sospetta per l'arte in un eventuale rampollo degenere, sono tutti fattori che annunciano una prossima inevitabile rovina. Eppure il tratto meschino di questo avvento della coscienza è riscattato da qualche cosa che muta il desolante affetto della paura in altri, ben diversamente nobili affetti: il coraggio, fratello gemello della paura, e il disperato tentativo di mantenere a ogni costo la dignità. Questi due affetti conducono a poco a poco il borghese a delegare alla scienza, in particolare alla medicina e alla biologia, il compito di rovistare nel fango e di assolutizzare la miseria da cui è nata la borghesia elevandola al rango della sigla stessa della condizione umana a riguardo della quale si può ripetere con la Bibbia «inter faeces et urinas nascimur». Questa delega appare evidente già in quella singolare figura di gentiluomo vittoriano che fu Charles Darwin, nel cui lavoro di ricostruzione del mondo della vita l'uomo è ancora riguardato come il vertice dell'evoluzione (come la borghesia vuole), a patto, tuttavia, di riconoscere i fecali da cui l'umanità è nata (una condizione che il sentimento borghese comune continua a riconoscere come umiliante e che accetta a malincuore, facendone il contenuto di un'ipotesi scientifica tra le tante). In realtà, la prima naturalizzazione della coscienza comincia all'alba del XX secolo quando, inopinatamente, un riservato esponente della borghesia mediatica, un tipico esemplare di Herr Professor, Sigmund Freud, comincia a rovistare nelle alcove rispettabili e vi scopre una vera e propria «suburra dei sentimenti», il continente delle pulsioni sessuali e forse, soprattutto, delle pulsioni di morte. Quando, in quello straordinario testo che è Inibizione sintomo e angoscia (1925), Freud fa scaturire l'io da un processo metastorico che lo vede come la «porzione organizzata dell'es», i giochi sono ormai conclusi. L'io o coscienza è divenuto definitivamente il contenuto di una storia naturale.
In questo - come ebbe a sostenere Theodor Wiesengrund
Adorno in un celebre aforisma dei
Minima Moralia,
«l'ultimo grande teorema dell'autocritica borghese è
divenuto un mezzo per assolutizzare l'autoalienazione
borghese nella sua ultima fase» (Adorno 1988: 79, tr.
nostra) - si compie il lungo cammino iniziato con Hegel. Se
c'è qualcosa di cui vergognarsi, questa vergogna è rispedita
a un ipotetico mittente, il Dio crudele che così ha voluto
fosse la natura wnana. Allora non resta che studiarla e
vedere ogni colpa, menda e peccato come ripetizione di
eventi metastorici.
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