|
|
| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 13 1. I re 15 2. Il principe Naser 19 3. L'harem 23 4. Il gran visir 30 5. Madholia, la madre 35 6. Sheikh Aghasi 41 7. Herat 47 8. La gatta Sharmin 54 9. I fratelli 62 10. Taj, la figlia dello scià 71 11. Il cannone 76 12. Le riforme 82 13. I russi 88 14. La festa di primavera 97 15. Il nuovo esercito 102 16. I russi cercano un contatto 105 17. Il giardino delle albalu 108 18. La paura 121 19. L'ayatollah colpevole di tradimento 125 20. Il lutto 130 21. Bab 136 22. I gatti 144 23. Un messaggio segreto 150 24. La tipografia 154 25. Una decisione storica 162 26. Issa Khan 167 27. Forze soprannaturali 173 28. L'invasione 176 29. Un silenzio sepolcrale 183 30. La sorpresa di Londra 189 31. La concubina sul tetto 193 32. Il paese prega per il Golfo Persico 200 33. Il cronista 204 34. Gli atti 210 35. Fajri 216 36. A palazzo 221 37. La coperta nera 228 38. Il silenzio 237 39. Malijak 244 40. Il telegrafo 254 41. Import e export 264 42. La rivolta 269 43. Jamal Khan 277 44. Il capo 286 45. Mirzaje Shirazi 293 46. La lettera 304 47. I narghilè 312 48. Lo sciopero dei mercanti del bazar 317 49. Il viaggio 329 50. La luce 337 51. Il diario di viaggio 349 52. La costituzione 363 53. Il viaggio di ritorno 373 54. Lamentele via cavo 388 55. Nel bazar 395 56. Gli ayatollah 404 57. L'ambasciata 417 58. L'ultimatum 425 59. Sulla scacchiera 433 60. Majlès 444 61. L'elettricità 448 62. Il parlamento 455 63. Lo scià si fa fotografare 463 64. Taj Olsultan 466 Postfazione di Elisabetta Svaluto Moreolo 469 |
| << | < | > | >> |Pagina 15In principio era la Mucca e la Mucca era presso Dio, che aveva nome Ahura Mazda.
La Mucca non dava ancora latte. Ahura Mazda la
benedì: "Non abbiamo posto nessuno a capo sopra di te. Ti abbiamo creato per
coloro che custodiscono le greggi e per coloro che curano i pascoli."
Alcune migliaia di anni dopo la vita generò l'uomo Gayumars. Una sera, mentre si trovava davanti alla sua grotta, Gayumars osservò le stelle, osservò la luna che rischiarava le mucche e gli uomini nei pascoli infiniti. E pensò: Qualcuno deve porsi alla guida di questo mistero. Poi, un pomeriggio di sole in cui era di nuovo davanti alla sua grotta, comparvero d'un tratto delle nubi nere e iniziò a piovere senza sosta. Fiumi vorticosi distrussero i campi e portarono via uomini e mucche. Gayumars pensò: Qualcuno deve guidare i fiumi. Un altro giorno vide gli uomini lottare tra loro e uccidersi con dei bastoni. Vide che le donne erano spaventate e che i bambini piangevano, e disse tra sé: Qualcuno deve porsi alla guida degli uomini e proteggere le donne e i bambini. Un mattino, il sole era appena sorto, le donne e i loro figli gli donarono una corona intrecciata di teneri ramoscelli e fiori profumati. Lui si pose la corona sul capo, alzò le braccia al cielo e pronunciò queste parole: "Ahura Mazda! Concedimi la tua forza affinché possa pormi alla guida di tutto ciò che è fermo e di tutto ciò che si muove sulla terra." Poi discese dai monti. Gayumars regnò per settecento anni. A lui fecero seguito molti altri re. Uno di questi fu Astiage, il re dei Medi che governò sui persiani. Astiage sognò che dal ventre di sua figlia Mandane cresceva un ramo di vite, destinato a fare ombra sul mondo intero. Chiese ai magi interpreti dei sogni il significato di quella visione. Gli risposero che sua figlia, andata in sposa a un principe dei persiani vinti, avrebbe partorito un figlio maschio che lo avrebbe deposto dal trono.
Astiage ordinò che il figlio di Mandane fosse
ucciso appena nato, ma il bambino, che ricevette
il nome di Ciro, fu affidato in segreto a un pastore. Anni dopo, diventato
adulto, Ciro assassinò Astiage e diventò il nuovo re.
Ciro conquistò a suo tempo il mondo intero. Lasciò ai posteri una tavoletta d'argilla con il seguente testo scritto in caratteri cuneiformi. "Io sono Ciro, re dell'universo, il grande re, il re potente, re di Babilonia, re di Sumer e di Akkad, re dei quattro angoli del mondo. Tutti i re assisi in trono, dal Mare Superiore al Mare Inferiore, e quelli che abitano in terre lontane, e i re dell'Occidente che vivono nelle tende, tutti mi hanno fatto dono dei loro preziosi tesori. E a Babilonia hanno baciato i miei piedi." Cambise, il figlio di Ciro, successe a suo padre. Dopo di lui vennero altri tre re finché salì al potere Dario III. Dario fondò un grande impero sul quale non tramontava mai il sole e fece costruire una rete di nuove strade che univano ogni angolo del suo regno. Decise poi di conquistare la Grecia. Sbarcò nel porto di Atene alla testa di un esercito di soldati indiani, etiopi, moskiri, traci, kissiri e assiri. La Grecia tremò dinanzi alla sua presenza divina. I greci sapevano di non poter vincere quella guerra, ma gli dèi si schierarono al loro fianco. E contro ogni previsione sbaragliarono il potente esercito dei persiani e misero in fuga il loro re. Con la sua fuga Dario III mise in imbarazzo gli dèi dell'Oriente. Avrebbero preferito vederlo cadere in battaglia, prigioniero o fatto a pezzi. Qualunque cosa, ma non la fuga. Un antico adagio che ben si addice al suo comportamento recita: "un leone morto è sempre un leone, un leone ferito è un leone e un leone in gabbia resta un leone. Ma un leone che fugge davanti al nemico non è un leone."
Da quel giorno gli dèi hanno voltato le spalle ai
re persiani ed è iniziato il declino del loro impero.
Così sul regno di Persia si abbatté il flagello di
Alessandro Magno. Il Macedone incendiò tutti i
palazzi e saccheggiò gli immensi forzieri reali per
poi marciare sull'India e sottomettere a sé anche quel paese.
Alcuni secoli dopo i maomettani invasero con il
loro Corano scritto l'impero persiano ormai indebolito. Conquistarono il potere
in tre settimane. Il re deposto, Yazdegerd, montò a cavallo e si diresse al
galoppo verso l'estremo confine orientale del
paese, verso Herat. Lì avrebbe ricostituito il suo
esercito in rotta per poi cacciare gli arabi dal regno. Nel cuore della notte,
esausto, cercò rifugio in un mulino. Il mugnaio lo strangolò nel sonno per
derubarlo della sua veste reale e dei suoi gioielli. Fu così che un mugnaio
decretò la fine del grande impero persiano.
Più tardi ancora Gengis Khan calò dall'oriente
all'occidente, distruggendo al suo passaggio la terra dei persiani finché non
restò più traccia della loro antica gloria. Il paese si risollevò solo all'epoca
dei Safavidi. Fu un breve periodo di splendore. Poi iniziò la decadenza. Le
tribù si contendevano il potere.
All'inizio dell'Ottocento, una di quelle tribù seppe conquistare il predominio sulle altre. Questa storia parla di un re di questa tribù: il principe Naser. | << | < | > | >> |Pagina 82Il visir aveva ordinato agli amministratori locali di creare grandi fabbriche di tappeti, in cui potessero lavorare centinaia di tessitori. Sul Mar Caspio, nel Nord del paese, piccole ditte confezionavano il caviale in scatole e vasetti facilmente trasportabili. Mirza Kabir sognava che i suoi connazionali disoccupati andassero a lavorare in fabbrica come gli operai inglesi. Sognava che le ragazze persiane andassero a scuola come quelle di Mosca. Le cose da fare erano così tante che non aveva tempo di dormire. Intanto i suoi nemici facevano di tutto per liberarsi di lui. Il visir espose i suoi progetti ai suoi consiglieri. "Ho molti sogni per questo paese, ma non possiamo volere troppe cose in una volta", aveva spiegato ai giovani ministri del suo governo. "Voi avete studiato all'estero, ma la Persia non è la Russia, e men che meno l'Inghilterra. In quei paesi il potere è centralizzato. Da noi la maggior parte della popolazione vive nei villaggi. Non abbiamo alcuna influenza nelle campagne, lì è tutto nelle mani dei grandi latifondisti." "Conosciamo bene la realtà", gli rispose Taqi Khan, uno dei suoi ministri, "per questo ci concentreremo sulle grandi città, soprattutto su Teheran." "Ma Teheran è proprio il posto più difficile, l'élite dei grandi proprietari terreni ci mette ovunque i bastoni tra le ruote." "Dobbiamo mirare alla divisione dei poteri, come nei paesi occidentali", disse Amir, il giovane consigliere del visir. "È la condizione essenziale per poter realizzare i nostri piani."
Gli rispose saggiamente Mirza Kabir: "Non dobbiamo spaventare l'élite.
Dobbiamo stare attenti a dove mettere i piedi. Parlerò con lo scià."
La grande risorsa della Persia era la sua ricchezza di miniere d'oro, di rubini e di brillanti, di spezie e di quello che i portoghesi chiamavano ouro negro, cioè «oro nero». I portoghesi avevano già tentato di procurarsi l' ouro negro, o petrolio, in passato. E alla ricerca di quel liquido misterioso avevano trivellato in vari punti il suolo persiano. Senza però trovare niente. Poi era stata la volta dell'avventuriero N.R. Darsi, della Nuova Zelanda. La sua spedizione era finanziata da un'azienda chimica. Cercò giacimenti di petrolio, ma non trovò nulla di significativo. E se ne andò a mani vuote. In quel periodo i paesi occidentali cominciavano a scoprire il valore del petrolio. In una valle dello stato americano della Pennsylvania avevano scavato un pozzo profondo diciassette metri. Il giorno dopo il pozzo si era riempito di petrolio. Nella provincia meridionale della Persia quello sgradevole liquido nero affiorava spontaneamente dal terreno. Gli abitanti locali lo chiamavano ghir – lo raccoglievano in piccole scatole e lo usavano per ungere le ruote dei carri. Il visir aveva chiesto ai francesi di costruire fabbriche, riformare l'esercito e insegnare le scienze. Ma alcuni di loro avevano ricevuto dal governo francese l'ordine segreto di cercare il petrolio. Così, accanto alle attività minerarie che già svolgevano, chiesero il permesso di fare delle trivellazioni. Nessuno allora poteva sapere che in Persia, sotto la superficie terrestre, ci fosse una delle più grandi riserve di petrolio al mondo.
Le trivellazioni non diedero frutti e i francesi
abbandonarono quella che per loro era un'attività
secondaria. Quando però un giorno videro brillare
una sostanza nera in fondo a uno dei pozzi, ripresero a trivellare. Senza
risultati significativi. Raccolsero il petrolio di quell'unico pozzo in alcuni
barili che spedirono in Francia. Era qualcosa, ma niente
al confronto di quello che si celava nelle viscere della terra.
Le richieste del visir erano altissime, ma la possibilità di mettere le mani
sulle ricchezze del sottosuolo persiano e di esercitare un controllo diretto
sull'esercito era una tentazione irresistibile per i francesi.
Accettarono quindi le condizioni poste da Mirza
Kabir, che stilò un elenco di progetti da realizzare.
La creazione di: – Tre istituti tecnici, uno a Teheran, uno a Tabriz e uno Isfahan. – Una grande biblioteca a Teheran, dotata di testi moderni di urbanistica e di tecniche della costruzione. – Una scuola mineraria nella città di Sultanabad. – Cinque tipografie in cinque diverse città. – Un ospedale a Teheran e una clinica ginecologica a Tabriz. – Diverse scuole elementari per i bambini di Teheran. – Pelletterie e fabbriche di scarpe. – Una scuola militare per ragazzi. – Scuole di disegno e di pittura. – Due collegi per orfani a Teheran. – Industrie tessili, vetrerie, stabilimenti siderurgici, cartiere, zuccherifici e manifatture di tabacco in diverse città. – Una piccola fabbrica di sospensioni per carri e carrozze a Shiraz. – E infine un'azienda per la produzione di orologi di media grandezza per le città.
Oltre a tutto ciò, il visir avanzò la pesante richiesta di costruire alcune
fabbriche di cannoni e munizioni a Teheran, Isfahan e Shiraz, in modo che
l'esercito non dovesse più dipendere dai cannoni russi o inglesi.
Il visir si rendeva conto che non sarebbe riuscito a realizzare tutti quei progetti nel corso della sua vita. Sapeva che avrebbe incontrato una forte resistenza. Ma voleva che si avverassero almeno tre dei suoi sogni. Innanzitutto voleva che tutti i bambini persiani fossero vaccinati contro il vaiolo. Così avrebbero posto un freno alla cecità dilagante nel paese. Il secondo sogno era un istituto tecnico per giovani di talento, che un giorno avrebbero preso parte ai suoi progetti di sviluppo. Il terzo sogno era di natura molto personale. Quando era ancora ragazzo, suo padre era ministro nel governo di cui un giorno lui avrebbe assunto la guida. Al ritorno da un viaggio in Russia, gli parlò degli orologi sulle chiese, orologi che battevano le ore in modo che tutta la città potesse sentirle. Anni dopo, da giovane uomo, Amir Kabir andò a Mosca al seguito di una delegazione. Al Cremlino sentì per la prima volta gli orologi descritti dal padre. E fu percorso da un brivido di gioia nel prendere coscienza del tempo. Il tempo che scorreva, il tempo che passava. Quel suo sogno di ragazzo non l'aveva mai abbandonato. Così, insieme all'ingegnere di una fabbrica francese, aveva deciso di montare una serie di orologi in alcune grandi città come Teheran, Isfahan, Shiraz e Tabriz. Certo non potevano montarli sui minareti. Avrebbero ricordato troppo le chiese, generando malanimo. Così pensò che potevano installarli nelle grandi piazze del bazar del paese. E a volte, quando andava al bazar, gli sembrava già di sentirli battere le ore. Il tempo si era fermato nel suo paese. Con quegli orologi lui voleva rimetterlo in moto.
Il visir aveva espresso il suo desiderio all'ingegnere. Non appena la Persia
fosse approdata in acque più tranquille, l'ingegnere avrebbe impiantato una
fabbrica e iniziato a produrre gli orologi.
C'era un grosso ostacolo che frenava lo sviluppo: il paese non aveva strade, solo stretti sentieri creati in modo naturale dal passaggio di cavalli e carrozze. Una volta la Persia vantava le strade più grandi del mondo, ma il tempo e le guerre le avevano distrutte e sepolte sotto vari strati di terra. Per tener buono il popolo e placarne il malcontento dovuto alla presenza dei francesi, Mirza Kabir chiese ai russi se erano disposti a collegare le principali città attraverso una nuova rete di strade. I russi accettarono l'offerta e si misero subito all'opera, iniziando a costruire le strade che potevano avvicinarli all'India tralasciando le città del Sud. Il visir lo sapeva, ma era anche conscio del fatto che quello che i russi facevano era utile al paese. La loro presenza nella parte settentrionale e orientale della Persia irritò di nuovo Londra. Gli inglesi non riuscivano ad aver ascendenza sul visir, che voleva tenersi buoni tutti; in più veniva da una famiglia che non si lasciava corrompere. Decisero quindi di aspettare. Nel frattempo fornivano armi e consiglieri militari alle tribù afghane per poter respingere, in caso di bisogno, un'invasione dell'India da parte russa. Al tempo stesso cercavano di aizzare ancor di più Madholia contro Mirza Kabir attraverso propri uomini di paglia. Le inviarono false informazioni sui progetti del visir per indebolire a poco a poco il ruolo dello scià. "Firma supinamente tutte le carte che il visir gli mette davanti", sospirava Madholia rivolta al fido Sheikh Aghasi. "In effetti è preoccupante", conveniva Aghasi. "Ancora un po' e lo scià perderà il suo potere. È vostro dovere metterlo in guardia." "Andrò a parlargli", rispondeva Madholia. "Devo farlo." | << | < | > | >> |Pagina 304Ogni lunedì mattina lo scià e Sheikh Aghasi discutevano di importanti questioni di governo. Dopo aver esaminato insieme i dossier e sottoposto alla firma del re alcuni documenti, quel giorno Sheikh estrasse dalla borsa una lettera sigillata. "Di chi è quella lettera?" "Dell'ayatollah Mirzaje Shirazi." "Chi è Mirzaje Shirazi?" "L'ayatollah di Shiraz." "E che cosa vuole da noi?" "Ha scritto anche a me, una lettera in termini molto grossolani. Mi chiedevo perciò se fosse il caso di darvela, ma credo che vostra maestà debba esserne informato." "Leggila", gli ordinò lo scià restituendogli la missiva. "Prego vostra altezza di non chiedermi questo", disse timidamente Sheikh, "perché temo che il contenuto della lettera sia alquanto irriverente." "Leggila!" ripeté lo scià abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.
Il visir spezzò il sigillo di ceralacca.
Bismillah al-Rahman al-Rahim, Nel nome di Allah l'Amorevole e il Misericordioso Al re del paese. Ci sono alcune questioni nazionali che abbiamo sottoposto al visir in una lunga lettera e che qui sono brevemente riassunte. Lo scià ha messo il destino dei suoi sudditi nelle mani degli inglesi. È un'onta per dei musulmani che uno straniero possa condizionare così profondamente la loro vita quotidiana. Per rispetto dell'islam e nell'interesse della patria, ordiniamo allo scià di revocare il diritto di commercio del tabacco agli inglesi e di restituirlo ai suoi sudditi. Che Dio sia con voi, in attesa della vostra risposta. Wassalam
Mirzaje Shirazi
Con quella lettera breve ma dura, l'ayatollah aveva lanciato allo scià un ultimatum. Naser era furibondo, ma si dominò e disse: "A quanto capisco, questo tizio è un vecchio rimbambito. Non c'è motivo di rispondergli per iscritto. Manderò un messo a dirgli quello che si merita." "Chiedo a vostra maestà di avere ancora un po' di pazienza, questo sacerdote gode di molta autorità. Dobbiamo prima capire come mai abbia deciso improvvisamente di prendere la penna. È un segno che il malcontento tra i mercanti di tabacco dei bazar sta per superare il livello di guardia. Dobbiamo saperne di più prima di reagire." Ma lo scià ignorò il consiglio del visir. "I mercanti dei bazar devono baciarci gli stivali! Abbiamo fatto in modo che ricevessero il tabacco già pronto da vendere, cosa vogliono di più? Gli abbiamo semplificato la vita. Ma gli imam non capiscono questo genere di cose e dovranno imparare che non possono immischiarsi negli affari. Questo Shirazi va rimesso al suo posto." Così dicendo strappò la lettera e aggiunse:
"Gli daremo la lezione che si merita! O tra poco
dovremo fare i conti con le pretese di chissà quanti altri ayatollah!"
Con il viso e le spalle ancora sporchi della polvere del viaggio, pochi giorni dopo il messo dello scià si presentò all'abitazione di Shirazi. Il domestico lo fece entrare, gli offrì un po' di tè e qualcosa da mangiare, ma lui rifiutò dicendo che voleva prima portare a termine il suo compito. Shirazi era in biblioteca, seduto per terra al suo scrittoio. Il messo lo salutò, chinò il capo e si tolse le scarpe. Fu sorpreso dalla vista del sacerdote. Si aspettava un uomo robusto, imponente, capace di far fronte alle parole minacciose dello scià, ma quando vide la fragile figura di vecchio sul consunto tappeto persiano, la gravità del messaggio perse la sua forza. Aveva attraversato il paese cavalcando giorno e notte per venire a dare una lezione a quest'uomo. L'ayatollah gli fece segno di avvicinarsi. Il messo si inginocchiò accanto allo scrittoio e disse: "Ho un messaggio per voi da parte dello scià." "Dammelo pure", rispose Shirazi allungando la mano. "Vi chiedo scusa", rispose l'uomo titubante, "ma non è una lettera, devo sussurrarvi il messaggio all'orecchio." L'ayatollah capì subito che si trattava di una comunicazione insolita. "Non c'è bisogno che lo sussurri, dillo pure ad alta voce." Il messo si voltò a guardare incerto la porta. Temeva che dietro ci fosse il domestico. "Stai tranquillo, non ti sentirà nessuno." "Lo scià vi manda a dire quanto segue: 'Non si immischi negli affari di stato, o verrò a casa sua con un cuscino'." Il messo attese la risposta del sacerdote a capo chino. "È tutto?" domandò calmo Shirazi. "Sì, è tutto."
"Ti ringrazio per essere venuto fin qui a dirmelo. Ora mangia e bevi
qualcosa, poi prenditi tutto il tempo che ti serve per riposare."
Trascorsero diversi giorni e per lo scià non era chiaro che effetto avesse sortito la sua minaccia sull'ayatollah. Ma presumeva che il messaggio fosse arrivato a destinazione e che non avrebbe più sentito parlare di lui.
Nel frattempo aveva fatto arrestare chiunque
fosse sospettato di essere coinvolto nelle agitazioni in corso a Teheran. E pian
piano iniziò a convincersi di essere riuscito a estirpare le proteste alla
radice.
In quelle stesse settimane Jamal Khan, Mirza Reza Kermani e Amir Nezam si trovavano a Shiraz, da dove intendevano organizzare la rivolta. Lo scià, illuso com'era che il suo pugno di ferro avesse funzionato, fu improvvisamente raggiunto dalla notizia che i mercanti di tabacco di Shiraz si rifiutavano in massa di trattare con la compagnia del tabacco inglese e che non obbedivano all'ingiunzione di saldare i conti arretrati. Il capo della polizia cittadina ricevette l'ordine diretto del re di arrestare i debitori morosi. Naser aveva sottovalutato la protesta dei mercanti. Gli inglesi, invece, l'avevano subito presa sul serio. Temevano che la rivolta di Shiraz si estendesse ai bazar delle altre città e che i mercanti potessero mettere a rischio le importazioni di zucchero, tè, tessuti e altri prodotti inglesi. Così l'ambasciatore britannico si presentò quasi subito a palazzo reale per suggerire allo scià di trovare un accordo con i rappresentanti del bazar di Shiraz. Lo scià chiese tempo per riflettere e consultò la madre. Vista la sua esperienza prettamente religiosa, Sheikh Aghasi non era sempre in grado di fornire allo scià i consigli giusti. E soprattutto adesso che la rivolta assumeva toni confessionali, si sentiva ancora più incerto e si schierava spesso dietro il parere di Madholia. In quel periodo lo scià interpellava regolarmente anche il genero Eenoldole. Così lo coinvolgeva gradualmente, in quanto marito di sua figlia Taj, nel governo del paese. Ma per affrontare una questione come quella aveva bisogno di una persona esperta e decisa. La madre non ebbe dubbi: "Lascia perdere il consiglio dell'ambasciatore inglese e metti i mercanti alle strette." Guardie armate fecero irruzione nel bazar e svuotarono le casse dei mercanti di tabacco per saldare in quel modo i loro debiti verso la compagnia inglese. Uno dei mercanti più in vista cercò di fermarle anche a nome degli altri, ma fu brutalmente picchiato e cadde a terra, rompendosi una spalla. I colleghi, umiliati, si rivolsero all'anziano ayatollah. Questi li rincuorò, poi prese il bastone e avanzando alla testa del gruppo andò a trovare il mercante ferito. Quando alla fine della visita uscì dalla casa, invitò gli altri alla calma brandendo il bastone, poi disse: "Il bazar di Shiraz chiuderà i battenti in segno di protesta."
I mercanti non esitarono un istante.
Nel cuore della notte Amir Nezam salì sul tetto del bazar e appese un lungo striscione sulla facciata del palazzo. L'indomani mattina si radunò una grande folla. Essendo quasi tutti analfabeti, indicavano lo striscione e si chiedevano l'un l'altro cosa vi fosse scritto. Quando lo scoprirono, quel testo suonò loro come un messaggio misterioso. "Il bazar di Shiraz non venderà più tabacco inglese. I mercanti di Shiraz reclamano una rete telegrafica nazionale per promuovere il commercio." Nessuno sapeva chi avesse appeso quel grosso telo sopra la porta del bazar. Alla maggior parte dei negozianti non era ancora venuto neanche in mente di poter usare il telegrafo per il proprio lavoro. Da quel momento la protesta prese una piega completamente diversa. Il capo della polizia fece rimuovere lo striscione, poi ordinò ai mercanti di riaprire bottega o i suoi uomini non avrebbero più garantito la sicurezza dei loro negozi. Ma fu come parlare al vento. Allora quella notte fece uscire di prigione decine di ladri e banditi e li mandò a saccheggiare i negozi del bazar. I malviventi forzarono le porte, rubarono tutto quello che poterono e quello che non riuscirono a portare via lo gettarono per strada. Il giorno dopo i mercanti si radunarono davanti alla casa dell'ayatollah, pronti a rimettersi alla sua decisione. Shirazi mandò subito un corriere al bazar di Teheran per chiedere ai mercanti di chiudere i loro negozi in segno di solidarietà con il bazar di Shiraz. I mercanti di Teheran ubbidirono, dopo di che lo scià fece depredare anche le loro. Accadde ciò che l'Inghilterra aveva temuto. La protesta si diffuse rapidamente in tutto il paese. Anche la gente comune aderì alla rivolta. Nel frattempo tutti gli ayatollah delle grandi città avevano ricevuto una fotografia del direttore inglese della Compagnia del Tabacco travestito da imam. Il loro giudizio fu unanime: l'islam era in pericolo. Fu scelto un motto comune: "Inghilterra! Giù le mani dal nostro tabacco!" Lo scià rifiutò di accogliere quella richiesta e, incitato dalla madre, fece ulteriore ricorso alla violenza. Ma la gente non si arrese, anzi, si mostrò ancora più determinata. Per la prima volta nella storia aveva la possibilità di ribellarsi contro i potenti. A Shiraz i mercanti si riunirono attorno alla casa dell'ayatollah. Al tempo stesso non potevano tenere chiusi i negozi troppo a lungo, o il clima rischiava di cambiare a loro sfavore.
La pazienza dello scià era esaurita. Naser diede ordine di allontanare i
mercanti dalla casa di Shirazi e di condurre l'anziano ayatollah in un
luogo segreto.
Gli agenti non si aspettavano che i mercanti opponessero una resistenza così forte. E temendo per la vita aprirono il fuoco contro di loro. Un mercante rimase ucciso. La gente riunita nel cortile della casa di Shirazi assalì i poliziotti, che iniziarono a sparare nel mucchio. Gli abitanti delle strade vicine si svegliarono e accorsero a casa dell'ayatollah. C'erano centinaia di persone nelle strade e sui tetti, per cui gli agenti erano assediati da ogni parte. Shirazi uscì dalla biblioteca in compagnia di Jamal Khan e Amir Nezam. Amir Nezam sistemò lo scrittoio ai suoi piedi. L'ayatollah vi salì sopra a fatica, appoggiandosi alla spalla di Jamal Khan. Poi sollevò il bastone e attorno a lui si fece un silenzio di tomba. "Ora pronuncerò una fatwa: da oggi è proibito fumare il tabacco. Chiunque nel paese non si atterrà a questo divieto dichiarerà guerra a Dio." Di solito una fatwa serviva come parere giuridico. Quando un giudice islamico non sapeva dirimere una questione, chiedeva consiglio a un ayatollah che gli forniva un suo giudizio. Normalmente le fatwe riguardavano i musulmani e le loro regole di vita. Come mangiare carne di maiale, o bere alcolici, o i rapporti tra donne musulmane e non credenti. Quella era la prima volta che veniva pronunciata una fatwa con una valenza politica. Si trattava di una fatwa importante e delicata, perché era rivolta allo scià e alla più grande potenza del mondo, l'Inghilterra. Il vecchio ayatollah non poteva sapere quali conseguenze avrebbe avuto la sua decisione per i prossimi cento anni e in che misura le sue parole avrebbero cambiato le relazioni nel Medio-Oriente. L'ayatollah Mirzaje Shirazi aveva parlato e fece ritorno nella sua stanza. Le sue parole si sarebbero rivelate più potenti di mille cannoni. Per un lungo momento tutti tacquero nel cortile, tacquero nel vicolo, tacquero nel paese, tacquero a palazzo reale e a Londra. | << | < | > | >> |Pagina 404La prima religione praticata dagli antichi popoli della Persia doveva il suo nome al profeta persiano Zarathustra o Zoroastro. I suoi seguaci adoravano il fuoco, che consideravano il simbolo del dio Ahura Mazda sulla terra. Nel loro tempio più importante, nella città di Yazd, essi conservavano, secondo la loro dottrina, il primo fuoco acceso dagli uomini. Per questo i loro templi si chiamavano «atashkadeh», che significa «casa del fuoco». I sacerdoti di Zarathustra stabilivano le norme di comportamento da seguire nella vita quotidiana e la gente le rispettava. Dopo aver invaso la Persia sotto la bandiera dell'islam, gli arabi proibirono la religione zoroastriana. Fecero irruzione nell'antico tempio di Yazd per spegnere il fuoco, ma i sacerdoti l'avevano già portato via ed erano fuggiti in India insieme a migliaia di seguaci. Dovettero passare alcuni secoli prima che l'islam fosse accettato dalla popolazione, ma i Persiani rifiutarono per protesta la forma praticata degli occupanti e diedero vita a un nuovo credo islamico. Fu così che nacque l'islam persiano, noto come religione sciita. Da allora gli abitanti della Persia hanno propri sacerdoti, gli imam e gli ayatollah. Gli ayatollah introdussero nuove regole e norme di comportamento. Conducevano una vita semplice, lontano dal potere. L'anziano ayatollah Shirazi fu il primo che, su sollecitazione di Jamal Khan, si servì del proprio potere spirituale per aiutare con una fatwa i coltivatori e i mercanti di tabacco ridotti in miseria. Dopo di lui altri sacerdoti cominciarono lentamente a cercare il potere. Uno di questi fu Tabatabai. Dopo l'incidente del bazar, andò nella città santa di Qom. Riferì agli ayatollah del cimitero profanato, del progetto di costruzione della nuova ambasciata russa e dell'ostinazione con cui lo scià si rifiutava di intervenire. Anzi, Naser aveva voltato le spalle al problema partendo per Mashhad.
La storia del cimitero ottenne l'effetto previsto, gli ayatollah giudicarono
una grave offesa la violazione delle tombe di fedeli musulmani da
parte dei russi e si schierarono con Tabatabai.
Lo scià rientrò a Teheran in anticipo. Forte del potente sostegno di Qom, l'ayatollah Tabatabai gli scrisse una lettera in cui affrontava con durezza la questione del cimitero e del terrore seminato da Malijak. Il sacerdote sfruttò le due vicende per avanzare la sua richiesta: "Il popolo reclama qanun, majlès, adalatkhaneh." Tabatabai intendeva far pervenire la lettera a palazzo tramite il suo messo, ma Jamal Khan glielo sconsigliò. "Lo scià farà finta di niente. Non la leggerà nemmeno. Credo che dovremmo trovare un altro modo." "Tu cosa proponi?" "Fate recapitare la lettera all'ambasciata britannica. Dopo di che, se siete d'accordo, chiederemo agli inglesi di trasmetterla allo scià." "Non mi sembra saggio. Perché coinvolgere gli inglesi in una questione interna?"
"Non abbiamo altra scelta e sarebbe irresponsabile attendere oltre una
risposta del re. Avere una costituzione è un diritto naturale di ogni popolo.
Londra può diventare nostra alleata nella lotta contro lo scià."
Fu un gruppo di sette mercanti, i rappresentanti del bazar, a recapitare la lettera dell'ayatollah Tabatabai all'ambasciata d'Inghilterra. Nessuno di loro parlava una parola di inglese. Caso volle che in quel periodo alloggiasse all'ambasciata un illustre cittadino britannico: Browne Edward Granvill. Granvill era perdutamente innamorato della Persia, visitava le rovine degli antichi palazzi reali e tentava di decifrare i segreti delle incisioni in caratteri cuneiformi. Era praticamente impossibile, allora, trovare qualcuno che conoscesse la storia persiana come lui. Di professione era medico e, come tale, il benvenuto ovunque. Era sulla quarantina e al suo terzo, lungo soggiorno in Persia. Aveva imparato il persiano da autodidatta. Granvill si trovava nel Sud del paese quando aveva appreso delle proteste scoppiate a Teheran. Stava esplorando le rovine degli antichi palazzi incendiati da Alessandro Magno a Pasargad. Aveva interrotto i lavori e fatto ritorno in città per seguire da vicino l'evolversi della situazione. A Teheran Granvill alloggiava nella residenza inglese, dove scrisse il suo famoso libro di viaggio Among the Persians. Il giorno in questione si trovava alla finestra di una piccola stanza del secondo piano, con vista sulla piazza del bazar, in attesa che arrivasse il telegrafista per spedire un resoconto di viaggio a un quotidiano inglese.
Vide i sette uomini avvolti in costosi cappotti
e con alti copricapi dirigersi solennemente verso
l'ambasciata. Conoscendo bene i persiani e le loro
usanze, capì subito dal loro contegno che si trattava di una faccenda
importante.
I sette mercanti avevano con sé una breve nota in inglese che spiegava il motivo della loro visita. Granvill diede una rapida occhiata al testo. Si domandò se potesse far accomodare i signori o non dovesse prima avvertire l'ambasciatore. Optò per la prima ipotesi. Con grande sorpresa dei mercanti, lo straniero li salutò nella loro lingua e li invitò a entrare nel perfetto rispetto del rituale persiano: "Khosh hamadid, befarmaid. Ciai tazeh hazer hast. Benvenuti, accomodatevi, il tè è pronto." I mercanti si fidarono subito di lui e, appena varcata la soglia, gli raccontarono i loro problemi. In preda a una grande eccitazione, Granvill salì nello studio dell'ambasciatore, chiuse la porta dietro di sé e disse sottovoce: "Ci sono sette signori persiani venuti qui per incontrarla. Hanno una lettera sigillata e chiedono che l'ambasciata inglese la faccia pervenire ufficialmente allo scià." "Perché ci chiedono questo?" "Se ho capito bene, finora lo scià li ha ignorati. Ora vorrebbero tentare attraverso l'ambasciata in modo da costringerlo a rispondere alla loro lettera." "Ma questo è impossibile, non possiamo intrometterci in una questione interna al paese." Browne Edward Granvill era uno spirito libero, che non nutriva ambizioni politiche. Aveva trascorso quasi un terzo della sua vita tra India e Persia e non gli piaceva il modo in cui l'Inghilterra si comportava in quei paesi.
Ma quando vide che l'ambasciatore si rifiutava
di prendere in consegna la lettera dei mercanti,
si chinò verso di lui e gli sussurrò: "La accetti, è
un'occasione unica per l'impero britannico."
L'ambasciatore scese al piano di sotto, dove i sette mercanti lo attendevano con aria grave. Uno di loro teneva una busta sigillata stretta al petto come se fosse un gioiello. Lo salutarono, dopo di che l'uomo che stringeva la busta attaccò un discorso in persiano. L'ambasciatore chiese a Granvill di fare da interprete. Capiva il farsi e non aveva bisogno del suo aiuto, ma forse era vanitoso e pensava al libro che Granvill stava scrivendo. Forse sperava di trovare, grazie a lui, un posto sia nella storia persiana che in quella inglese. "L'ambasciatore ha detto che non è consuetudine che un diplomatico interferisca in un conflitto interno allo stato in cui si trova. In questo caso, tuttavia, si assume, a titolo personale, la responsabilità di far recapitare ufficialmente la vostra lettera allo scià tramite un proprio messo. L'ambasciatore ribadisce che l'Inghilterra resta estranea alla questione e prende le distanze dal contenuto della missiva."
Il mercante che aveva parlato a nome della delegazione ringraziò
l'ambasciatore e gli consegnò la lettera. Dopo di che i sette signori chinarono
il capo e si avviarono alla porta.
Quando ricevette la lettera sigillata dei mercanti racchiusa in una busta, a sua volta sigillata, dell'ambasciata inglese, per poco lo scià non ci restò secco. Mandò a chiamare il visir e il genero Eenoldole. "I mercanti hanno superato ogni limite. L'ultima volta la nostra risposta è stata troppo debole, per questo hanno avuto la faccia tosta di rivolgersi all'ambasciata inglese. Lo consideriamo alto tradimento della corona. L'Inghilterra si è intromessa nei nostri affari interni. Dobbiamo affrontare il problema alla radice." Naser chiese ad Almamalek di rimettere al loro posto gli inglesi, inviando una protesta formale all'ambasciata e ordinò a Eenoldole di arrestare i mercanti che avevano chiesto il loro aiuto. "Che ricevano una punizione esemplare, sulla pubblica piazza!" "Così non risolveremo niente", azzardò il visir. "Ignoriamo il contenuto della lettera, mentre dovremmo prendere in considerazione le loro richieste." "Ma quali richieste, quello che vogliono quei mercanti è pericoloso e illegale! Non può essere l'Inghilterra a dirci cosa dobbiamo fare nel nostro paese!" "Non sono richieste dell'Inghilterra, ma del bazar." "Chi è il re, noi o il bazar?" "Il re siete voi, ma qui si tratta dei bisogni dei vostri sudditi, sudditi a cui dobbiamo prestare ascolto." "Noi, lo scià di Persia, non siederemo allo stesso tavolo con i traditori." "Questa scelta rischia di avere conseguenze spiacevoli per vostra maestà." "Tutti i re che mi hanno preceduto hanno dovuto fare i conti con conseguenze spiacevoli." "Nel vostro stesso interesse vi consiglio di evitare, in questo caso, qualsiasi ricorso alla violenza", insistette Mostovi Almamalek. Lo scià si rivolse a Eenoldole: "Prima arrestiamo chi ha portato la lettera all'ambasciata, poi parleremo dei contenuti."
E con quelle parole mise fine a ogni discussione.
Eenoldole risali rapidamente all'identità dei sette mercanti. Scortato da un gruppo di agenti armati, entrò nella casa dell'ayatollah dove i mercanti del bazar avevano «preso bast». Si piazzò con il fucile in mano in mezzo al cortile, mentre gli agenti trascinavano fuori i sette uomini. Gli altri cercarono di impedirlo. "La ilaha illallah, Mohammad rasulullah", urlavano aggredendo i poliziotti. L'ayatollah Tabatabai gettò il suo turbante nero ai piedi di Eenoldole. "Bada a quello che fai!" gridò. "Perché è contro la volontà di Dio!" E si lanciò verso la porta per correre in aiuto dei mercanti, ma trovò la strada sbarrata. "Allah! Allah! Aiuto, aiutateci!" urlavano i rappresentanti del bazar. Iniziò ad arrivare gente da ogni parte alla casa dell'ayatollah, dove i sette uomini vennero fatti salire su un carro trainato da cavalli. Eenoldole e i suoi agenti erano impegnati a tenere a bada la massa, quando all'improvviso Jamal Khan, ancora camuffato da imam, si avventò sul carro con un gruppo di fedeli seguaci. Insieme liberarono gli arrestati che riuscirono a raggiungere con molti altri l'ufficio del telegrafo e a barricarsi dentro. Finora la gente aveva sempre cercato asilo nei luoghi sacri o nelle abitazioni degli ayatollah, era la prima volta che sceglieva come rifugio un ufficio del telegrafo. Eenoldole non poté far altro che circondare il fabbricato, dopo di che andò a palazzo a riferire allo scià. Era buio ormai e gli agenti che presidiavano l'ufficio del telegrafo non avevano ancora ricevuto notizie di Eenoldole. Evidentemente anche lo scià era stato sopraffatto dalla piega imprevista presa dalla rivolta. Nell'ufficio telegrafico regnava un'atmosfera di vittoria. I mercanti spedirono una sfilza di lunghi telegrammi agli altri bazar del paese spiegando quello che stava succedendo a Teheran. Firmavano i telegrammi con nuovi motti di protesta. Quella stessa sera iniziò a ticchettare anche il telegrafo dell'ambasciata inglese. Era un messaggio indirizzato all'ambasciatore. Browne Edward Granvill glielo lesse. "Incredibile, hanno reso pubbliche le loro richieste. Vogliono un parlamento, dei tribunali, una costituzione e chiedono all'Inghilterra di sostenerli nella loro battaglia." "Non so se sia una buona idea. Avrei preferito prima parlare con loro", osservò l'ambasciatore. "Ho paura che la situazione ci sfugga di mano." "Può essere, ma non è detto. Sia lo scià che i suoi oppositori sanno cosa fare. La novità è che i ribelli cerchino di coinvolgere l'Inghilterra nella loro azione."
"È una faccenda complicata. Mi sono consultato con Londra e ci troviamo in
una situazione alquanto difficile."
Anche lo scià ricevette lo stesso messaggio attraverso il suo telegrafo personale. Stava per aggiungerlo alla pila dei telegrammi da leggere quando vide la firma dei mercanti. Rimase senza fiato per lo spavento. E diede a Eenoldole l'ordine seguente: "Fai tagliare i fili del telegrafo di Teheran, in modo che non possano più avere contatto con l'esterno. E impedisci a chiunque di entrare nell'ufficio, usciranno implorando per la fame e la sete."
La notizia che l'ufficio telegrafico era stato
occupato si diffuse in tutta la città. Gli abitanti
di Teheran accorsero in centinaia a urlare il loro
sostegno ai mercanti. Cercavano di gettare cibo
oltre il cancello, ma chi era sorpreso a farlo veniva arrestato dalle guardie e
picchiato.
"Majlès! Adalatkhaneh! Qanun!",
scandivano i mercanti rinchiusi nell'edificio. E la massa rispondeva:
"Ma hamme ba ham hastim,
siamo tutti uniti!" Nonostante la stretta sorveglianza della polizia, gli
occupanti riuscivano ugualmente a ricevere rifornimenti. Quando i capi non
guardavano, alcune guardie lasciavano che la gente passasse loro cibo
e brocche d'acqua.
Trascorsero tre giorni senza che accadesse niente. "Ya margh, ya qanun, o costituzione o morte!" non demordevano i mercanti. La massa rispondeva a quei motti ostinati e li ripeteva, facendoli riecheggiare in tutta la città. La sera le concubine dello scià prendevano il cannocchiale e salivano sul tetto dell'harem. Non riuscivano a distinguere chiaramente le persone, ma ne vedevano le fiaccole, i movimenti e sentivano le loro grida: "Qanun! Qanun! Qanun!" Quei motti smuovevano qualcosa dentro di loro. Non capivano cosa significasse davvero qanun e quali vantaggi potesse comportare per loro. Ripetevano come una cantilena "qanun, qanun, qanun" e nel farlo provavano una straordinaria gioia fisica.
La situazione sembrava senza sbocco. Lo scià
voleva evitare il ricorso alla violenza. I dimostranti si rifiutavano di
lasciare l'ufficio del telegrafo.
L'ambasciatore inglese aveva ricevuto da Londra
la raccomandazione di seguire l'evolversi degli eventi senza prendere
iniziative, ma tenendo aperto il dialogo con tutti. Erano giunti alla
conclusione che lo scià non avrebbe vinto quella battaglia e avevano quindi
comunicato all'ambasciatore di dare, al limite, una mano ai ribelli.
Jamal Khan e l'ayatollah Tabatabai fecero di tutto per portare i grandi ayatollah di Qom a Teheran, nella speranza che il loro arrivo provocasse una svolta agli eventi. Verso sera giunsero in città tre carrozze con a bordo nove ayatollah. "Khosh hamadid, khosh hamadid. Salle alla Mohammad salam bar Mohammad!" esclamò la gente. "Benvenuti e salam ai discendenti del profeta Mohammad!" Gli agenti schierati in piazza del telegrafo fermarono le carrozze. Gli ayatollah scesero con aria stanca. Tabatabai andò ad accoglierli. Gli alti sacerdoti si diressero verso l'ufficio del telegrafo senza che un solo poliziotto fosse sfiorato dall'idea di trattenerli: sapevano che bastava un passo falso e la massa si sarebbe avventata su di loro. Si fecero quindi di lato e chinarono il capo in silenzio. Alla vista degli ayatollah, i mercanti asserragliati nell'ufficio si commossero e urlarono: "Ya margh, ya qanun! O costituzione o morte!" L'ayatollah più anziano, di nome Behbahani, alzò in aria il bastone e prese ad agitarlo al ritmo delle loro grida. Anche gli altri sacerdoti lo imitarono. "Qanun! Qanun! Qanun! Costituzione! Costituzione! Costituzione!" Poi andarono esausti a casa di Tabatabai, dove si unirono agli altri dimostranti in segno di protesta.
Non ci volle molto prima che decine di altri
imam seguissero il loro esempio. L'ambasciata inglese vedeva tutto, prendeva
nota e inviava ogni giorno telegrammi a Londra. Ci si preparava a
ogni eventualità.
L'adesione del clero alla protesta aiutò i mercanti barricati nell'ufficio del telegrafo, ma non modificò la situazione. Lo scià non cedette di un millimetro.
Jamal Khan riuniva ogni sera il comitato per
cercare di compiere un passo avanti all'alleanza
tra mercanti e ayatollah. Alcune sere dopo l'arrivo dei sacerdoti, il comitato
prese una decisione di importanza cruciale: avrebbero preso d'assalto
la famigerata prigione di Teheran e liberato i loro compagni.
Il giorno dopo centinaia di dimostranti spezzarono le catene dei prigionieri rinchiusi nelle umide segrete della capitale. Per quanto magro e indebolito, Mirza Reza si alzò fieramente in piedi quando sentì la voce di Jamal Khan nel corridoio buio che portava alla sua cella. Negli scontri a fuoco tra guardie e dimostranti morirono quattro detenuti. Se avessero voluto, le guardie avrebbero potuto uccidere decine di assalitori, ma era chiaro che alcune di loro simpatizzavano con i ribelli. Quando la notizia dell'assalto alla prigione raggiunse la piazza del telegrafo, i manifestanti si gettarono sui poliziotti. Anziché ritirarsi, Eenoldole scelse lo scontro. Ordinò ai suoi uomini di abbattere la porta dell'ufficio telegrafico usando una grossa trave come ariete. Gli agenti colpirono i mercanti con il calcio dei fucili, ma loro si difesero continuando a urlare: "Ya margh ya qanun, o costituzione o morte!" Un gruppo di dimostranti prese di mira Eenoldole. Lo circondarono. Un giovane imam si lanciò in avanti e afferrò le redini del suo cavallo. L'animale s'impennò e nitrì. Eenoldole puntò il fucile contro di lui, ma il sacerdote lo agguantò per la gamba sinistra e lo tirò giù di sella, mandandolo a finire con armi e tutto quanto lungo disteso per terra. Poi afferrò il suo fucile e fece per sparargli, ma un sergente fu più veloce e aprì il fuoco su di lui. Browne Edward Granvill seguiva gli avvenimenti dal tetto della residenza inglese. Nel caos di militari pronti a sparare e dimostranti decisi a difendere la propria vita con pietre e bastoni, Jamal Khan corse tra la folla verso l'ambasciata. "Browne Edward Granvill, mi ascolti!" urlò in direzione del tetto. "Tra poco ci saranno decine di morti. L'Inghilterra deve assumersi le sue responsabilità. I manifestanti sono in trappola. Aprite le porte dell'ambasciata e lasciateli entrare." Sulle prime Browne Edward Granvill non capì. Poi, quando si rese conto della situazione, rispose: "Avverto l'ambasciatore." Il suo governo l'aveva già autorizzato a intervenire in aiuto dell'opposizione, se necessario, per sicurezza, però, il diplomatico voleva scrivere un ultimo telegramma a Londra. Ma Granvill gli disse, emozionato: "Lo scià sta uccidendo i suoi sudditi sotto i nostri occhi. Non può aspettare Londra. Tocca a lei decidere!" Fuori i soldati sparavano sui dimostranti inermi. "Faccia aprire i cancelli!" ordinò l'ambasciatore. Granvill corse al portone. "Rifugiatevi nell'ambasciata!" urlò a squarciagola a Jamal Khan. I manifestanti si precipitarono uno dopo l'altro nel grande giardino della residenza britannica.
Mentre dettava un telegramma da inviare a
Londra, il diplomatico inglese vide la gente che da
dietro i cancelli dell'ambasciata urlava ai militari
agitando il pugno:
"Ya margh, ya qanun."
|