Copertina
Autore Andrew Abbott
Titolo I metodi della scoperta
SottotitoloCome trovare delle buone idee nelle scienze sociali
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007, Sintesi , pag. 245, cop.fle., dim. 14,5x21x1,5 cm , Isbn 978-88-424-2013-2
OriginaleMethods of Discovery. Heuristics for the Social Sciences [2004]
CuratoreMarco Santoro
TraduttoreMario Vigiak
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe scienze sociali , sociologia , epistemologia
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Indice

VII  Prefazione
     L'immaginazione come metodo
     e il futuro delle scienze sociali
     di Marco Santoro

  3  Ringraziamenti
  5  Al lettore

  7  1. Spiegazione

 11     Spiegazione
 15     Metodi
 27     Programmi esplicativi

 41  2. Dibattiti fondamentali e pratiche metodologiche

 42     I dibattiti fondamentali
 51     Metodi e dibattiti
 57     Cicli di critica
 69     Dalla critica all'euristica

 73  3. Introduzione alle euristiche

 73     L'idea di euristica
 80     Le euristiche di "routine" della scienza normale
 83     Topica e luoghi comuni

 99  4. Euristiche generali: ricerca e argomento

101     Euristiche della ricerca
107     Euristiche dell'argomento

121  5. Euristiche generali: descrizione e narrazione

121     Euristiche descrittive
128     Euristiche narrative

141  6. Euristiche frattali

145     Positivismo e interpretativismo
148     Analisi e narrazione
154     Behaviorismo e culturalismo
158     Individualismo ed emergentismo
161     Realismo e costruzionismo
165     Contestualismo e non-contestualismo
170     Scelta e vincoli
173     Conflitto e consenso
177     Conoscenza universale e conoscenza situata

181  7. Idee ed enigmi

182     Le verifiche delle idee
189     Gli altri
193     La letteratura
197     Il "gusto"
200     La personalità
207     Gli enigmi

213  Glossario
221  Bibliografia
231  Indice analitico

 

 

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Pagina 7

1. Spiegazione


La scienza è un dialogo fra rigore e immaginazione. Da un lato essa propone, dall'altro valuta: ogni valutazione conduce a nuove proposte dalle quali si ricomincia, e così via.

Per molti, le scienze sociali più che un dialogo sono un monologo, ovvero un lungo discorso culminante in una domanda ufficiale che alla realtà, come a una docile eroina della letteratura vittoriana, non lascia altre risposte che sì oppure no. Nessun ricercatore degno di questo nome, tuttavia, nutre fiducia in questo genere di monologhi. Egli conosce bene l'incessante scambio fra le esigenze dell'intuizione e quelle del metodo, così come la tendenza della realtà a eludere i suoi sforzi prendendosene gioco. Le scienze sociali in pratica sono più "soap opera" che romanzo vecchio stile.

La versione monologica delle scienze sociali è di certo più facile da descrivere. Molti sono i libri di grande interesse sui suoi meccanismi: come proporre un tema, come progettare una ricerca, come acquisire e analizzare dati, come estrapolare inferenze. Numerosi, poi, quelli che si concentrano sui modi particolari di eseguire questi compiti, i "metodi", così definiti: etnografia, survey, analisi di dati secondari, metodi storici e comparativi ecc. Benissimo, nulla da eccepire.

In questi libri però viene dimenticata l'altra voce: quella dell'immaginazione che, per quanto strana, originale, sorprendente, è una dimensione — il momento della scoperta nelle scienze sociali — più sistematica di quanto possiamo pensare. Le mosse dell'immaginazione sono comunemente impiegate dagli scienzati sociali come atti mentali che favoriscono la scoperta.

Come negli scacchi, queste mosse del pensiero sono formule per dischiudere, espandere e mettere in atto nuove possibilità. Alcune sono di ordine generale, implicite nella natura della prova e della descrizione, mentre altre sorgono nelle dispute concettuali che innervano le discipline. Esse funzionano all'interno di qualsiasi metodo. Nelle scienze sociali, danno luogo a un'euristica, attraverso cui vengono scoperte tutte le idee nuove.

L'euristica è quel che ci occorre poiché, come si è detto, il fascino della metodologia non basta a conquistare la realtà sociale. In veste di studiosi, ci proponiamo di dire qualcosa di interessante – forse persino di vero – su questo tema. D'altra parte, è insufficiente la risposta che viene offerta anche al più elaborato dei nostri monologhi metodologici, sono esili le correlazioni che si ricavano anche dai più completi questionari, ingenue le evidenze che emergono anche dopo mesi di zelante osservazione etnografica, soporiferi i resoconti che si producono in anni di ricerche d'archivio. La realtà sociale pretende attenzioni più premurose; vuole rigore e immaginazione.

Questo è un libro di euristica, che suggerisce come usare l'immaginazione scientifica nella ricerca sociale. Poiché sono un sociologo, molti dei miei esempi provengono dalla mia disciplina, ma non tutti, dal momento che le scienze sociali sono intrecciate fra loro, condividendo oggetto di studio, prospettive teoriche e una sorprendente quantità di metodologia. D'altra parte, manca loro una sistematizzazione, dato che assumono ciascuna il proprio orientamento a partire da varie situazioni storiche. In prima approssimazione, l'economia si basa su un principio teorico (l'idea di scelta vincolata), la scienza politica su un aspetto dell'organizzazione sociale (il potere), l'antropologia su un metodo (l'etnografia), la storia su un aspetto della temporalità (il passato) e la sociologia su una lista di argomenti (disuguaglianze, sistema urbano, famiglia e così via). Perciò, non esiste un unico criterio per distinguere fra una disciplina e l'altra. Ne consegue che, quando l'una o l'altra disciplina cominciano a rendersi anche solo un po' noiose, le altre ne approfittano per mettere a frutto le sue idee migliori in altri settori. È un andirivieni che permette a un libro come questo di spaziare liberamente fra gli argomenti, ciò che faremo senz'altro nelle pagine successive.


Nei primi due capitoli vengono presentati gli obiettivi, i mezzi e le ipotesi della ricerca sociale. Comincio, in questo stesso capitolo, con la spiegazione, poiché essa resta il proposito fondamentale della sociologia. Poi illustro alcuni tipi di metodo, cioè i modi in cui gli scienziati sociali hanno cercato di ottenere un certo livello di rigore. Tali metodi vengono qui considerati come attuazioni di "programmi esplicativi", per i quali valgono i diversi concetti di spiegazione precedentemente illustrati.

Il Capitolo 2 segue un approccio più tradizionale. Definisco i metodi attraverso un complesso di nove temi teorici. Anzitutto ne fornisco una presentazione, quindi li descrivo in termini del tutto tradizionali (cosa che ho omesso di fare nel Capitolo 1) attraverso queste nove tematiche. Poi abbandono le piste battute. Discuto di volta in volta la critica che ogni singolo metodo pone agli altri e mostro che ciascuna di esse ci conduce a regressi all'infinito (sia in teoria sia in pratica). Inoltre, i temi teorici stessi si dimostrano tutt'altro che statici: hanno un carattere instabile, frattale, poiché comportano differenze non solo fra un metodo e l'altro, ma anche fra gli elementi all'interno di ciascun metodo – e gli elementi all'interno di quegli elementi stessi, e così via.

I Capitoli 1 e 2 rappresentano il dovere prima del piacere. Se il compito principale di questo libro è stimolare l'immaginazione, è vero però che abbiamo bisogno anche di un certo rigore. Altrimenti, non saremmo in grado di descrivere la differenza tra immaginazione e assurdità: riconoscerla significa assicurarsi il significato della spiegazione, del perché noi cerchiamo spiegazioni, e di quali diversi tipi di spiegazione e programmi di spiegazione esistono in sociologia. Significa anche farsi un'idea più solida sulle concezioni tradizionali del rigore, che verranno presentate nel Capitolo 2, dove si commemorano i classici dibattiti metodologici in sociologia e gli innumerevoli "ismi" che la caratterizzano. Infine, trasferiremo questi "ismi" dagli asfittici dibattiti metodologici a una più vivace euristica.

Dopo aver illustrato nei Capitoli 1 e 2 i fondamenti del rigore, ci volgeremo al tema dell'immaginazione: è quanto facciamo nel Capitolo 3, che discute il concetto generale di euristica e le due strategie euristiche più semplici: l'euristica additiva della "scienza normale" e l'uso di elenchi di luoghi comuni per generare nuove idee. Il Capitolo 4 considera in dettaglio le mosse euristiche generali, quelle cioè che cercano elementi di novità altrove e li importano in nuovi campi trasformando gli argomenti esistenti. Il Capitolo 5 guarda all'euristica di tempo e spazio, che cambia i modi di descrivere o di rappresentarsi la realtà sociale per produrre idee nuove. Il Capitolo 6 esamina le mosse che sorgono dai dibattiti più fondamentali e le questioni metodologiche del Capitolo 2 — effettuando una mossa positivista all'interno di una tradizione interpretativista, per esempio. Infine, il Capitolo 7 discute come si possono valutare le idee prodotte dall'euristica, chiedendosi come riconosciamo che un'idea è buona.

Ho fatto esempi che risalgono agli anni venti come ad anni più recenti, fino al 1999. Ciò che viene dal passato non è sempre solo antiquariato. Newton su tutti è un buon esempio. Egli si fece un nome, il più importante nella scienza moderna, mettendo da parte la questione medievale della natura e delle origini del moto. Risolse il problema del moto semplicemente assumendo che (a) il moto esiste e (b) tende a persistere. Attraverso questi presupposti (come se davvero fosse solo questione di dichiarare vittoria, potremmo dire noi oggi), egli fu in grado di sviluppare e sistematizzare un'ipotesi generale sulle regolarità del moto nel mondo fisico. In altri termini, trascurando il problema del perché, ottenne una risposta quasi completa al problema del che cosa. Così, seguendo questo esempio, apprendiamo che un cambio di domanda è una mossa euristica efficace.

Il medesimo genere di mossa si è verificato in sociologia. Una delle grandi difficoltà del lavoro di Talcott Parsons il sociologo americano più autorevole tra la prima e la seconda metà del Novecento, consisteva nella spiegazione del cambiamento sociale. Parsons assumeva che il comportamento sociale fosse governato da norme, che a loro volta erano governate da valori ancora più generali. In tale sistema, il cambiamento avrebbe potuto esser concepito solo come una crisi locale, un evento problematico che in qualche modo era sfuggito al controllo delle norme. Autori più recenti hanno affrontato lo stesso problema — le cause del cambiamento — semplicemente assumendo che il cambiamento sociale non sia per nulla insolito; piuttosto, è lo stato normale delle cose. Con questa premessa, i vari sociologi storici che sfidarono Parsons furono in grado di sviluppare ipotesi molto più efficaci intorno ai movimenti sociali, le rivoluzioni e, in effetti, intorno all'avvento della modernità in generale. Questa era esattamente la mossa newtoniana: i sociologi storici hanno smesso di voler spiegare il cambiamento e semplicemente lo hanno accettato come qualcosa che accade di continuo. Tutto quel che avevano da fare a quel punto era immaginarsi che cosa vi fosse di regolare nei modi in cui il cambiamento avviene (avrebbero dovuto proseguire con lo spiegare la stabilità, ovviamente, ma di questo si sono dimenticati!).

Perciò, il passato offre utili esempi di euristica proprio come il presente. In questo modo, mentre offro al lettore la strumentazione minima per l'euristica in sociologia, posso presentare parte di quel patrimonio conoscitivo che essa nel tempo ha prodotto. Cominciamo, dunque, dal principio, con la spiegazione.

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Spiegazione

La sociologia tenta di spiegare la vita sociale. Vi sono tre elementi che permettono di dire che un certo argomento è una spiegazione. Anzitutto, diciamo che qualcosa è una spiegazione quando ci permette di intervenire su ciò che vogliamo spiegare — qualunque cosa sia. Per esempio, abbiamo spiegato l'economia quando possiamo amministrarla; abbiamo spiegato la povertà quando sappiamo come sradicarla.

In secondo luogo, diciamo che un'ipotesi spiega qualcosa quando smettiamo di cercare ipotesi ulteriori. La spiegazione è un'ipotesi che risulta sufficiente, che ci permette di passare al problema successivo, trasferendo quello appena spiegato in un contesto di senso comune dove appare immediatamente comprensibile. Così i sociobiologi dicono che hanno spiegato il comportamento altruistico quando mostrano che esso è solo il risultato accidentale di un comportamento egoistico. Essi non si spingono oltre, perché pensano che il comportamento egoistico sia autoevidente: non necessita insomma di ulteriore spiegazione.

In terzo luogo, diciamo spesso che abbiamo la spiegazione di qualcosa quando abbiamo fabbricato una prova argomentativa al riguardo, una prova che abbia le caratteristiche della semplicità, dell'esclusività e dell'eleganza o anche un'apparenza controintuitiva. Perciò, possiamo pensare che la psicologia freudiana sia meglio della psicologia popolare perché è più elaborata, più complessa e più sorprendente. In quest'ultimo senso, un'ipotesi è una spiegazione perché assume una certa forma gradevole, perché in qualche modo riesce a coniugare semplicità e complessità.

La prima delle prospettive appena enunciate – la visione pragmatica per la quale una spiegazione è un'ipotesi che consente un'azione – è la più familiare. Prendiamo in esame la spiegazione della malattia come prodotto di germi. Noi pensiamo che scoprire un germe sia spiegare una malattia perché, scoprendolo, abbiamo scoperto qualcosa che ci permette di fermare la malattia. Notiamo che questo approccio pragmatico funziona meglio per i fenomeni che da qualche parte offrono un "collo di bottiglia" di causalità necessaria: qualcosa di assolutamente necessario per il fenomeno eppure chiaramente definito e soggetto a un'azione dall'esterno. È questo collo di bottiglia – la necessità di un particolare organismo – che rende più facile combattere le malattie prodotte da germi rispetto a quelle "causate" dall'interazione di milioni di piccoli eventi casuali (dal cancro, alle cardiopatie, all'artrite). Il passaggio verso il livello microcellulare nello studio di queste malattie punta precisamente a trovare un nuovo campo del sapere dove possa esservi un collo di bottiglia – la presenza necessaria di un certo gene o enzima, per esempio. Nelle scienze sociali, peraltro, relativamente pochi fenomeni sembrano corrispondere a questo modello del collo di bottiglia; così, come vedremo, l'approccio pragmatico alla spiegazione nelle scienze sociali ha preso strade diverse.

Nella seconda prospettiva sulla spiegazione, per la quale una spiegazione è un'ipotesi che ci permette di cessare la ricerca di ulteriori ipotesi, le cose stanno diversamente. Questo tipo di spiegazione funziona trasponendo la cosa che vogliamo spiegare da un mondo che è meno comprensibile a uno che è più comprensibile. Il tentativo di spiegare tutte le attività umane senza alcun riferimento a fenomeni di gruppo è un buon esempio. I filosofi utilitaristi hanno tentato di mostrare che la sistematica ricerca di interessi egoistici da parte di ciascuno (un fenomeno individuale ripetuto molte volte) avrebbe, una volta aggregata, determinato il mondo sociale che era il migliore per tutti. La realtà sociale era soltanto la somma di realtà individuali. I fenomeni sociali apparenti, come quello (per gli utilitaristi incredibile) di persone che procedono insieme senza evidente coordinamento, devono essere spiegati come il risultato di qualche insieme di comportamenti individuali.

Questo secondo modo di concepire la spiegazione – in cui pensiamo che essa coincida con un trasferimento da un sistema categoriale a un altro – identifica non una visione pragmatica, ma piuttosto una visione semantica. Essa definisce la spiegazione come la traduzione di un fenomeno da una sfera di analisi a un'altra finché non sia raggiunto un contesto finale riguardo al quale siamo intuitivamente soddisfatti. Così gli utilitaristi "spiegano" il comportamento pro-sociale come il risultato di egoismo individuale, perché essi sentono il contesto finale – quello dell'attività egoistica dell'individuo – come più reale, più intuitivo, di qualunque altro. Esso non ha alcun bisogno di ulteriori spiegazioni. È un "contesto ultimo" per la spiegazione.

Ovviamente, diverse scuole di pensiero hanno diversi contesti ultimi per la spiegazione. Gli utilitaristi e i loro epigoni, gli economisti, non sono contenti finché non hanno tradotto un fenomeno in qualcosa di riconoscibile sul terreno a essi familiare di "individui con preferenze e vincoli". Ma gli antropologi sono ugualmente scontenti finché non hanno tradotto quelle stesse preferenze in ciò che per loro è il contesto familiare della "cultura". Questa differenza rende inopportuno riferirsi alla visione semantica della spiegazione con il termine di riduzione, che è il suo nome usuale in filosofia della scienza. Il termine riduzione sembra implicare una gerarchia di spiegazione, in cui fenomeni "emergenti" sono "ridotti" ad altri di "livello inferiore". Tale concezione può aver senso per le scienze naturali, dove è sensato pensare di ridurre la chimica alla chimica fisica e infine alla fisica. Ma non è di grande aiuto nelle scienze sociali, dove i contesti ultimi delle varie discipline e tradizioni di ricerca non sono condivisi o ordinati in alcun modo.

La terza prospettiva sulla spiegazione, come ho notato, deriva dalle caratteristiche della spiegazione stessa. Spesso pensiamo che una spiegazione sia soddisfacente semplicemente perché è logicamente bella e convincente. Invero, a volte noi troviamo una spiegazione bella e soddisfacente senza crederci affatto. Questa è la reazione che la maggioranza delle persone ha nei confronti di Freud alla prima lettura. Può o non può funzionare, ma come è elegante! Come è semplice e insieme completa! Molti hanno la stessa reazione verso le prime opere di Jean Piaget sulle origini della intelligenza nei bambini. Da postulati così esili, è riuscito a produrre così tante conclusioni! Una vita di riflessione suscita in noi il desiderio di buoni argomenti. Possiamo non apprezzare le sue premesse, il suo contenuto o i suoi risultati, ma tutti apprezziamo la sua allettante miscela di complessità e chiarezza.

La letteratura sulla spiegazione ha solitamente privilegiato questa terza concezione, che la spiegazione ha che fare con le proprietà di un argomento – specificamente, la sua struttura logica. Nel più famoso articolo del Novecento sulla spiegazione, il filosofo Carl Hempel (1942) ha sostenuto che spiegare equivale a dimostrare che le condizioni di partenza nel caso che vogliamo spiegare si accordano con le condizioni ipotetiche di qualche "legge di copertura" generale. Per esempio, potremmo avere una legge di copertura secondo cui, quando un partito politico ha una maggioranza significativa in un parlamento, esso sarà in grado di avere un grande effetto sul paese. Allora dimostriamo in un caso particolare (diciamo, la Gran Bretagna negli anni dopo il 1997, dopo la valanga di voti a favore del partito laburista) che un partito aveva una tale maggioranza significativa. Noi possiamo poi dire che abbiamo spiegato perché il partito laburista ha avuto un forte effetto nelle politiche del Regno Unito negli anni dopo il 1997: la congiunzione della nostra legge di copertura – "quando un partito ha una forte maggioranza, ha un grosso effetto" – con la nostra premessa empirica - "i laburisti nel 1997 hanno avuto una forte maggioranza" - logicamente implica la conclusione empirica che "i laburisti hanno avuto un grande effetto sul paese". Combinando la legge generale con una dimostrazione che il nostro caso particolare si accorda con le condizioni di quella legge, possiamo perciò utilizzare la conclusione della legge per spiegare il particolare risultato nel nostro caso particolare.

La concezione della spiegazione di Hempel si concentra sul modello logico di un'ipotesi, sul modo in cui le sue parti stanno insieme. La sua è una concezione sintattica della spiegazione, poiché sottolinea la sintassi di un'ipotesi piuttosto che la sua efficacia nell'aiutarci ad agire (la concezione pragmatica) o la sua efficacia nel tradurre un fenomeno in un contesto che riteniamo di afferrare in modo intuitivo (la concezione semantica).

Ora il fine delle scienze sociali, come ho detto, è la spiegazione della vita sociale in uno di questi tre sensi del termine "spiegazione". Un secolo all'incirca di esperienza ha insegnato agli scienziati sociali alcuni modi standard di occuparsi di tali questioni.

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Metodi

Gli scienziati sociali hanno un certo numero di metodi, modi stilizzati di condurre le loro ricerche che comprendono le routine e le procedure accettate per svolgere in modo rigoroso il lavoro scientifico. Ogni metodo è più o meno associato a una comunità di scienziati sociali per i quali esso è il modo giusto di fare le cose. Ma nessun metodo è proprietà esclusiva di una delle scienze sociali, né alcuna scienza sociale, con la possibile eccezione dell'antropologia, è organizzata in modo significativo intorno all'uso di un particolare metodo.

Ci si potrebbe attendere che i vari metodi delle scienze sociali siano le versioni di un'unica impresa esplicativa o che essi siano parti logiche di un unico schema generale, ma in pratica le cose non stanno così. Lungi dall'essere parti di uno schema generale, i metodi sono in qualche modo separati gli uni dagli altri e spesso reciprocamente ostili. Infatti, molti scienziati sociali usano metodi che danno per scontato che gli altri metodi – impiegati da altri scienziati sociali – siano inutili. Ma a nessuno importa molto. Le varie tradizioni metodologiche vivono felicemente ignorandosi a vicenda tra di loro per la maggior parte del tempo.

Non è perciò affatto ovvio come è meglio classificare i metodi. Se richiamiamo le questioni elementari del metodo – come proporre un tema, come progettare una ricerca, come acquisire e analizzare dati, come estrapolare inferenze – possiamo vedere che ciascuna di queste domande potrebbe essere usata per categorizzare metodi. Se noi categorizziamo per tipo di raccolta dati, vi sono principalmente quattro metodi nelle scienze sociali:

1. etnografia: raccolta di dati attraverso l'interazione personale;

2. survey: raccolta di dati attraverso la somministrazione di questionari o interviste formali;

3. analisi di documenti: raccolta di dati da registri e documenti istituzionali (censimenti, resoconti, pubblicazioni ecc.);

4. storia: esame di documenti, di survey e di indagini etnografiche del passato.


Se, al contrario, cominciassimo con i modi con cui si analizzano i dati, avremmo tre metodi:

1. interpretazione diretta: analisi tramite riflessione e sintesi individuale (per esempio, narrazione);

2. analisi quantitativa: analisi attraverso uno dei metodi standard sviluppati dalla statistica per ragionare sulle cause;

3. modellizzazione formale: analisi attraverso la creazione di un sistema formale che riproduca il mondo, successivamente impiegato per simulare la realtà.


Se invece prendiamo le mosse da come viene posta una questione, noteremmo l'importante tema della numerosità dei casi. Anche da qui arriveremmo a tre tipi di metodo:

1. studio di caso: l'analisi di un unico esempio in gran dettaglio;

2. analisi per piccoli numeri: la ricerca di somiglianze e differenze in un piccolo numero di casi;

3. analisi per grandi numeri: lo studio di un gran numero di casi, di solito scelti casualmente, privilegiando la generalizzabilità.


Ciascuna di queste categorizzazioni potrebbe essere usata per classificare i metodi. Inoltre, mettendo questi tre sistemi di categorie insieme otteniamo 4 x 3 x 3 = 36 possibili sottotipi. E la maggioranza di questi sottotipi sono stati provati da qualcuno in un dato momento o in un altro.

Poiché non vi è un elenco ovvio o una classificazione accettata di metodi, farò semplicemente cinque esempi di tradizioni metodologiche di gran successo: etnografia, narrazione storica, analisi causale standard, comparazione per piccoli numeri e formalizzazione.

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Programmi esplicativi

È possibile vi domandiate quando utilizzare uno di questi metodi piuttosto che un altro. Vi sono ipotesi o problemi empirici particolarmente adatti a metodi particolari? La risposta consueta a questa domanda è sì, e la procedura consueta sarebbe di presentare qui un elenco di quale metodo sia buono per quale tipo di problema. La mia risposta, invece, è no: non credo che vi siano metodi particolarmente buoni per particolari questioni. Perciò quell'elenco non l'ho stilato. Piuttosto, mostrerò che i diversi metodi si propongono effettivamente di fare cose diverse e prevedono diversi tipi di spiegazioni. Ne parleremo per il resto del capitolo. Il Capitolo 2, poi, mostrerà come l'idea standard di "metodi su misura" riposi su falsi assunti circa i metodi, e di conseguenza l'adeguatezza al particolare fine è un concetto che viene meno. La buona notizia è che l'abbandono di questo concetto apre importanti orizzonti per l'euristica che sono, dopo tutto, ciò che stiamo cercando.

Cominciamo vedendo come metodi diversi cercano di fatto di compiere cose diverse. Lo facciamo mettendo insieme quanto esposto nei primi due paragrafi del capitolo, collegando i metodi appena discussi ai tre significati generali della spiegazione poco prima introdotti.

Ognuno dei tre significati di spiegazione definisce un programma esplicativo, uno stile di pensiero circa le questioni della spiegazione. E ciascun programma esplicativo ha alcune versioni che sono più concrete e altre che sono più astratte. Con tre programmi esplicativi, ognuno avente versioni concrete e astratte, vi sono sei possibilità totali. Per rendere l'intera analisi in forma semplice anticipatamente:

1. L'etnografia è una versione concreta del programma esplicativo semantico.

2. La narrazione storica è una versione concreta del programma esplicativo sintattico.

3. La formalizzazione è una versione astratta del programma esplicativo sintattico.

4. L'analisi causale standard – ACS – è una versione astratta del programma esplicativo pragmatico.

Notiamo che vi sono due possibilità mancanti. Dirò molto poco circa una di esse: la versione concreta del programma pragmatico. Possiamo pensarla come una semplice sperimentazione, qualcosa che non facciamo molto nelle scienze sociali, a meno che non si consideri la psicologia – che implica in effetti una quantità di esperimenti – come scienza sociale. Dirò di più circa l'altra casella mancante: la versione astratta del programma semantico. Sebbene non abbia un unico nome, questa è probabilmente l'area di metodi nelle scienze sociali che sta conoscendo l'evoluzione più rapida.

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2. Dibattiti fondamentali e pratiche metodologiche


Il capitolo precedente ha collocato i metodi standard in programmi esplicativi più generali volti alla conoscenza della vita sociale. In questo capitolo sposto l'attenzione sulla concezione tradizionale di tali metodi, secondo la quale essi incorporano determinati presupposti sulla scienza e la vita sociale. Il capitolo affronta anzitutto i dibattiti fondamentali esistenti intorno a tali presupposti, per poi fornire, su questa stessa base, una nuova definizione dei metodi.

È qui che la nostra discussione abbandona il sentiero solitamente battuto. Un manuale tradizionale avrebbe dedicato almeno un capitolo all'analisi dettagliata di ciascun metodo. Molti testi di livello sufficientemente avanzato lo fanno. Al contrario, io mostrerò che, a un esame ravvicinato, la rappresentazione semplice e consolidata dei metodi non è adeguata.

In primo luogo, non solo ogni metodo presuppone una critica significativa a ciascuno degli altri, ma queste critiche riguardano poi dimensioni tra loro piuttosto differenti. Come risultato, le varie critiche metodologiche possono essere sistematizzate in una struttura circolare a forma di spirale. Esse non propongono, come viene spesso detto, scelte teoriche ben definite (quantitativo vs. qualitativo, scienza vs. interpretazione o cose simili): si tratta, invece, di una circolarità che permette aperture e opportunità euristiche alle reciproche critiche.

In secondo luogo, gli stessi grandi dibattiti mostrano di avere un carattere frattale. giacché si ripetono in continuazione, e in modo sempre più sottile, all'interno di ciascun metodo. Insomma, più che posizioni fisse, ci mettono a disposizione risorse metodologiche, strumenti di invenzione e scoperta. Più avanti (nel Capitolo 6) mostrerò che questi dibattiti sono di fatto le nostre risorse più promettenti nella ricerca di nuove idee.

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Il confronto trascendente/situato è un luogo utile per completare questa breve rassegna dei dibattiti fondamentali delle scienze sociali. Come abbiamo visto, essi cominciano con dibattiti meramente metodologici: positivismo/interpretativismo e analisi/narrazione. Continuano poi attraverso i dibattiti radicati nell'ontologia: behaviorismo/culturalismo, individualismo/emergentismo, realismo/costruzionismo e contestualismo/non-contestualismo. A questi si aggiungono i grandi dibattiti sulle questioni problematiche: scelta/vincoli e conflitto/consenso. Infine, come abbiamo appena sottolineato, la caratterizzazione delle scienze sociali come trascendenti o al contrario situate chiama in causa usa serie di differenze circa le fonti e lo status della conoscenza scientifica. Ho schematicamente raccolto tutti questi dibattiti nella Tabella 1.


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Tabella 1 - I dibattiti fondamentali.
DIBATTITI METODOLOGICI • Positivismo: la realtà è misurabile. • Interpretativismo: non esiste significato al di fuori dell'interazione e perciò nessuna misurazione in astratto. • Analisi: non vi è spiegazione senza causalità. • Narrazione: le storie possono spiegare. DIBATTITI SULL'ONTOLOGIA SOCIALE • Behaviorismo: la struttura sociale (per esempio, il comportamento abituale) è il fondamento adeguato dell'analisi. • Culturalismo: la cultura (per esempio, i sistemi simbolici) è il fondamento adeguato dell'analisi. • Individualismo: gli individui umani e i loro atti sono gli unici oggetti reali dell'analisi sociale scientifica. • Emergentismo: gli emergenti sociali esistono, sono irriducibili agli individui, e possono essere oggetti reali dell'analisi sociale scientifica. • Realismo: i fenomeni sociali hanno durata e stabilità; l'analisi dovrebbe concentrarsi su qualità durevoli, stabili dei fenomeni sociali. • Costruzionismo: i fenomeni sociali sono continuamente riprodotti nell'interazione; l'analisi dovrebbe concentrarsi su quella riproduzione. • Contestualismo: i fenomeni sociali sono inevitabilmente contestuali e non possono essere analizzati senza tener conto del contesto. • Non-contestualismo: i fenomeni sociali hanno significato (e possono essere analizzati) in modo indipendente dal loro contesto. DIBATTITI SULLA PROBLEMATICA • Scelta: l'analisi dovrebbe concentrarsi su perché e come gli attori effettuano scelte e sulle conseguenze delle loro scelte. • Vincoli: l'analisi dovrebbe concentrarsi sui limiti strutturali che governano l'azione. • Conflitto: occorre spiegare perché vi è così tanto conflitto sociale. • Consenso: occorre spiegare perché non vi è un maggiore conflitto sociale. DIBATTITI SUI TIPI DI CONOSCENZA (EPISTEMOLOGIA) • Conoscenza trascendente: la nostra conoscenza dovrebbe applicarsi a tutti i luoghi e a tutti i tempi. Dovrebbe essere "universale". • Conoscenza situata: la nostra conoscenza deve essere limitata nella sua applicazione. È sempre locale o particolare. ____________________________________________________________

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6. Euristiche frattali


Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato tre tipi di euristiche. Le prime sono regole additive, capaci di produrre variazioni concettuali su un piano più semplice. Le seconde sono topiche e luoghi comuni, che possono servirci da stimolo verso nuove direzioni di pensiero. Le terze, euristiche generali, implicano una maggiore autoconsapevolezza, che mette in grado di produrre nuove idee attraverso particolari operazioni su argomenti, descrizioni e narrazioni.

Ci occupiamo ora di un quarto tipo di euristica, che sorge dai "grandi dibattiti" delle scienze sociali, e mette a frutto una loro particolare qualità: la loro natura frattale. Un frattale è un oggetto che continua a replicare l'aspetto offerto a prima vista anche a successivi avvicinamenti. Il caso più riconoscibile, forse, è quello delle felci, le tipiche piante di un qualunque sottobosco. Esse sono costituite da fronde le cui foglie sono piccole felci, che a loro volta si costituiscono di piccole felci, che a loro volta sono fatte di felci ancora più piccole, e così via.

Le grandi discussioni del Capitolo 2 sono frattali nel senso che mantengono lo stesso rilievo problematico qualunque sia il livello di investigazione a cui le consideriamo. Prendiamo la famosa contrapposizione tra realisti e costruzionisti. I primi vedono la realtà sociale come qualcosa di reale, statico e permanente. I secondi invece pensano che gli attori e il significato della vita sociale siano qualcosa che si costruisce via via, giocando con i repertori del passato.

Ora, la maggioranza dei sociologi ha un idea piuttosto chiara circa l'identità di chi sceglie il realismo e chi il costruzionismo. Il realista può essere, per esempio, un analista di survey, mentre costruzionista, di solito, è un sociologo storico. I sociologi che studiano la stratificazione sono realisti; i sociologi della scienza, costruzionisti, e così via. Supponiamo tuttavia di prendere proprio alcuni sociologi della scienza — appunto costruzionisti — e di portarli in qualche luogo isolato. È abbastanza certo che comincerebbero a discutere proprio di costruzionismo e di realismo. Alcuni direbbero che la scienza è un dato tipo di sapere, prodotto da un certo tipo di struttura sociale; la domanda interessante è come esso sia determinato da strutture sociali più grandi. Secondo gli altri, invece, la scienza si può comprendere solo se si intende il flusso reale di linguaggio quotidiano usato dagli scienziati, impegnati a costruire un sapere che viene poi razionalizzato nei libri di testo. Insomma, i due gruppi si perderebbero in veementi discussioni in cui di nuovo il realismo contrasta con il costruzionismo, anche se, dall'esterno, il resto della disciplina non vede in loro che un unico gruppo di forti costruzionisti. (Questo è, di fatto, esattamente quel che è accaduto nella sociologia della scienza negli anni ottanta, quando nel settore era diffusa la contestazione che «io penso più cose come costrutti sociali di te», tanto da ridurre l'intero settore alla pretesa, in certo modo nevrotica, di non credere nella realtà di alcunché.)

Per prendere un esempio dall'estremo opposto della disciplina, la criminologia è stata a lungo uno dei settori improntati a un forte realismo in sociologia. Le statistiche sulla criminalità hanno origini lontane nella storia della vita pubblica, e pochi eventi reali sono sembrati più ovvi di un arresto di polizia. Negli anni cinquanta, tuttavia, in questa letteratura così realista, è comparsa una critica di stampo costruzionista, la "teoria dell'etichettamento". In base a essa, occorre qualcosa di più, per definire la criminalità, che un semplice modo di comportarsi; occorrevano l'arresto, la detenzione, l'accusa, il processo e la condanna. Molti erano gli individui esclusi a ogni stadio di questo percorso, al termine del quale soltanto si può ottenere l'etichetta di "criminale". I teorici dell'etichettamento sostenevano che la correlazione inversa fra status sociale e criminalità - da tempo evidente - si verificava perché era più probabile che i criminali delle classi popolari completassero il cammino dall'atto deviante sino alla condanna. La criminalità, perciò, non sarebbe un fatto tanto semplice e reale, ma un costrutto complesso.

Vi è stato, contemporaneamente, un dibattito simile, benché di portata inferiore, nel gruppo di coloro che, fra i criminologi, erano considerati dei realisti puri. La questione che essi sollevarono con grande vis polemica riguardava l'inaffidabilità delle statistiche sugli arresti. Il tasso di criminalità di Chicago era aumentato dell'83 per cento in un anno (1962), ma a tutti era noto che il cambiamento non dipendeva dai fatti quanto dalle procedure per registrarli. Così, con un certo strepito, fu affermata la natura di costruzione arbitraria delle statistiche, e la necessità che il crimine fosse considerato non in base al calcolo dei delinquenti, ma attraverso adeguate inchieste sulle vittime. Nel corso dell'elaborazione di tali inchieste sorsero così decine di questioni che vertevano sul dibattito realismo/costruzionismo: una serie di molestie va vista come un unico evento oppure come molti? L'intervistato cui ci rivolgiamo è indirizzato dai nostri quesiti verso una particolare risposta? Quando una domanda deve considerarsi "suggestiva"? Erano le medesime questioni che i sociologi della scienza avrebbero dibattuto negli anni ottanta, ma sorgevano all'interno di una comunità da tutti considerata assolutamente realista.

Come ci mostra l'esempio, i dibattiti di scienze sociali del Capitolo 2 sono per natura frattali. A prescindere dalle dimensioni, in ogni comunità di scienziati sociali la maggior parte di questi temi sarà comunque discussa al suo interno, anche se pensiamo che la comunità rappresenti già un estremo o l'altro sull'argomento. In se stesso, questo è un fatto curioso. Ciò significa, tuttavia, che le discussioni fondamentali possono essere impiegate come strumenti euristici. Dovunque ci si trovi, in quel sistema complesso di forme conoscitive che sono le scienze sociali, possiamo produrre nuove questioni e nuovi problemi, grazie all'uso delle euristiche frattali.

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