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| << | < | > | >> |IndiceL'estate di Tito 7 La famiglia Kocsis 39 Poliziotti di frontiera, salici piangenti 57 Parole come 72 Celeste 93 Mondi 110 Juli 133 Dalibor 146 Noi 161 Real big 176 Mamika e Papuci 197 L'amore. Il mare. Il fiume 210 Mani nell'aria 222 Novembre 241 |
| << | < | > | >> |Pagina 7L'ESTATE DI TITOQuando finalmente arriviamo con la nostra macchina americana, una Chevrolet marrone scuro, cioccolato si potrebbe dire, il sole batte impietoso sulla città di provincia, ha divorato quasi del tutto le ombre delle case e degli alberi, è a mezzogiorno che arriviamo, allunghiamo il collo per vedere se c'è ancora tutto, se tutto è rimasto come l'estate scorsa e gli altri anni prima. Arriviamo, scivoliamo come sull'acqua lungo la strada bordata di pioppi maestosi, il viale che annuncia la cittadina, e non ho mai detto a nessuno che questi alberi protesi verso il cielo mi mettono in uno stato inebriante, uno stato che mi proietta nel vortice Matteo (la vertigine in cui cado quando io e Matteo giriamo in cerchio ancora e ancora, sulla radura più bella del bosco del paese, intimi, la sua fronte sulla mia, poi la lingua di Matteo, di una freschezza singolare, i peli neri del suo corpo che aderiscono alla pelle, totalmente votati alla sua bellezza chiara). Mentre passiamo davanti ai pioppi il loro tremulo luccichio mi fa perdere la ragione, la nostra nave color cioccolato scivola da un albero all'altro senza rumore, nel mezzo l'aria della pianura che diventa visibile, io riesco a vederla, l'aria, che adesso è immobile perché il sole non ha pietà, mio padre dice, rivolto al condizionatore, che è sempre tutto identico, e aggiunge a bassa voce non è cambiato niente, niente. Mi domando se mio padre vorrebbe che una truppa di giardinieri professionisti potasse almeno i rami - per opporre la civiltà alla loro crescita selvaggia! - o abbattesse con macchine efficienti i pioppi che annunciano la cittadina, una volta per tutte! (E noi ci siederemmo su uno dei ceppi, domineremmo con lo sguardo la pianura impregnata della calura di mezzogiorno, e mio padre sentirebbe addirittura il bisogno di scalarlo, un ceppo, ci girerebbe sopra, un giro completo, per poi dire con la voce amara di un uomo cui viene data ragione quand'è ormai tardi, ma meglio tardi che mai: finalmente ci siamo liberati di questi maledetti alberi polverosi.) Nessuno sa cosa significano per me questi alberi, l'aria tra gli alberi che si può proprio vedere, e in nessun altro luogo gli alberi sono più promettenti che qui, dove la pianura gli lascia spazio, e anche questa volta vorrei fermarmi, appoggiarmi di schiena a uno dei tronchi, alzare lo sguardo, farmi incantare dai piccoli movimenti rapidi delle foglie, e anche questa volta non chiedo a mio padre di fermarsi perché non saprei rispondere alla domanda sul motivo, perché dovrei raccontare molte cose, e senz'altro di Matteo, spiegare perché voglio fermarmi proprio qui, a un passo dalla meta. Dunque la nostra macchina prosegue attratta da una forza segreta, quasi immune alle asperità della strada, e prima di essere definitivamente arrivati dobbiamo superare un altro "non è cambiato niente", la civiltà deve incassare un altro colpo, una battuta d'arresto, e noi bambine premiamo la faccia contro il vetro di sinistra che ci sorprende per quanto è fresco, vediamo con occhi increduli gente che vive in mezzo a una montagna di rifiuti, non è cambiato niente, dice mio padre, baracche di lamiera ondulata, gomma, bambini arruffati che giocano tra carcasse d'auto e spazzatura come se non ci fosse niente di più normale, come fanno con i cocci di vetro? vorrei domandare, con la notte che cala, come fanno quando si muovono le ombre, quando si animano le cose che ora languono in questo caos tremendo? E per un minuscolo istante dimentico i pioppi, Matteo, il tremolio, la Chevrolet, e la notte nera della pianura mi avvolge con tutta la sua forza distruttiva, e non li sento, i canti degli zingari, tanto evocati, ammirati, vedo solo le ombre rapaci nel buio, nessun lampione a scacciarle. E mio padre guarda in tralice dal finestrino, scuote la testa, tossisce la sua tosse secca, guida così piano che sembra voglia fermare la macchina nel giro di pochi secondi, rendetevi conto, dice picchiettando con l'indice sul finestrino (mi ricordo un fuoco, il suo fumo che si smarrisce), registro le facce luride, gli sguardi penetranti, gli stracci, brandelli, la luce tremante sulle montagne di rifiuti, prolungo lo sguardo come se dovessi capire tutto, queste immagini di gente che non ha i materassi, figurarsi i letti, e allora magari di notte si seppellisce nella terra, nella pianura nerissima che adesso, d'estate, scoppia di girasoli e poi d'inverno è esposta da far pietà, terra, terra e nient'altro, d'inverno è oppressa da quintali di cielo, e quando il cielo la lascia in pace diventa un mare, senza vento. Non l'ho mai detto a nessuno ma io amo questa pianura che si assottiglia in una striscia desolata, non regala mai nulla; completamente sola in questa pianura dalla quale non puoi aspettarti niente, su cui al massimo puoi sdraiarti, a braccia aperte, e questa è la protezione che ti concede. Se avessi detto che amo Matteo (un siciliano che ha fatto irruzione in classe qualche settimana prima delle vacanze estive, ciao, sono Matteo de Rosa! ed è subito piaciuto a tutti, tranne al professore) probabilmente i più mi avrebbero capita, ma come si fa a dire di amare una pianura, i pioppi, polverosi, indifferenti, fieri, e l'aria che ci sta in mezzo? D'estate, quando la pianura è cresciuta di un piano, campi di girasole, mais e frumento ovunque guardi, e si racconta che ogni tanto nei campi sterminati sparisce qualcuno, se non stai attenta la pianura ti prende e ti divora, dicono, e io non ci credo, credo che la pianura sia un mare, con le sue proprie regole. Povere creature, dice mia madre come se fossimo davanti al televisore, e anziché cambiare canale ci passiamo davanti, passiamo oltre nella nostra cella refrigerata che è costata un sacco di soldi e ci fa tanto larghi, sembriamo i padroni della strada, e mio padre accende la radio perché la musica trasformi la desolazione in ritmo ballerino, guarisca all'istante il piede zoppo della realtà: vieni qui, non andar lì, vieni qui, tesorino, dammi un bacino... Attraversiamo i binari con un rumore appena accennato, superiamo il cartello storto e arrugginito cui tocca portare il nome della cittadina da un'eternità, siamo arrivati, dice mia sorella Nomi, indica il cimitero dove regna un'ingiustizia vistosa, tombe di cui non si cura nessuno, semplici, coperte di erbacce, croci di legno quasi irriconoscibili, date, lettere pressoché indecifrabili, siamo arrivati, dice Nomi, e nei suoi occhi si legge la paura di dover passare dal cimitero prima o poi, nei prossimi giorni, di fermarsi impotente davanti alle tombe, vergognarsi delle lacrime dei genitori, aver voglia di piangere anche lei, immaginare che nelle bare lì sotto ci sono il nonno paterno e la nonna materna che noi, Nomi e io, non abbiamo mai conosciuto, prozii e prozie, le mani, che in simili momenti sono sempre d'impaccio, il tempo, che in simili momenti è sempre inopportuno, se si piangesse si saprebbe almeno cosa fare delle mani; gladioli e rose tenui accanto alle tombe rivestite di lastre di pietra, i morti, con i nomi incisi nella pietra per i posteri, le lastre di pietra che a me non piacciono perché opprimono la terra della pianura, impediscono alle anime sottostanti di volare via. La nostra famiglia per parte di madre e per parte di padre giace sepolta sotto lastre di pietra, nel peggiore dei casi mancano i fiori, le rose gialle e rosso chiaro, i gladioli, ma coperte di lastre di pietra le tombe non vanno in rovina anche se nessuno va a visitarle, nemmeno alla festa dei morti, neanche il due novembre, dice mia madre quando le telefona una qualche cugina, le comunica con voce afflitta che al cimitero non c'era nessun altro ad accendere un lumino per i defunti, quanto meno le tombe non vanno in rovina, dice poi mia madre, e in quella frase c'è il profondo lutto di una vita che non può prendersi cura nemmeno dei morti perché sono troppo lontani per potergli portare i fiori, foss'anche una volta all'anno, a Ognissanti.
Siccome è raro che la morte si annunci per tempo, quando
muore qualcuno della nostra famiglia in Voivodina non ci
siamo quasi mai, e quando ci telefonano zia Manci o zio Móric,
gli unici ad avere il telefono, per dirci che purtroppo è giorno
di cattiva notizia, nel nostro salotto cala uno strano silenzio,
forse se fossimo là, dove vivono i nostri parenti, avremmo qualcosa da dirci
sulla morte, o quanto meno ascolteremmo quanto
si dice del defunto e sicuramente ci commuoveremmo al canto
di Mamika che penetra con la voce nei recessi più segreti di
ogni anima, ma poiché non siamo là, dove la gente si accomiata
per tre giorni prima di affidare alla terra le spoglie mortali,
come si dice, poiché abbiamo solo il telefono, una voce lontana
che attesta l'irrevocabile, nel giorno della cattiva notizia ci
muoviamo come fantasmi, evitiamo persino di sfiorarci con gli
occhi, e ricordo mio padre buttare nella pattumiera con veemenza i crisantemi
gialli che mia madre aveva messo sul tavolo
del salotto, un giorno di ottobre del 1979, quando abbiamo ricevuto la notizia
della morte della prozia adorata da papà.
Niente fiori da morti, sbotta papà con la nuca rossa e il telecomando in mano,
Nomi e io da allora chiamiamo i crisantemi i
fiori proibiti perché non possiamo più metterli sul tavolo, e
quando poi andiamo al cimitero al paese decoriamo di fiori le
tombe dei nostri defunti, sicuramente non di crisantemi, nemmeno se è autunno, e
siamo comunque arrivati troppo tardi,
siamo un'altra volta soli con il nostro lutto.
E allora non immaginavamo che nel giro di pochi anni avrebbero rovesciato le
lapidi, spaccato le lastre di granito e decapitato i fiori, perché in guerra
ammazzare i vivi non basta, e se lo
avessimo immaginato probabilmente avremmo chinato il capo
davanti alle tombe dei nostri defunti, pregato che la nostra flebile cantilena
si compattasse in un riparo magico perché nessuno disturbasse i morti nel loro
eterno riposo, come si dice, ma avremmo anche potuto pregare che i lombrichi, le
larve, i collemboli, i millepiedi e coleotteri d'ogni tipo non cominciassero a
zampettare e strisciare freneticamente gli uni sugli altri
al brusco cambiamento di luce per poi, dopo la distruzione, tornare a rifugiarsi
al riparo dell'oscurità.
La nostra nuovissima Chevrolet svolta a sinistra, in via Hajduk Stankova, traccia una curva elegante prima che mio padre debba frenare perché la strada non è asfaltata, sporco riarso coperto da un sottile strato di polvere che fa della nostra Chevrolet un'assurdità incipriata, la civiltà subisce anche qui una battuta d'arresto. Siamo arrivati, dico io, la macchina è ferma davanti all'ingresso, un baluardo di assi rinsecchite e deformate alto un paio di metri e largo tre che offre agli sguardi curiosi più di una sola, promettente fessura, mio padre spegne il motore, noi strizziamo gli occhi verso la casupola bianca, abbagliante al sole, che fa parte dell'ingresso, la casa di Mamika, la madre di mio padre, per me il prototipo della casa che custodisce i segreti primi e più profondi, e restiamo seduti per un lungo istante prima che papà apra il portone, la Chevrolet entri lentamente nel cortile, scacci anatre e galline con un colpetto di clacson. Dio vi porta, Mamika non sorride, non piange, dice questa frase con la sua tipica voce sottile, e ci carezza le guance a uno a uno, anche a mio padre, il suo bambino, è la benevolenza di Dio a condurci nel salotto che funge anche da camera da letto, la grazia di Dio a servirci Traubisoda, Tonic, Apa Cola e un grappino ogni tanto, papa Giovanni Paolo II ci sorride come sempre dall'immaginetta a colori, e io ispeziono la stanza con ansiosa precisione, passo in rassegna con lo sguardo la credenza, la benedizione della casa, i tappeti pezzotti, spero che sia rimasto tutto come prima, perché quando torno al luogo della mia prima infanzia niente temo più del cambiamento: riconoscere gli oggetti eternamente uguali mi protegge dalla paura di ritrovarmi estranea in questo mondo, di essere esclusa dalla vita di Mamika, devo, il prima possibile, tornare in cortile per proseguire le mie ansiose ispezioni: c'è ancora tutto? I due silos di rete dove si conserva il granturco e i topi scorrazzano senza ritegno, la pompa blu dell'acqua che per me è sempre stata viva (gnomo? animale indefinibile?), le rose e le viole matronali predilette da mia madre, con un profumo, di notte, da far girare la testa, i ciottoli da cui evapora il piscio d'estate, su cui schizza il sangue delle galline sgozzate da Mamika con gesto preciso, su cui un attimo prima le galline beccavano i chicchi di mais macinati. C'è ancora tutto? mi domando in segreto, e solo molto più tardi ho capito perché, nei primi momenti dell'arrivo, mi assale questa particolare inquietudine, e non sono sola con questa sensazione sgradevole, Nomi ne è altrettanto colpita ma la affronta in un altro modo. E dopo aver ispezionato il cortile, il pollaio, la latrina, il mucchio del letame, l'orto e naturalmente il solaio - che rivela i segreti più belli in assoluto - devo ridiscendere in fretta la scala a pioli marcescente, stare attenta a non calpestare nessuna delle diacciole luccicanti che crescono negli interstizi fra i ciottoli, tornare al portone, abbassare la maniglia, sporgere la testa per vedere se c'è ancora, la pazza con i capelli scompigliati, con gli occhi che credono a tutto e tutto dimenticano, chiedono prima che lo faccia la bocca, hai qualcosa da darmi? qualcosina di dolce? per il mio cuore, uno zuccherino? Devo vedere se c'è Juli, che è rimasta una bambinona, così dicono, anche se ha già le tette e ciuffi di peli sotto le ascelle da un pezzo, Juli appoggiata al muro di casa a qualche decina di metri da qui o seduta su una sedia pieghevole, Juli che al giorno non fa nient'altro che osservarlo, Juli ci sei? La pazza che a noi bambine fa paura, che prendiamo in giro all'infinito, la adoriamo perché crede a tutto quello che le diciamo e racconta cose che profumano di un mondo sconosciuto (ehi, Nomi e Ildikó, dice Juli, avete una sorella, eh sì, io lo so, è bellissima, sì sì, e ridacchia, io lo so, guardate qui, Juli indica i grandi fiori arancione del suo vestito, sono i miei occhi, eh sì...). | << | < | > | >> |Pagina 15Traubi! esclamiamo in coro Nomi e io quando ci siamo lavate le mani, ci sediamo al tavolo apparecchiato di Mamika e troviamo ad aspettarci le bottigliette su un vassoio di plastica. Traubisoda: così si chiama la bibita magica del nostro paese, una bottiglietta sottile senza etichetta sul cui vetro verde spiccano lettere bianche, Mamika, che ha comprato un sacco di Traubi per noi, apposta per voi! e naturalmente Nomi e io siamo ragazzine occidentali viziate che se la ridono di come quelli dell'est tentino di imitare la Coca-Cola e non riescano a tirar fuori niente di meglio che una disgustosa broda marrone chiamata Apa Cola (Apa Cola, un nome assurdo!), ma per la Traubi andiamo matte, ne andiamo matte al punto da progettare di portarcene qualche bottiglietta a casa, in Svizzera, per dimostrare alle amiche che da noi, nel nostro paese, c'è una cosa incredibilmente buona - ma sinora non lo abbiamo fatto.Mamika mette in tavola lo spezzatino di pollo con gli gnocchi, le cotolette di maiale impanate con le patate fritte e la zucca, i cetrioli sott'aceto cotti al sole e i pomodori in insalata con le cipolle rosse, Mamika ci ha permesso di bere tutta la Traubi che vogliamo e per una volta possiamo alzarci durante il pranzo per saziarci di baci sulla sua pelle morbida, ci stringiamo da destra e sinistra al calore del suo vestito, e solo Mamika non ci dà sui nervi quando dice che siamo cresciute di due dita come minimo, le mie grandone, dice, tra poco sarete delle signorine! Nomi e io appoggiamo le mani una dopo l'altra sulla crocchia di Mamika perché i suoi capelli intrecciati sono così morbidi e piacevoli sulle palme delle mani, e io, che in quell'estate mi sento già come se le mie gambe fossero troppo lunghe, le mani troppo grandi, c'è sempre qualcosa fuori posto nel mio corpo, io sono sicuramente cresciuta più di due dita, e tuttavia sono ancora lontanissima dal mondo degli adulti, me ne accorgo quando mamma e papà si mettono a raccontare della nostra vita in Svizzera, del lavoro nel nostro negozio, TINTORIA STIRERIA riporta l'insegna bianca e nera, e papà disegna lettere per aria davanti agli occhi di Mamika, e numeri di quanto costa una camicia stirata, una tovaglia, una canottiera, quanto sconto fanno se uno porta dieci camicie in una volta, e mamma spiega quanto sono complicate le stoffe dei ricchi, le dita devono prima imparare a passarci il ferro da stiro, per quel prezzo non si deve vedere neanche una piegolina, dice, e io, mentre ascolto i miei genitori con un orecchio, discuto quasi in silenzio con Nomi di come reagirebbero le nostre amiche alla Traubisoda, Betty direbbe senz'altro non male ma niente di speciale! e Claudia probabilmente rigirerebbe la bottiglietta tra le mani e non direbbe niente o si limiterebbe ad alzare le spalle, non è facile ammettere certe cose, dice Nomi, hai ragione! non è leale costringere le amiche a mentire, decidiamo che è meglio continuare a decantare la Traubisoda e aspettare il giorno in cui sarà molto più famosa, persino più famosa della Coca-Cola, sì, certo! e Nomi ne versa di nuovo a tutte e due, papà e mamma intanto raccontano che facciamo pure le consegne a domicilio, portiamo grandi ceste di biancheria stirata a casa dei nostri clienti, soprattutto la sera, naturalmente ha un costo extra se dobbiamo salire su per le alture, perché abitano di preferenza in alto, i ricchi, dice papà e ride, e mentre si sofferma a raccontare dei cani che lo hanno aggredito o quasi aggredito durante le consegne io penso a noi, in cantina, dove sono sistemate le due lavatrici, l'ammorbidente, il detersivo e i saponi speciali, innumerevoli ceste di plastica di ogni colore e dimensione, sacchi di stoffa con le mollette da bucato e, a parte, un buffet con i piatti e le posate, le spezie e una piastra elettrica, a come ci sediamo al tavolino di legno che papà ha trovato per strada, e pranziamo lì, dove fa sempre freddo, tra i panni appena stesi, in silenzio perché a papà non piace che si parli mentre si mangia. Quando siamo sole, Nomi e io, misuriamo con le dita le mutande più sformate, ci immaginiamo quante volte ci starebbero le nostre cosce e i nostri sederi, in quei paracadute! anche i ricchi vanno al gabinetto, e certi sono addirittura obesi, diciamo ridacchiando, ma poi quando la persona interessata viene a ritirare il pacco della sua biancheria, quando devo guardarla negli occhi mentre paga mi vergogno, e questo non lo sa nessuno, neanche Nomi. Deve essere un lavoro duro, dice Mamika, taglia il pane, una fetta spessa un dito che porge a papà. Ma è ben pagato e non prendo ordini da nessuno, risponde lui, scopre i denti e si versa un altro bicchierino, mi dica Mamika, continua a fare la coda in piena notte per questo pane ridicolo, adesso che finalmente il re dei partigiani è morto? oppure il pane lo può comprare il pomeriggio o a un'altra ora...? E tra poco papà attaccherà a parlare delle radicali differenze fra est e ovest, le differenze più radicali dell'universo, scolando un bicchierino dopo l'altro, l'acquavite di pere distillata in casa da zio Móric, adesso, quest'anno che è morto il compagno Josip Broz Tito si toccherà con mano quello che tutti, o almeno gli intelligenti, sanno già da un pezzo, ossia che ci vorranno più generazioni per riprendersi dalla cattiva amministrazione socialista, sempre che ci si riesca! (questo e molto altro lo abbiamo già sentito durante il viaggio), quando papà sta per scaldarsi, Nomi dice, in modo del tutto inaspettato, con la voce stridula e intransigente di quando chiede le caramelle, adesso voglio che Mamika parli con me, voglio che parli Mamika adesso. E chiede alla nonna quanti maialini sono nati, chiede delle oche, delle galline, se poi possiamo andare a prendere le uova, vuole sapere se Mamika ingozza ancora le anatre, se Juli va ancora a farle la spesa al mercato, e il giardino del signor Szalma com'è? Nomi si appende al collo di Mamika, parla e parla e non la finisce più, tanto che mamma le passa la mano sul viso accaldato e le dice siamo appena arrivate, hai ancora qualche giorno per chiedere a Mamika tutto quello che vuoi.
Ma io voglio sapere tutto adesso, dice Nomi, voglio sapere
proprio tutto adesso, ripete e si stringe alla guancia di Mamika,
piange quasi, le sale la voce in falsetto e la mamma scuote la
testa senza capire e papà dice, dopo un viaggio così lungo non
ho voglia di sorbirmi questi capricci, e picchia la mano sul tavolo, e visto che
di mosche non ce ne sono trasaliamo tutti, tutti
tranne la nonna che dice con voce quieta: benvenuti nella mia
casa! Benvenuti con quello che portate, caro il mio Miklós! io
adesso vado a fare un giretto con Nomi e Ildikó, nel frattempo
tu ti riposi e poi mangiamo il dolce!
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