Copertina
Autore J.R. Ackerley
Titolo Tutto il bene del mondo
EdizioneVoland, Roma, 2010, Intecci 66 , pag. 179, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,5 cm , Isbn 978-88-6243-049-4
OriginaleWe think the world of you [1960]
CuratoreGiona Tuccini
TraduttoreGiona Tuccini
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa inglese
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Pagina 7

Johnny pianse quando mi portarono da lui. Non glielo avevo mai visto fare prima. Gli sedetti accanto sulla panca di legno e lo presi per mano.

"Mi dispiace tanto, Johnny" dissi.

"Doveva succedere, Frank" replicò. Una risposta tipica e date le circostanze comprensibile, certo; io però non ero nello stato d'animo di accettare – anche volendolo assolvere – quel suo fatalismo disarmante, che era incompatibile con la mia natura risoluta e avrebbe potuto diventare l'epitaffio sulla tomba della nostra amicizia. Non era comunque quello il momento di discutere.

"Cosa è successo?" chiesi. Non avevo capito granché della telefonata sconclusionata fattami da quella meschina di Megan la sera prima. Me lo raccontò.

"Se solo tu fossi venuto da me!" dissi amareggiato.

"Magari l'avessi fatto, Frank. Ti ho deluso, lo so."

"Immagino di averti deluso anch'io. Se ti avessi prestato quel denaro..."

"Sarebbe stato uguale" mi interruppe, buttandosi indietro il ciuffo nero e riccio che gli era caduto sugli occhi. "Non mi sarebbe comunque bastato."

Sì, era un bravo ragazzo e non solo non mi dava alcuna colpa – coi problemi del passato, d'altronde, non c'entravo nulla – ma mi sollevava persino dall'alludervi, da ogni pur minimo dubbio. Improvvisamente, fui travolto dall'enormità della catastrofe.

"Ah, Johnny, perché non hai avuto fiducia in me? Perché mai non ti sei fatto vivo? Ti avrei dato i soldi se avessi saputo quanto ti servivano. Ti avrei dato qualsiasi cosa mi avessi chiesto. Invece mi hai voltato le spalle, mi hai tagliato fuori."

"Lo so, Frank. Sei sempre buono con me. Ma non era giusto chiedertelo, non dopo essermi comportato così male, non potevo chiederti altro. E poi, non mi andava di continuare a prendere i tuoi soldi. So che non ne hai tanti e volevo guadagnarmi la vita."

"Guadagnarti la vita!" era stato sorpreso a svaligiare un appartamento.

"Be'... hai capito, no?" rispose con un sorriso ingenuo. "È un lavoro anche quello!"

"Ed ecco il risultato!"

"Uno stronzo mi ha beccato" disse malinconico. "Stavo quasi per farcela."

"Ah, Johnny, eravamo così felici! Perché hai lasciato perdere tutto? Avrei fatto qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa e tu lo sai."

"È colpa mia. Sono stato un fesso. Posso prendermela solo con me." Non dissi nulla. "E poi anche tutta quella birra..." fece. Lasciai correre. Che senso aveva ormai tornarci sopra? Gli stava bene così. "Quanto pensi mi daranno?" Mormorai qualche parola di conforto sul suo essere incensurato. "Mi faresti un favore adesso, Frank?"

Era troppo. Mi ribellai.

"Johnny, non vorrai mica chiedermi di occuparmi di quella tua moglie orrenda?!"

"Non starti a preoccupare di lei" disse pacatamente.

"Appunto" ribattei.

"Non conta niente."

"Per me conta eccome, mi ha sempre creato tantissimi problemi. Se non ti avesse impedito di vedermi, tutto questo non sarebbe successo.

"È gelosa, questo è il punto" disse Johnny soffiandosi il naso. "È più forte di lei."

"Johnny" gridai ancora esasperato. "L'ultima volta che ti ho visto, l'hai chiamata 'brutta troia'!"

"Le donne!" esclamò con un barlume della sua antica vivacità. "Sono tutte uguali!" Poi aggiunse: "Ma si è pentita, e si vede. Si comporta bene con me dopo quello che è successo. E dài, fa pena a tutti."

"A me no! Ma c'entra anche lei?"

"No che non c'entra!" esclamò con improvvisa veemenza. "Non ne sapeva niente, capito? Attento a come parli!"

"Comunque, non ho intenzione di muovere un dito per aiutarla, quindi non me lo chiedere."

"Non volevo chiederti quello, Frank," disse Johnny con il suo modo di fare calmo "ti volevo chiedere se puoi tenermi Evie finché non esco di qui."

"Evie?" domandai sorpreso. "E chi diavolo è?"

"Ma dài, lo sai" rispose quasi con un tono di rimprovero. "È il mio cane. Non ti ricordi? Te l'ho fatta vedere quando sei venuto da me l'ultima volta."

Mi tornò in mente in modo vago quando un mese prima, riluttante ad aiutarlo, incapace di abbandonarlo, gli avevo fatto una di quelle mie visite fin troppo assidue per capire cosa gli fosse successo, cosa mi fosse successo, e nel buio del corridoio avevo calpestato senza volere qualcosa che aveva emesso un guaito ed era andato a rintanarsi da un'altra parte. Ma proprio non riuscivo a ricordare se mi avesse o no mostrato il cane. Non ero dell'umore per badare a simili sciocchezze.

"Johnny caro" dissi sorridendo "come faccio a tenere un cane?"

"Non ti darà problemi."

"Ma tu sai come vivo. Chi le starà dietro?"

"Non c'è bisogno di starci dietro. Non può restare da te e basta?"

"E chi le darebbe da mangiare, chi la porterebbe fuori? E poi io non so niente di cani e nemmeno voglio saperne."

"Non potresti darle da mangiare la sera quando torni?"

"Ma la sera non torno sempre a casa."

"Starà bene lo stesso" disse Johnny ostinato.

"Mi dispiace, davvero." Provai a concentrarmi. "Non la può tenere Megan?"

"Come fa? Deve già occuparsi delle gemelle e di Dickie. E ora dovrà anche trovarsi un lavoro."

Prima era stata sua moglie a escludermi, ora mi facevo abbandonare da lui. Era il colmo.

"Anch'io lavoro!" dissi bruscamente.

'Te voglio tutto il bene del mondo" mormorò Johnny.

"Lo so" replicai acido. "Mi ero accorto che avevi cambiato idea."

"Parlo di Evie" disse lui.

"Comunque Megan non ne vuole sapere."

"Neanch'io, Johnny."

Si rosicchiò le unghie.

"Non so qual è la cosa migliore da fare." Dopo un po' aggiunse: "È incinta."

"Ma non è ancora un cucciolo?"

"Non lei, Megan."

Mi diedi una manata sulla fronte.

"Cosa? Ancora!" Questo era il quarto. "Pensavo non ne avreste fatti più."

"Infatti. Ma sai com'è, succede."

Poi scoppiò in lacrime. ` "Johnny... Johnny..." dissi.

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Pagina 45

Sono le orecchie, pensai. Quelle lunghe antenne, rivolte di continuo verso di me richiedevano pari attenzione. Ma era dovuta soltanto a questo la sensazione di non essere solo guardato, ma anche interpellato?"

La nostra passeggiata fu molto simile alla precedente, ma Evie, cresciuta e più frenetica ed eccitata che mai, come aveva detto Millie, tirava di più sul mio braccio. Lungo il vialetto, non appena la slegai, si liberò di un'orripilante mistura grigia di escrementi. Poi, nei nostri vagabondaggi, ci ritrovammo in una zona un tempo occupata da case popolari crollate sotto i bombardamenti così da lasciare uno spazio aperto, l'unico del quartiere a parte i giardini pubblici. Lì, fra le macerie e la spazzatura, era cresciuto un prato striminzito e facendomi strada tra i detriti verso il centro dello spiazzo dove il terreno era più sgombro, mi sedetti su un mucchio di sassi e fumai una sigaretta per calmare il mio nervosismo. Nell'accendere il fiammifero, notai che accarezzando il cane mi ero sporcato le mani.

Evie ora mi stava davanti nella luce soffusa di quella sera di inizio marzo e mi fissava intensamente. Com'era bella! Com'era elegante quel mantello lucido bicolore, nero e grigio sabbia! Il suo muso affilato e vigile era incorniciato da una delicata gorgiera elisabettiana che si incapricciava da sotto le orecchie e le copriva gola e petto con il candore di una pettorina. Stava ritta come una statua. No, era troppo aggraziata per sembrarlo; somigliava piuttosto a una ballerina oppure... cosa mi ricordava, presentandosi lì davanti a me col suo abito leggiadro, domandando la mia attenzione con lo sguardo fermo e pacato; un cartellone pubblicitario, forse? E chissà perché, assurda associazione di idee, mi ritornò in mente il manifesto di una seducente ragazza in uniforme con una confezione di Sanitas in mano, che proponeva ai passanti la disinfezione a domicilio dei loro telefoni. Sorrisi a Evie. Cosa voleva? Cosa cercava di dirmi?

"Che c'è, bella?" le chiesi, tendendo la mano.

Le lunghe orecchie si abbassarono all'improvviso, lo sguardo si fece dolce e gentile, avanzò di un passo o due toccandomi la mano con la punta del naso; poi indietreggiò di nuovo e con le orecchie dritte e la coda un po' scodinzolante, mi guardò fisso. Ma certo, voleva giocare. Trovai un pezzo di legno e lo lanciai; lo rincorse come una freccia e lo riportò indietro. Ma con incantevole civetteria si rifiutò di restituirmelo; me lo offriva e poi si ritraeva, guardandomi maliziosa. Voleva essere inseguita; la inseguii, le afferrai agilmente il bastone dalla bocca e lo gettai di nuovo. Come le piaceva correre, usare i suoi muscoli, le sue zampe giovani e robuste. Anche se Tom o il ragazzo respinto da Millie l'avessero portata fuori tutti i giorni in giro per quelle strade desolate, le sarebbe bastato? Aveva bisogno di correre sull'erba ogni giorno per miglia. Avrebbe dovuto vivere in campagna.

Giocavo con lei distrattamente, mentre pensavo alla sua vita. Millie e Tom lavoravano tutto il giorno e Evie restava completamente sola dalle otto di mattina fino alle sei di sera, salvo quando Millie faceva un salto a casa durante la pausa pranzo, per fare un po' di spesa. Cosa combinava tutto quel tempo da sola? Senza dubbio si rotolava nella polvere del carbone, a giudicare dallo stato del suo pelo, scalciava in aria con le zampe, non potendo usarle altrimenti. E alla fine il suo grande momento sarebbe arrivato al ritorno di Millie e Tom, che se non altro erano un po' di compagnia. Chissà con quanto affetto li accoglieva! Le permettevano di entrare in cucina mentre prendevano il tè, così li avrebbe fatti divertire formando un bel quadretto con il bambino sul tappeto. Purché stesse buona! Inorridii al pensiero di quell'essere inutile che prendeva a cinghiate un animale così burlone e affettuoso. Le sue speranze sempre rinnovate e subito troncate... La vedevo fissare ansiosa il guinzaglio, smuoverlo con il muso nero, usare ogni blandizia per attirare l'attenzione sui suoi bisogni e invece niente, mai niente, sentirsi dire di aspettare, di "star giù", come se non lo facesse già sempre... Giorno dopo giorno, sempre e ancora, niente di niente. Dare senza mai ricevere; sperare, attendere qualcosa che non arriva mai; solitudine e frustrazione... Masticai queste parole odiose, mentre lanciavo il bastone per l'ultima volta.

Tornai a passi pesanti verso il mio sedile di cemento, ma Evie non voleva mi sedessi, prima mi rubò i guanti da una delle tasche e poi, quando glieli ripresi stando al gioco, mi fregò il berretto dall'altra tasca. Saltellò via tenendolo in bocca, guardandomi con la coda dell'occhio per farsi rincorrere ancora; ma venni sopraffatto da un tale senso di malinconia e disperazione che non riuscii ad alzarmi. Vedendo la mia riluttanza fece cadere il berretto e tornando dove aveva lasciato il bastone tutt'a un tratto cominciò a giocarci da sola. Piombandogli sopra con straordinaria ferocia, lo gettò in aria e quando ricadde a terra fuggì via con le orecchie basse e la coda tra le gambe, come se ci si fosse ferita. Mantenendosi a una certa distanza, gli girò intorno e si accucciò fissandolo intenta. La concentrazione ipnotica del suo sguardo, la sua tensione mentre si acquattava come una bestia selvatica con la testa a un palmo dal suolo erano così drammatiche che anch'io presi a fissare il bastone, aspettandomi di vederlo muovere. Ora, più furtiva che mai, gli dava la caccia. Mantenendosi accovacciata avanzava lentamente, inesorabile, puntando il lungo muso affilato verso la vittima finché con un balzo fulmineo gli fu addosso, lo afferrò, lo gettò in aria e indietreggiò impaurita per ricominciare tutto daccapo. Guardavo incantato questa creatura quasi felina divertirsi nella luce del tramonto con il suo gioco immaginario. Di sicuro lo aveva inventato per ingannare il tempo durante le ore di solitudine nel cortile dei Winder.

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Pagina 77

Finite queste cose mi sentii la mente e il cuore più leggeri. Non avevo risolto niente ma la tensione era diminuita e in questo stato di gaiezza uscii alla conquista di Londra con Evie, come il povero Dick Whittington con il suo gatto. In cartella avevo messo qualche biscotto da allungarle mentre lavoravo e una ciotola per l'acqua. Ma dopo solo qualche passo mi accorsi con preoccupazione e fastidio di quanto mi facessero male le gambe. In fin dei conti avevo camminato più in quel fine settimana che in tutti i mesi precedenti. Quando arrivammo a Hammersmith Bridge mi guardai intorno nella speranza di trovare un taxi per farci portare almeno fino a Palace Gate; ma ero uscito per camminare e adesso mi toccava farlo. La meta era Gladstone House, un grande palazzo tutto uffici nelle vicinanze di Regent's Park; il mio ufficio era all'ultimo piano, il sesto. Due ore e mezza dopo entrai zoppicando nell'atrio e guardai l'ascensore bramoso ma anche un po' titubante... Davvero Evie, che l'aveva preso a casa mia, ci si era già abituata? Ahimè, come temevo, per lei c'era una differenza abissale tra un ascensore automatico tutto per noi e lanciato dritto a destinazione e uno sul quale non solo viaggiava un individuo sospetto vestito da manovratore, ma che per di più si fermava a ogni piano per far salire altri individui estranei e sospetti. Quando arrivammo al terzo, con circa sei persone nervose a bordo e altrettante in attesa di entrare, capii che era tempo di scendere, nessuno ci avrebbe trattenuto e all'addetto non sarebbe dispiaciuto affatto se Evie non ci avesse rimesso più piede.

La giornata di lavoro, iniziata faticosamente, non continuò meglio. Speravo che tutti quei chilometri percorsi e quasi mortali per me, avessero stancato almeno un po' anche Evie, cosicché si sarebbe riposata mentre io leggevo la corrispondenza. Pia illusione. Si aggirava per la stanza mugolando e lamentandosi senza tregua, oppure si fermava e mi fissava incredula; sospirava forte o sbadigliava rumorosamente, buttandosi a tratti a peso morto sul pavimento con un tonfo impressionante, come per dire "All'inferno!", salvo poi rialzarsi subito; provò tutte le sue abituali astuzie, mi rubò i guanti e fece finta di disttuggerli per attirare la mia attenzione; non riuscendoci, inventò una rumorosa "caccia al topo" con i biscotti, senza mangiarli veramente, sbriciolandoli piuttosto su tutta la moquette; come se non bastasse, abbaiava in modo atroce a chiunque entrasse e a ogni passo proveniente dal corridoio affollato. Quando le diedi delle botte disperato, mise le zampe anteriori sul tavolo, rovesciando l'inchiostro sulle mie carte, nel tentativo di leccarmi per farsi perdonare. Malgrado tutto, piaceva molto ai miei colleghi. La notizia si sparse persino negli altri reparti e una folla di curiosi venne a trovarci per vederla. Ma Evie riservò a tutti un'accoglienza incivile e nessuno tornò a farci visita.

Avevo pensato al suo pasto (inutilmente come ho detto prima), ma non al mio; e quando venne il momento, l'idea di dover andare a mensa non mi piacque affatto. Non potevo portarla con me e nemmeno lasciarla chiusa dentro l'ufficio per mezz'ora. A parte i nostri rispettivi stati d'animo, la stanza non aveva la chiave e chiunque avrebbe potuto entrare in mia assenza... La sola possibilità, benché implicasse un ulteriore dispendio di energie, mi sembrò di trovare un piccolo pub poco frequentato dove mangiare un panino e bere un boccale di birra. L'ansia profonda e attonita di Evie quando mi vide prepararmi per uscire, lo sguardo mezzo folle dei suoi occhi spasmodici e indagatori che cercavano nei miei una risposta alla domanda più importante del mondo – "E io?" – mi commossero come sempre, per quanto importuni. Mi davano anche una specie di isteria forse simile alla sua, per cui se non mi fossi controllato mi sarei messo a ridere, a piangere e persino ad abbaiare, senza poter smettere; appena le avessi allacciato il guinzaglio, lo sapevo bene, mi avrebbe travolto e risucchiato giù per le scale come una foglia nel vortice. Era tutto così poco allettante per la stanchezza in cui mi trovavo che presi in considerazione anche l'idea di lasciarla scendere slegata, ma ebbi paura di vederla precipitarsi nel traffico e rischiare di farsi ammazzare. Un gruppo di funzionari intenti a salire le scale tutti composti si appiattì contro il muro non appena gli volammo accanto.

La spedizione risultò più soddisfacente di quanto osassi sperare. In un pub quasi deserto sul lato più lontano di Regent's Park trovai tutto ciò di cui avevo bisogno: due boccali di birra fresca e un bel salsiccione con due cosette intorno da spartire con Evie. Al ritorno decisi di farle salire le scale da sola: non poteva scaraventarsi giù dal tetto; l'esperimento fu interessante perché salire le rampe a spirale, di corsa e senza guinzaglio, le diede la stessa vertigine da me provata nello scenderle tirato dal guinzaglio. Scattò via a una tale velocità che temei di vederla rimanere con la spina dorsale curva; invece le curve le vennero in testa, a ogni pianerottolo perdeva il senso dell'orientamento e continuava a girare in tondo per poi riscendere a precipizio, cosicché la incontravo e la perdevo di continuo, ritrovandola e riperdendola in un gioco senza fine.

E lì finì il divertimento e l'intervallo. Il pomeriggio trascorse più o meno come la mattina, ma ricevemmo meno visite. Le lettere da spedire, per quante ne riuscissi a scrivere, venivano ritirate dalle segretarie impaurite solo se le depositavo sullo zerbino fuori della porta, dove mi lasciavano anche quelle in arrivo. Ma Evie sentiva i loro passi timidi e non rinunciava a mandare il suo segnale di avvertimento. Uscii presto e dopo avere affrontato ancora una volta Baker Street, Hyde Park e Kensington Gardens ebbi la fortuna di trovare un taxi a Palace Gate con cui andammo fino a Hammersmith Bridge. Quando arrivammo a casa, Evie era fresca come una rosa; io no, ma per quanto estenuante fosse stata la giornata, ripensandoci mi ritenni soddisfatto: aveva trascorso tutto il giorno con me ed era stata introdotta alla mia vita lavorativa. Mentre si sdraiava sul letto incontrai il suo sguardo strano e le dissi che speravo avesse imparato qualcosa, sicuramente l'indomani sarebbe andata meglio.

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