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| << | < | > | >> |Pagina 13Trascinato, certo, ma ignaro di se stesso, l'individuo è consegnato al suo destino che appare ora una miseria, ora una felicità e chissà cos'altro; ma alla fine tutto viene inghiottito in un mare sconfinato che non tollera definizioni e di fronte al quale, come hanno già detto in tanti, ogni affermazione è una solitudine, un'isola. Per questo motivo il lutto non è necessario. È anche bene non correre dietro a tante opinioni perché, in balia di visioni e paure, e in più sempre alla ricerca di quello che non è, e se anche fosse verrebbe negato, si propende a questo o a quel dubbio, fumisterie di una saggezza fondata sulla ragione o su una fiducia cieca, per poi accorgersi una volta per tutte che ogni idea è confusa e si fa bene, senza rinunciare esplicitamente, a partecipare alle battaglie intraprese per salvarsi dal rifiuto con un impegno non maggiore di quello già richiesto dal normale corso dell'esistenza. Si riesce, così, a trovare un certo riposo. Un riposo in una fuga senza fine e, comunque sia, un riposo vero. Di sicuro non una fuga da se stessi, per quanto, a volte, verrebbe da pensare anche questo; piuttosto un indefinito progredire nei meandri di un'unica sfera circoscritta; è perché si resta fermi in una sfera circoscritta che possiamo definirlo riposo, dato che sul palcoscenico dei tempi tutto diventa presente. E tu ne sei partecipe. Sono molte le strade che percorri, e in molte città compari insieme a parenti e amici, stai fermo, cammini, vai a fondo e muori. Credi di non essere più sul palcoscenico, pur sapendo di esserci stato in un primo tempo. Invece ti sbagli, perché è lì che ti hanno ricondotto dopo averti strappato al tuo viaggio fugace. Che tu sia sprofondato o no, in senso letterale e figurato, non sei sfuggito. E cosa accade su quel palcoscenico? Si è tentato di dirlo con molte allegorie che spesso hanno anche colto nel segno, ma nessuna ci corrisponde meglio dell'immagine del viaggio inteso come fuga. E chi è l'essere che per tutti i viaggi ricorda soltanto sé? È il ricordo stesso a mettersi in viaggio e ad andarsene senza sosta in giro per il mondo. Quest'essere, però, non può abbandonare il suo posto presente, perciò è nel presente che interpreta la sua parte, trovando sufficiente spazio per esprimersi su un unico palcoscenico che non necessita di altri preparativi se non, per l'appunto, dell'entrata in scena di quell'essere che ricorda e dunque, accanto all'immagine del viaggio o della fuga che dir si voglia, si è trovata quella del riposo che si genera nel ricordo. Spesso ci è stata rimproverata l'oziosità della nostra impresa perché avremmo dovuto mostrarci riluttanti a comparire in pubblico. Ma condannare questi nostri tentativi non ci è possibile, vorrebbe dire arrendersi. E ogni volta li riprendiamo da capo, forse pungolati da un'insaziabilità che noi stessi incarniamo; noi siamo i messaggeri della vita. L'allegoria del viaggio e del riposo, trovata poc'anzi, diventa semplicemente un'allegoria di se stessa non appena ci mettiamo all'opera, ma diventa nulla di fronte al mondo perché adesso ogni cosa appare in movimento e, di fatto, si trasforma in movimento. A buon diritto si potrebbe parlare niente meno che di passione, di un'ossessione capace di trascinare gli altri solo perché nel nostro movimento si è riusciti a catturare il respiro vivo della nostra esperienza. Allora sì che siamo opera di noi stessi; in fin dei conti, dall'essere accettati o rifiutati dipende più di quanto vogliamo ammettere, e cioè il prosperare di un mondo che, dagli abissi della disperazione o dalle vette dell'entusiasmo, è chiamato a modellarsi un volto, in qualche modo eterno, ricavando il massimo dal nostro operato, importante, sì, ma che non può realizzarsi da solo, senza la partecipazione e il contributo del mondo. Addio riposo, allora, ma non del tutto; il suo riverbero è e continua a essere percepito da noi come da chiunque altro che, nell'angoscia e nel terrore di ogni singolo istante, quando la dignità e l'intimità minacciano di sgretolarsi, sa scoprire nel brivido che si prova davanti a uno spettacolo dell'orrore un nucleo indistruttibile, un centro che non vogliamo definire ideale perché la sua realtà si manifesta a ogni cuore che indaga. Rimanere ostinatamente fermi in questo centro, punto di partenza del viaggio, è insieme il suo primo e più profondo ricordo, ma è anche l'unico che ci rimane; il centro stesso è così ampio che non possiamo definirlo lontano né vicino. Proprio questo ci fa capire che quel ricordo, come tutti i ricordi, rimane fermo nel nostro mutare, mentre noi – e con noi il mondo intero – siamo privi di uno spazio immutabile. Siamo fuggiaschi, certo, e unica sosta per noi è quell'interiorità che ricordiamo, siamo viaggiatori in un viaggio che nessuno di noi ha scelto o deciso. Questo, noi non possiamo cambiarlo, ormai il viaggio è iniziato e adesso segue il suo itinerario; dal momento che prende avvio non si preoccupa del nostro plauso, a lui non importa se lo amiamo o lo detestiamo, ma ogni volta che opponiamo resistenza, lui ci oppone la sua. Qualcuno si aspetterà forse che si dica qualcosa anche sulla meta, o quanto meno sul senso. Abbiate pazienza! – perché questo tentativo non serve a dire esplicitamente, ma a rappresentare. Chi dubita stia pur certo che la meta non è stata dimenticata, perché noi tutti siamo spinti dalla necessità di intravederne una; per questo abbiamo sempre bisogno di richiamarla alla mente, anche se i resoconti del rifiuto spesso sembrano smentirci. Un po' si spiega se aggiungiamo che siamo coinvolti, molto coinvolti; con questo non possiamo né vogliamo distinguerci dal mondo che nel coinvolgimento trova la sua unica fonte di sofferenza; ma a parte l'irrefrenabile propensione ad abbracciare quella sofferenza, noi non ci siamo permessi di sprofondare nell'orrore che abbiamo ragione di attraversare. No, noi non siamo perduti, pur riconoscendo la perdita, o meglio le tante perdite che non possiamo risarcire – per lo meno non con le nostre sole, esigue forze. Sul palcoscenico, però, siamo saliti. E se sembriamo soli, lì come in qualsiasi altro posto, non significa che siamo abbandonati. In nessun posto siamo abbandonati. Possiamo andare avanti, certo, o non andare affatto – non spetta a noi e forse a nessun altro giudicare i nostri passi o avanzamenti –; lasciateci stare dove siamo, non importa se nel movimento che si sovrappone al riposo, nel ricordo che con coraggio gli va incontro, tornando indietro e andando avanti, o nella fuga, e visto che si parla anche di natura fugace dell'apparenza, lasciateci stare lì, nell'apparenza, ed ecco il movimento. Poiché teniamo gli occhi aperti e non solo soffriamo, ma siamo anche partecipi, lasciateci dare a questo mutare gravido di ricordi l'unico nome che gli spetta – il viaggio. | << | < | > | >> |Pagina 17Nessuno ve l'ha chiesto, è stato deciso. Vi hanno radunato e non hanno usato parole gentili. Molti di voi hanno tentato di trovare un senso, per questo eravate voi a voler chiedere. Solo che non c'era nessuno a rispondere. «È proprio necessario? Un attimo solo... un giorno... qualche anno... noi siamo attaccati alla vita». C'era silenzio, invece, a parlare era solo la paura, e quella non aveva suono. I vecchi non riuscivano a rassegnarsi. I loro lamenti erano disgustosi, così che davanti al dispiacere di chi non era coinvolto si è eretta un'orrenda parete raggelante, il muro della crudeltà. Il ghigno si è impresso per sempre nella mente, è sopravvissuto alla stanchezza ed era già cominciato nelle abitazioni distrutte. In realtà, le abitazioni non erano state affatto distrutte, erano ancora disposte in costruzioni ordinate, con i tetti integri. Le scale erano impregnate dell'odore che dà un carattere indelebile a ogni casa, finché sta in piedi. L'esistenza dell'inanimato può essere molto allettante, ma segue leggi che hanno poco in comune con il nostro viaggio finché non prendiamo possesso degli oggetti e non ci riconosciamo in essi. Si parlerà di un muro famigerato, ma anche questa è solo un'allegoria per indicare un evento misterioso rispetto al quale tutto ciò che è visibile, tutto ciò che è percettibile mostra di avere molto più carattere. Qualsiasi cosa può essere abbandonata, solo dalla vita non ci si separa, per lo meno finché sa di se stessa. Perciò le case restano indifferenti quando voltiamo loro le spalle. A un certo punto qualcuno ha esclamato a voce alta: «Voltate le spalle!». Non sono queste le parole che sono state esclamate, o meglio, nessuno ha esclamato niente, è stato piuttosto un annuncio, anche se non avrebbe dovuto sentirlo nessuno. Non doveva passarsela bene lui, quello che non lo sentì perché se ne stava rintanato in casa come se fosse la sua vera e unica proprietà a non volersi separare da lui. C'era una stanza, e poi altre stanze ancora. La solitudine aveva ferite perché le porte erano aperte, ma le finestre erano state delicatamente chiuse e interamente tappezzate di stoffa nera. Lo chiamavano oscuramento. L'oscuramento era dappertutto, le strade notturne di Stupart erano avvolte in una tenebra dura. Eppure in casa le luci erano accese. Non per le scale esterne, quelle no, erano buie anche loro. Le lampadine, colorate di un azzurro orribile e schermate con la carta nera che non lasciava filtrare nemmeno un raggio, gettavano solo un cono rotondo di luce fioca. In quel buio, era difficile che per le scale arrancassero dei passi, ma gli infaticabili messi non demordevano, perché la loro fretta seminava un terrore di fronte al quale la luce indietreggiava. Per lo più arrivavano la sera tardi se non di notte, portando il loro messaggio cui non si negava una luce inorridita. «Tu non puoi abitare!». Era questa la comunicazione stampata sul foglio che consegnavano. La gente ormai si aspettava la sciagura che sapeva, e per questo le abitazioni erano state distrutte già prima che la bomba lanciata da un aereo avesse pietà di loro. È stato molto tempo dopo che gli aerei sono venuti a mietere schiacciando le macerie sventrate, ma non per vendicare il sequestro di coloro che erano stati esiliati dalle case, di cui avevano solo una vaga idea e verso i quali erano indifferenti quando sulle mappe definivano il settore della città che intendevano radere al suolo. Con un tuono duro gli apparecchi squarciavano il cielo notturno, venendo giù furiosi e scagliando il loro carico mortale sulla caducità che si accorgeva di sé solo quando, all'improvviso, andava in pezzi. Non erano più abitazioni quelle raggiunte dalla rovina, erano nidi abbandonati, antri saccheggiati o proprietà illegittime che in mano ai predoni non prosperarono. Eppure tutto questo avvenne molto tempo dopo e non raggiunse più coloro che per primi erano coinvolti, quelli cui da tempo era stato annunciato: «Tu non puoi abitare!». Pensa attentamente, che diritto hai tu di goderti un soggiorno nel posto dove ti sarebbe consentito essere per il semplice motivo che ti è consentito essere? Chieditelo, quando sei in fuga e privato di ogni avere, un individuo solo fra involucri divenuti inquietanti. Un giorno si sono avvicinati a te, erano i tuoi nemici, i tuoi amici, questo non puoi distinguerlo, e ti hanno preso tutto. Se si mostrarono clementi, fu per dirti di raccogliere un po' di quanto rimaneva, perché di certe cose avresti potuto aver bisogno e avresti finito per reclamare beni di ogni genere. Qualsiasi proprietà è diventata ridicola, ma nonostante questo sembra essere ancora assolutamente indispensabile. Là ci sono le borse pronte, messe in ordine e preparate con cura. Lasciar perdere non ti riesce e adesso sai che ti senti strano. Con il cappotto addosso ti alzi dalla poltrona e di nuovo ti lasci cadere seduto. Con quello che è tuo ci devi provare. Ma è permesso? «Ci ha già pensato, cara la mia signora Lustig? Domani tocca a lei. Gita di piacere. Ne ho sentito parlare. Lo so per certo». Felice chi non crede, chi occulta l'infelicità del futuro nel manto protettivo dell'istante, perché adesso tutto è velato di buio. Non si cerca protezione, quando solo la speranza e il tacere tradiscono l'avanzare del tempo e lo rendono credibile. Mentre è incredibile, in realtà, tutto quello che interrompe l'orrore. Infelice chi crede! Incredibile è avere coraggio, improbabile credere e nutrire aspettative, ma in casa le suppellettili sono state raccolte. C'è anche la medaglia al valore del vecchio dottor Lustig e la lettera del comandante di reggimento. È incredibile, ma solo quello che è incredibile protegge. «Non sarà così grave... Si dovrebbe... Si potrebbe... Ha fatto del bene a tanta gente! Riconoscimento... Merito...». Le parole si mescolano nell'orrore, sono conoscenti, ormai, perché la lingua non ci appartiene più; estranea si divincola da chi fa cenno di parlare. Ma poi le parole scorrono via, sembrano ancora familiari. Parole care, parole che si sono abbandonate alla corrente, parole mie, parole tue, che abbattono pareti e le erigono, si addossano l'una all'altra impenetrabili e sicure. Sì, le pareti ci sono, sono note anche loro, tutto è noto, tanto che potrebbe quasi risvegliarsi un piacere per estinguere ogni cosa che sembrava una minaccia. L'oscuramento non sarebbe più da temere. «Se si occupasse di cose serie, se...». È questo che si continua a sentire. Ma i rifiuti bisogna toglierli di mezzo perché troppo facilmente diventano un ostacolo. La pattumiera di casa è troppo piccola; è facile che straripi. Nel cortile i bidoni sostano in una pace assoluta, anche la barra per stendere i tappeti è ancora lì, gli anelli del filo per i panni resistono nella malta. «L'hanno vietato!». «Hanno vietato cosa? Niente, è una chiacchiera assurda che mette a ferro e fuoco la pace silenziosa dei rifiuti. Ma tutte le chiacchiere sono assurde e vengono sempre superate dalla verità. Hanno chiesto la verità già tante volte, a farlo sono stati i troppo seri, ma voleva saperla anche chi un poco ride. Perfino quelli che si vantano della loro ignoranza non saranno esentati per sempre da questa domanda, perché li si tiene occupati. Gli estranei sono entrati in casa, tronfi e insolenti, e con aria noncurante e indaffarata si deliziano alla vista di qualcosa che però non sembrano capire. Il latte è stato mescolato al succo di lampone, una miscela da cui si ricava una bevanda speciale. È stato fatto molto ma non è successo niente, non si nota niente neanche adesso. Inutile pensare al sonno. Preparare i letti non ha senso, ma il gesto nasce da un saggio proposito visto che l'ora è tarda, per convincersene basta dare un'occhiata alle lancette imbarazzate dell'orologio. È stato caricato di buon'ora, così possiamo farci affidamento fino al mattino dopo. Poi bisogna caricarlo di nuovo. «Dica, non si può fare proprio niente? Domani avrei ancora qualcosa da sbrigare. E poi sono fermamente convinto che alla base vi sia un errore». Che vi sia un errore è fuor di dubbio, solo che è altrove, non in noi, né in quelli venuti da noi. Non è nemmeno in casa o per la strada. Probabilmente è nascosto in una lontananza immemore, nel grido di dolore che si è levato per quelle creature. No, non è da nessuna parte. Non ci si deve sedere sul divano perché l'imbottitura si potrebbe schiacciare. Proprio oggi tutto è stato messo a posto con cura! Con una spazzola morbida per non sciupare la stoffa delicata, Ida e Karoline hanno pulito e lucidato ogni cosa. Si sono umilmente chinate perché tutto doveva essere in ordine, anche se di sicuro non ci sarebbero state visite. Fra pochi giorni Leopold festeggerà il suo settantacinquesimo compleanno. Zerline ha procurato qualche sigaro al padre barattandolo con denaro e buone parole. Qualche amico e parente verrà, certo, ancora non sono andati via tutti. Suoneranno piano e per due ore si riuniranno in questa stanza. Si prepareranno dolci, dolci e caffè con latte e tantissimo zucchero, come piace a Leopold che nella tazza ne rovescia cucchiaiate. I preparativi sono a buon punto, c'è anche un uovo per il dolce. Karoline ce l'ha messa tutta per averlo, una donna cocciuta. Destino imprevisto? È fuori questione, tanto è solo inganno. L'ignoto non accade. Bisogna attenersi alle disposizioni. Leopold rispetta le leggi come nient'altro al mondo. Contro le ingiustizie bisogna fare ricorso. Anche se non si raggiungono, gli scopi vanno perseguiti con tenacia. «Prego, non faccia complimenti, signora Lustig! Anche se sta lasciando la casa, il che io non posso evitarglielo, ancora non è detto che debba veramente partire. Molti ci sono andati e poi non sono partiti. Sono stati sostituiti. Una volta lì, la questione potrà essere chiarita».
Ecco cosa si sente dire. Ai sensi la prontezza non manca, loro sono all'erta
e afferrano. Niente è incomprensibile perché le autorità hanno predisposto tutto
così bene che non sorgeranno difficoltà. Chi sfoglia quei lunghi
elenchi, trova tutte le direttive. Devi solo deciderti e sei libero, basta
obbedire volontariamente alla costrizione. La
provvidenza è diventata un libro scritto dagli uomini.
Quelli hanno gli stessi bisogni che abbiamo io e te, le stesse preoccupazioni
che abbiamo noi. E hanno anche delle
preoccupazioni in più perché non si accontentano della
loro parte, così i loro superiori hanno pronta la scusa o, a
seconda dei casi, la spiegazione per parlare di soprusi non
appena cancellano uno di noi.
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