Copertina
Autore Annalisa Accetta
Titolo Poesie per Alberta
EdizioneESI, Napoli, 2005, Dialoghi «oltre il chiostro» 18 , pag. 176, cop.fle., dim. 150x220x12 mm , Isbn 978-88-495-1153-6
CuratoreAnnalisa Accetta
PrefazioneFrancesco Lucrezi
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe shoah , scuola , biografie , storia contemporanea , storia criminale , poesia
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Indice

Introduzione                                     5

Intervista ad Alberta Levi Temin                 9


Cara Alberta...                                 21
Cuore Deserto                                   22
Lontani dalla vita                              23

Istituto Professionale Statale
Industriale e Artigianale Ottavio Augusto
Ottaviano - Napoli

Intima preghiera                                27
Inno alla speranza                              28


Scuola Media Statale Guido Gozzano - Napoli

Poesia                                          33


Scuola Elementare 65° Circolo - Napoli

Un urlo di dolore                               37


Scuola Media Statale Giovanni Pascoli
Cicciano - Napoli

La pace è...!                                   41
Poesia                                          41
Existence                                       42
Per ricordare                                   42
La vita di un'ebrea                             43
Io sono                                         43
Solo una razza diversa                          44
Lettera d'un ebreo                              44
Ebreo                                           45
Chi sono?                                       45
Il pensiero di una fanciulla                    46
Importanza dell'Uguaglianza                     47


[...]

Scuola Elementare I Circolo
Ottaviano - Napoli

Perché...?                                     131
Il Treno                                       132
Angeli                                         133


Scuola Media Statale Antonio De Curtis
Casavatore - Napoli

Caro bambino                                   137
Vita di un prigioniero                         138


Scuola Media Statale Torquato Tasso
Sorrento - Napoli

Chissà se le parole                            141
Come me, ma diversi                            141
Ebreo                                          142
Perché                                         143
Per Alberta                                    144


Scuola Media Statale Tommaso Anardi
Scafati - Salerno

Scrivo e piango...                             147
Il bambino del domani                          148


Scuola Elementare 17° Circolo Andrea Angiulli
Napoli

In ricordo degli Ebrei                         151
Il pianto disperato di un bimbo                151


Scuola Media Statale Anna Frank
Napoli

Mai dimenticati                                155
Napoli                                         155
Razzismo e violenza                            156
Quando cammineremo                             156
La Pace                                        157
C'è speranza nel mondo                         157
La pace                                        158
La pace non si compra al mercato...            159


La Shoah e la Storia                           161

Postfazione di Francesco Lucrezi               165

 

 

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Pagina 9

Intervista ad Alberta Levi Temin


Signora Alberta, Le va di raccontarci la sua storia?

Siamo rimasti in pochi ad aver vissuto da adulti l'epoca, particolarmente buia per noi ebrei italiani, che va dal 1938 al 1945. Ricordo perfettamente nell'agosto del 1938 il primo numero del giornale La difesa della razza, ricordo Il manifesto della razza redatto, o comunque firmato in ossequio alla voce del padrone, da alcuni italiani, docenti di università e medici di grido; vengono lì fissate le basi del razzismo fascista. Si è cominciato così, ma ci sembrava che non potesse essere un cosa seria. Mio padre, che aveva combattuto nella guerra del 1915/1918, diceva che non ci dovevamo preoccupare, che era un vento, un vento che sarebbe passato... E invece è stata una valanga che si è ingrossata a dismisura, travolgendoci tutti. Nel settembre, sempre del 1938, al primo incontro del Gran Consiglio Fascista sono cominciate le prime leggi razziali: interdette le scuole di ogni ordine e grado agli ebrei, sia agli allievi che agli insegnanti. Quell'anno avrei dovuto entrare all'università e mi furono chiuse le porte: fu un duro colpo, mi sentivo disorientata, si frantumavano tutti i miei sogni. Perché? Avevo conseguito il diploma magistrale ed ebbi la possibilità di insegnare alla scuola ebraica subito aperta. I nostri ragazzi dovevano comunque essere istruiti, tanto più che era consentito di sostenere gli esami alle scuole pubbliche. La speranza è sempre l'ultima a morire ed eravamo certi che le famigerate leggi sarebbero state presto cancellate. Ma ad ogni susseguente incontro del Gran Consiglio Fascista venivano emanate nuove norme per toglierci ogni diritto civile, leggi regolarmente firmate da Vittorio Emanuele III Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia. Per non perdere il trono firmava qualsiasi legge gli venisse sottoposta, abbandonando sudditi che avevano contribuito a creare l'Italia unita, una nazione che esiste anche per merito loro. Alcuni avevano dato prestigio alla patria, non solo nelle lotte d'indipendenza e di libertà, ma anche nel campo delle scienze, della cultura e della politica. Ogni tanto sento dire «ma qui non è successo niente!» Nei paesi dove non c'erano ebrei niente è successo; ma erano leggi di Stato che hanno colpito il cittadino italiano ebreo ovunque si trovasse.

Comunque la tragedia più grande avvenne dopo l'8 settembre del 1943. In quella data fu emesso il famoso editto di Badoglio, non chiaro: la guerra continuava ma non si capiva bene da che parte si dovesse stare. I nazisti che erano già sul nostro suolo come alleati ne approfittarono per occupare in Italia municipi, stazioni e caserme. A Ferrara non lontano da casa nostra c'era una caserma e ricordo che anche noi abbiamo fornito ai nostri soldati vestiti da civili, per permettere loro di scappare. Noi non sapevamo ancora come regolarci. Mio padre non voleva lasciare la casa: «siamo persone oneste, non dobbiamo avere paura...». Io, invece, ne avevo tanta. La notte dell'8 ottobre del '43, durante il coprifuoco, in casa nostra il campanello suonò alle quattro del mattino. Era un questurino italiano accompagnato da un soldato tedesco. Aveva un foglio con tutti nomi di ebrei e cercavano mio nonno materno, già scomparso da 22 anni. Perquisirono inutilmente la casa da cima a fondo nella speranza di trovarlo. Quel passo chiodato del soldato che profanò la nostra casa mi è rimasto nelle tempie e quel ricordo mi ha salvato la vita pochi giorni dopo. A Ferrara quel giorno presero ventidue giovani ebrei tra i 20 e i 30 anni; comprendemmo allora che forse non era mio nonno il ricercato, ma un mio cugino di 20 anni che aveva lo stesso nome del nonno, per fortuna era in Svizzera dove frequentava l'Università. I giovani presi finirono in prigione per un mese, poi furono trasferiti alle carceri di Bologna e dopo un altro mese furono consegnati ai nazisti e deportati ad Auschwitz. Seppi questo a guerra finita... ma torniamo alla mia storia.

Papà sembrava finalmente deciso ad un nostro allontanamento. Il giorno dopo era il kippur, trascorremmo la giornata in casa, leggendo i salmi; la sera la tensione si era allentata e mio padre ancora una volta disse che non era il caso di lasciare la nostra casa: avevano preso solo giovani uomini e li avrebbero precettati per qualche lavoro. Io ricordavo quello che pochi mesi prima mi era stato detto da un sacerdote cattolico che si era trovato a Vienna quando fu occupata dai nazisti. Mi raccontò di 40 ragazze ebree che avevano preso e trattato bene per otto giorni e che poi furono offerte in «premio» ad un manipolo di SS. Il giorno dopo furono trucidate. Quel sacerdote presentiva che anche l'Italia sarebbe stata occupata dai nazisti, in quel momento dovevamo nasconderci e fuggire. Non avevo mai raccontato questo fatto ai miei genitori, perché per l'educazione ricevuta ai miei tempi un argomento così scabroso era tabù in casa nostra; ma in quel momento parlai e solo allora mio padre si decise alla partenza.

Avevo 24 anni quando lasciammo la città per rifugiarci a Roma, in casa di miei zii. Arrivammo il 13 ottobre 1943. Per una legge di guerra a Roma i portieri dovevano registrare tutti gli eventuali ospiti che dormivano nell'edificio. Non volevamo dare le nostre carte d'identità al portiere, eravamo scappati da Ferrara per nasconderci, bisognava che in casa degli zii non si notassero letti in più. Per questa ragione nella camera di mio cugino facemmo un letto matrimoniale e ci dormimmo in tre: la mamma, Piera ed io, mentre Giorgio, mio cugino di 16 anni arrangiò una branda in una stanzetta di servizio. Papà fu ospitato da un'anziana signora, ebrea anche lei, amica della zia. Eravamo certi che gli alleati sarebbero arrivati presto e questa situazione non sarebbe durata a lungo.

Per prima cosa dovevamo trovare lavoro, non potevamo essere in quattro sulle spalle dello zio Mario, fratello di papà, già ingegnere alla SME che dal 1938 aveva perso il posto per le leggi razziali e provvedeva al mantenimento della sua famiglia facendo traduzioni e dando lezioni. Mio padre rintracciò un amico cattolico, compagno d'arme nella guerra del 1915/1918, con il quale aveva sempre mantenuto un rapporto epistolare. Gli espose la nostra situazione e gli fu subito offerto di lavorare per l'amministrazione dell'azienda per tutto il tempo che gli eventi bellici ci avessero trattenuti a Roma. Inoltre offrì a mia sorella più giovane di recarsi ogni giorno a prendere la sua figliola di 14 anni all'uscita della scuola e intrattenersi a casa loro tutta la giornata seguendola negli studi. Anche io trovai subito l'occasione di dare delle lezioni private, ma più interessante fu l'offerta di accudire l'amica di un'altra amica, cattolica naturalmente, costretta a letto, rimanendo anche a dormire da lei. Questi gli argomenti di cui parlammo a cena la sera del 15 ottobre, l'ultima cena in famiglia. Eravamo tanto tranquilli che zia Alba oppose ferma resistenza al mio progetto lavorativo: «Finché c'è questa casa tu non vai a fare la cameriera a nessuno!». Č stato bello andare a letto sereni. Il mattino dopo, però, fummo svegliati da una forte scampanellata; guardai l'orologio, erano le sei, c'era ancora il coprifuoco, potevano essere solo i tedeschi. Il pensiero è più veloce del fulmine. Con l'esperienza di ciò che era successo a Ferrara otto giorni prima immaginai che avrebbero preso solo i ragazzi giovani, nella casa degli zii non ce n'erano: Giorgio era poco più che un bambino e lo zio aveva 56 anni, noi altre eravamo tutte donne. Non avrebbero preso nessuno ma avrebbero cercato e dissi alla mamma: «Non voglio sentire quel passo» e in camicia da notte a piedi nudi uscii sul balcone la cui porta era accanto al mio letto. Feci ancora in tempo ad udire l'urlo di avvertimento della zia che aveva aperto la porta di casa: «Sono i Tedeschi!». Poi subito alle mie spalle la porta-finestra da cui ero uscita fu chiusa: mia sorella Piera scesa dal letto dopo di me vide spalancarsi la porta che dava nel corridoio e una SS con la baionetta innestata che continuò di corsa ad aprire tutte le porte dell'appartamento. Piera gli volse le spalle, chiuse il balcone e mi salvò.

Il ricordo di quei momenti mi brucia ancora: appiattita contro la parete, con l'orecchio vicino allo stipite per cercare di capire cosa succedeva dentro, letteralmente mi paralizzai. Capii subito che portavano via tutti e non mi mossi. Come fu possibile con il carattere impulsivo che mi ritrovo? Con l'amore infinito che mi legava a mia mamma, a mia sorella ai miei cari? Membra, cuore, mente si immobilizzarono per il terrore che mi invase. Solo la sera dopo 13 interminabili ore compresi quanto ero stata fortunata. Ma andiamo con ordine. Le SS erano solo due, credevo fossero in tanti perché gli ordini duri «Kommt! Raus!» si susseguivano a getto continuo. Udii la mia mamma dire: «Il mio Carlo non lo rivedrò più». Il suo Carlo era mio padre. Udii zia Alba urlare: «Ma no che non prendo la pelliccia, non andiamo mica a teatro!». Non potevo non capire. A un certo momento si socchiuse l'altra finestra che dalla cucina dava sul mio medesimo balcone. Seppi poi che l'aprì Giorgio solo al momento prima di uscire per dare a me la possibilità di rientrare. Con quella porta aperta avrei potuto sentire meglio, ma nessuno più parlava, udii solo i loro passi nel corridoio, poi la porta di casa che si chiudeva e nel silenzio il ciack ciack del catenaccio: seguì un silenzio assoluto.

Non so quanto tempo ancora rimasi paralizzata; quando riuscii a muovermi entrai dalla porta di cucina, trovai la casa in un disordine spaventoso, armadi aperti, valigie vuote per terra, corsi alla porta d'ingresso, era chiusa con il catenaccio, né si poteva aprire senza chiavi. Corsi al telefono per chiamare mio padre, anche lui era in una casa ebraica. I fili erano stati strappati. Mi sentivo in trappola. Tornando nella mia camera scorsi a terra nell'ingresso una listerella di carta ciclostilata dove era scritto esattamente così: «Sarete trasferiti altrove, tempo 20 minuti per lasciare la casa: portate da mangiare per otto giorni, una valigia con effetti personali, danari, gioielli, carta d'identità, carta annonaria. Chiudete la porta e portatevi le chiavi. Nessuno può rimanere neppure gli ammalati gravi, perché al campo c'è un'infermeria». Pensai che con quelle chiavi sarebbero tornati per depredare l'appartamento, dovevo scappare e trovare mio padre. Ma come? Forse cercando di calarmi con due lenzuola annodate sulla grande terrazza che si trovava sotto il nostro balcone.

Per prima cosa dovevo vestirmi e sulla sedia dove la sera prima avevo appoggiato i miei indumenti trovai le chiavi di casa, la borsetta con il denaro e i pochi gioielli di famiglia che mia madre aveva portato con sé da Ferrara. Mi vestii in un attimo, nascosi sotto la gonna la borsetta di mamma e corsi alla porta. Dovevo trovare mio padre. Sul medesimo pianerottolo abitavano degli amici dei miei zii che mi fecero entrare in casa loro, mi permisero di telefonare a papà, solo per avvisarlo di uscire subito di casa, temevano che i telefoni fossero controllati. Papà pensò che anche noi avessimo ricevuto una telefonata di avvertimento, uscì ma non mi attese. Lo raggiunsi sotto la casa del suo amico perché quel giorno avrebbe cominciato a lavorare. Nemmeno lì per strada potevo parlare; accondiscese, malgrado l'ora mattutina, a salire dall'amico. Quando fummo soli in ascensore, finalmente la verità venne fuori dalle mie labbra: «Papà siamo soli tu ed io. Hanno portato via tutti!». Mentre parlavo la tragedia che mi aveva colpito si faceva realtà nella mia mente e tutta la forza che mi aveva sostenuto fino al ritrovamento di mio padre mi abbandonò, né ho saputo fare ciò che poi mio padre ha fatto. Dopo aver raccomandato all'ottima signora che mi ospitava di non lasciarmi uscire per nessuna ragione, uscì, fece alcune telefonate di avvertimento ad alcuni conoscenti, poi, con un amico dello zio Mario, riuscì a farsi ricevere da un ministro italiano di cui non ricordo il nome. Per nostra fortuna l'appuntamento gli fu dato per il pomeriggio dopo le ore 16:00. Il ministro sapeva che tanti ebrei erano stati presi ed erano stati portati al Collegio Militare in Via della Lungara, ma si strinse nelle spalle, impotente: non erano più i ministri italiani a governare Roma. Con queste notizie papà rientrò a casa degli amici e mi comunicò la sua decisione di costituirsi per mantenere la famiglia unita. A me sembrò l'unica maniera per riscattarmi dal dolore che provavo. «Vengo anch'io» dissi subito, e sentivo le forze ritornare. L'amico di papà ci fece presente che era impossibile raggiungere il Collegio Militare in mezz'ora; erano le 18:30 e alle 19:00 sarebbe scattato il coprifuoco, nessuno poteva circolare per le strade. Alle 7:00 della mattina dopo, finito il coprifuoco, saremmo potuti uscire e loro non si sarebbero opposti alle nostre decisioni. La delusione che provammo per quella situazione era destinata a trasformarsi mezz'ora dopo in una gioia insperata. In quel momento, comunque, bisognava studiare come nasconderci dato che dopo le 19:00 non potevano esserci ospiti nelle case, altrimenti avremmo dovuto dare le nostre generalità al portiere.

Nella cucina accostarono una scaletta ad una botola che portava in soffitta e, nell'eventualità di una suonata di campanello durante le ore di coprifuoco, avremmo dovuto nasconderci lassù, ritirare la scala e solo a botola chiusa si sarebbe aperta la porta. Pochi minuti dopo le 19:00 il campanello trillò. Ci guardammo in faccia sbigottiti. In silenzio, come convenuto, ci nascondemmo il più in fretta possibile rimanendo poi con l'orecchio sulla fessura della botola, con lo smarrimento e la preoccupazione di aver potuto procurare guai ai nostri ospiti. Sento ancora la voce della signora Di Santolo «Uh! la Piera!». Piera e la mia mamma erano alla porta. Ci ritrovammo stretti, tutti e quattro, in un abbraccio indimenticabile. Non credevamo alla realtà, perché anche loro non potevano immaginare di trovarci lì. Sentivamo di essere protagonisti di un miracolo! Tante volte durante la giornata la signora mi aveva ripetuto che lei era certa che Piera si sarebbe salvata. L'aveva conosciuta il giorno prima, «una ragazza così svelta...» Ma, disperata, le ripetevo che io avevo abbandonato la mia mamma, Piera non lo avrebbe fatto.

Come era avvenuto questo miracolo? Nella sala del Collegio Militare dove avevano raccolto tutti gli ebrei presi, nel primo pomeriggio un portavoce aveva avvertito i presenti che tutti i cattolici che si trovavano in quella stanza dovevano passare nella sala vicina. Zia Alba, sorella della mamma, incitava la mia mamma ad andare con Piera; nessuno le conosceva, solo da tre giorni erano a Roma. Mia madre e mia sorella sembravano convinte, ma una folla si era avvicinata a quella porta (passarono 200 persone), allora la medesima voce avvertì che dall'altra parte avrebbero subito un interrogatorio e per ognuno che avesse detto bugie 10 ebrei sarebbero stati fucilati subito. Mamma fece un passo indietro, poteva essere vittima, ma non avrebbe mai sopportato che qualcuno fosse vittima per colpa sua.

Si accontentò di consegnare ad una signora che si apprestava ad uscire un pezzetto di carta con due righe per me, da consegnare al portiere di Via Flaminia 21. L'ho ricevuto quando mamma era già con me e da allora lo tengo molto caro. C'è scritto «Siamo tranquilli, siilo anche tu e fa ciò che puoi. Ti bacio, ti abbraccio sicura ci rivedremo presto Dio ti benedica». Zia Alba però non le ha dato requie: «Potevi salvare tua figlia e hai perso l'occasione, io non posso salvare mio figlio perché siamo di Roma e tutti ci conoscono, bisogna aver coraggio e rischiare». Dopo un poco la voce avvertì che anche i cattolici di matrimonio misto dovevano passare nell'altra stanza: Zia Alba non parlò, agì. Spinse lei stessa la sorella e la nipote fino ad oltrepassare quella porta, fu lei a salvarle e sia benedetta la sua memoria. All'interrogatorio mia madre disse di essere cattolica, di Bologna, e ricordando che il 25 settembre c'era stato in quella città un forte bombardamento alleato, che la loro casa era stata distrutta con dentro anche i loro documenti (Piera nel frattempo se li era mangiati). Dal bombardamento non aveva più notizie del marito ebreo; la figlia era cattolica dalla nascita. Non sapendo dove andare si era rifugiata a Roma in casa del fratello di suo marito, perciò in una casa ebraica. Diedero un calcio alla loro valigia e le lasciarono uscire. Erano le ore 18:00 del 16 ottobre 1943. Alle 19:00 cominciava il coprifuoco e non sapevano dove dirigersi. Certamente non nella casa degli zii. Piera il giorno prima, accompagnata da papà, era stata dalla signora Di Santolo, una persona molto gentile, certamente per quella notte avrebbe dato loro ospitalità. Per tutti questi eventi, questi casi, il nostro piccolo nucleo familiare si è salvato... Ma gli altri? I miei zii, l'ingegnere Mario Levi di 55 anni, Alba Ravenna in Levi di 52 anni e mio cugino Giorgio di 16 anni non sono più tornati. Solo a guerra finita dal racconto dei pochi tornati e, in seguito, dallo studio degli storici su documenti trovati sia a Roma che ad Auschwitz, abbiamo avuto maggiori notizie sulla immane tragedia, no, meglio dire l'inumana tragedia che ha oscurato il mondo.

Il 16 ottobre 1943, prima deportazione dall'Italia, furono presi a Roma 1.230 ebrei: al Collegio Militare furono liberate 200 persone alla prima chiamata, 7, fra cui mamma e Piera, alla seconda; ne rimasero 1.023 che all'alba del 18 mattina furono caricati sugli ormai famosi vagoni bestiame alla stazione Tiburtina. Il treno con il suo tragico carico parti alle ore 13:00. Il viaggio si concluse ad Auschwitz la sera del 22 ottobre ma solo al mattino del 23 furono fatti scendere gli ebrei da quei carri bestiame maleodoranti e ci fu la prima selezione: 149 uomini e 47 donne furono giudicati abili al lavoro, tutti gli altri, 827 persone – ma sui registri di Auschwitz sono chiamati STÜKEN, che vuol dire PEZZI – 827 di cui 244 erano bambini sotto i 10 anni, passarono prima per le camere a gas e la stessa sera, attraverso le grandi ciminiere dei forni crematori, in fumo salirono al cielo.

Otto giorni prima dormivano nei loro letti.

A guerra finita, di quel gruppo selezionato per lavorare, tornarono 16 uomini e una donna.

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Pagina 21

Cara Alberta,
Grazie.
Grazie per la storia.
Grazie per le lacrime.
Grazie per averci portato la testimonianza di una delle più
    assurde barbarie.
Grazie per la metafora della piramide, grazie per avermi
    fatta sentire un lato equidistante ed identico.
Grazie per la sua grande onestà, grazie per averci parlato
    di nazisti e non di tedeschi.
Grazie per la sua memoria segnata. Ora lo è anche la mia.
Ma soprattutto,
grazie per la sua grandissima voglia di vivere.
Grazie per la sua grandissima voglia di giustizia.
Grazie per la sua immensa voglia di tolleranza.
Grazie per le sue parole di pace, proprio mentre la guerra
    sembra più vicina,
Grazie per avermi insegnato che niente può essere cancellato,
e per avermi ricordato il carico di ricchezza che una vita
    porta con sé.
E grazie immense per avermi ricordato che la vita è meravigliosa.

    Giulia Musella
    Scuola Media Statale Fiorelli III D - Napoli, 2002

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Pagina 77

Io non lo farò
Ho freddo, tanto freddo,
dov'è mia madre? Sono sola!
Quel fumo è nero e sale sempre più in alto.
Cosa c'è oltre quel filo spinato?
Voglio andare via!
Quante gente, quanta morte, ho paura!
Finalmente ho aperto gli occhi, mi ritrovo nel mio letto,
con la mia coperta, che mi avvolge e mi riscalda,
sono con la mia famiglia. Ho solo sognato!
Sì per fortuna era solo un sogno.
Ma c'era una ragazza che soffriva nel sogno,
che non voleva la guerra, non voleva la morte,
l'avevano portata lì perché era ebrea!
Non aveva fatto nulla di male,
voleva vivere la sua vita,
ma della sua vita ora decidevano altri.
Un nodo alla gola mi prende,
per fortuna il mio è stato un sogno,
ma per quella ragazza, il sogno è stato realtà,
quella realtà che mi porta a dire:
non si può dimenticare!
Né oggi, né domani, né mai.
Io non lo farò!

    Vania Previte

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Pagina 111

Domande e Risposte
Era mio destino finire ad Auschwitz,
su quel treno misterioso,
nel regno della paura?

Era mio destino vedere
persone sbigottite,
immerse nell'oscurità dell'indicibile?

Era mio destino sentire
pianti, urla
e i grandi silenzi della morte?

Questo mi chiedo a distanza di anni.

La risposta è a senso unico:
non era destino finire ad Auschwitz,
vedere e sentire...

E allora?

Io voglio vigilare
sulla strada
colorata dell'arcobaleno,
per vivere in felicità.

Voglio vigilare attenta
per tenermi stretti i miei diritti,
per non diventare un foglio bianco
sul quale altri possano scrivere
il mio destino.

    Caterina Contenti - III F

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