Copertina
Autore Theodor W. Adorno
Titolo Contro l'antisemitismo
Edizionemanifestolibri, Roma, 2007 [1994], Incisioni , pag. 96, cop.fle., dim. 14,5x21x0,7 cm , Isbn 978-88-7285-503-4
OriginaleSchriften zum Antisemitismus
EdizioneSuhrkamp, Frankfurt am Main, 1994
CuratoreStefano Petrucciani
PrefazioneStefano Petrucciani
TraduttoreFranco Filice
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe politica , storia contemporanea , paesi: Germania , shoah
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Indice

Prefazione                                       7
di Stefano Petrucciani

Che cosa significa elaborazione del passato     21

Per combattere l'antisemitismo oggi             37

Antisemitismo e propaganda fascista             59

La teoria freudiana e la struttura
    della propaganda fascista                   71



 

 

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Pagina 21

CHE COSA SIGNIFICA
ELABORAZIONE DEL PASSATO
1959



La questione «Che cosa significa elaborazione del passato» deve essere chiarita. Essa si fonda su un'espressione divenuta, negli ultimi anni, un modo di dire che non può non insospettire. Secondo questo uso linguistico, elaborazione del passato non significa elaborare seriamente le vicende storiche rimuovendone, mediante una coscienza critica, il tabù che le ha segnate. Si vuole, invece, chiudere definitivamente col passato cancellandone possibilmente la stessa memoria. La disponibilità a dimenticare e perdonare tutto, che dovrebbe essere fatta propria da coloro che hanno subìto i crimini, viene proposta dai sostenitori di coloro che li commisero. Una volta, in occasione di un dibattito scientifico, ebbi a scrivere: in casa del boia non si parli della ghigliottina; il rancore sarebbe inevitabile. Ma il fatto che la tendenza al rifiuto, solo fino a un certo punto inconscio, della colpa, si intrecci così paradossalmente con l'idea di elaborazione del passato, offre spunti sufficienti a riflessioni che fanno riferimento a una realtà che si fa fatica a chiamare per nome, dato l'orrore che, ancora oggi, suscita.

Ci si vuole liberare dal passato: a ragione, poiché è assolutamente impossibile vivere alla sua ombra, e perché il terrore non avrebbe mai fine se ci si volesse rivalere delle colpe e violenze subìte con nuove colpe e nuove violenze; a torto, perché il passato a cui ci si vorrebbe sottrarre è ancora vivamente presente. Il nazionalsocialismo sopravvive, e fino ad oggi non sappiamo se solo come fantasma di un orrore che si ostina a non morire della sua propria morte, o se sia, invece, la morte dello stesso nazionalsocialismo a non essere ancora sopraggiunta: se la disponibilità all'indicibile continui ad allignare negli uomini come nelle circostanze che li attanagliano.

Non vorrei affrontare la questione relativa alle organizzazioni neonaziste. Considero il perdurare del nazionalsocialismo nella democrazia potenzialmente più pericoloso del perdurare di tendenze fasciste contro la democrazia. Le infiltrazioni sono un dato di fatto; ambigui individui riescono a celebrare il loro «come back» in posizioni di potere in quanto favoriti dalle circostanze.

È incontestabile il fatto che, in Germania, il passato non sia stato ancora superato non solo nella cerchia dei cosiddetti incorreggibili. Si continua a rimandare al cosiddetto complesso di colpa, spesso associandolo all'idea secondo cui questo sarebbe stato in effetti creato dalla costruzione di una colpa collettiva tedesca. Incontestabilmente, il rapporto col passato è segnato da una serie di nevrosi: atteggiamento di difesa nei casi in cui non si è accusati; reazioni emotive rispetto a situazioni che in realtà le giustificano appena; mancanza di emozioni nei confronti delle cose più serie; non di rado anche rimozione di fatti di cui si è interamente o parzialmente a conoscenza. Ad esempio, in esperimenti di gruppo compiuti dall'Istituto per la ricerca sociale, abbiamo spesso constatato che nel ricordo di deportazioni e massacri vengono scelte espressioni attenuanti, eufemismi, quando non si crea un vuoto di memoria; l'espressione divenuta corrente, quasi bonaria, «Kristallnacht» (notte dei cristalli, n.d.t.) per indicare il pogrom del novembre 1938, testimonia questa tendenza. Numerosissimi sono coloro che dicono di essere stati all'oscuro degli eventi di allora, sebbene dappertutto sparissero degli ebrei e nonostante sia difficilmente verosimile che coloro che hanno visto da vicino quanto accadeva a Est abbiano sempre taciuto ciò che per loro doveva rappresentare un peso insopportabile; si può probabilmente presumere che esista una relazione tra l'atteggiamento del non-averne-saputo-nulla e una indifferenza quanto meno ottusa e timorosa. Ad ogni modo, i nemici decisi del nazionalsocialismo erano abbastanza presto al corrente di quanto succedeva.

Noi tutti conosciamo la tendenza a negare o minimizzare, oggi, quanto successo – per quanto sia difficile immaginare che ci sono persone che non si vergognano di dire che in fondo sarebbero stati gasati al massimo solo cinque e non sei milioni di ebrei. È inoltre irrazionale la diffusa equiparazione della colpa, come se Dresda avesse reso giustizia ad Auschwitz. Nella messa in campo di tali calcoli, nella fretta di esimersi dall'interrogare la propria coscienza ricorrendo, invece, alle controaccuse c'è dietro qualcosa di disumano, e azioni di guerra, il cui modello era stato fornito, tra l'altro, da Coventry e Rotterdam, sono difficilmente paragonabili allo sterminio amministrativo di milioni di innocenti. Viene messa in discussione persino questa innocenza, la cosa più semplice e plausibile. L'enormità del crimine offre addirittura il pretesto per giustificare lo stesso: una cosa del genere, si consola la coscienza assopita, non sarebbe potuta succedere se le vittime non vi avessero, in qualche modo, dato adito, e questo vago «in qualche modo» può essere interpretato e variato secondo i gusti. La mistificazione irrompe sul contrasto stridente tra una colpa estremamente fittizia e una punizione estremamente reale. Talvolta si attribuisce ai vincitori la responsabilità di ciò che fecero i vinti quando questi erano ancora potenti, e per i misfatti di Hitler dovrebbero essere responsabili coloro che ne tollerarono l'ascesa al potere e non coloro che lo acclamarono. L'idiozia di tutto ciò è veramente indicativa di una realtà non superata sul piano psichico, di una lacerazione, anche se il pensiero delle lacerazioni dovrebbe essere destinato, piuttosto, alle vittime.

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Pagina 26

Tra le suddette circostanze oggettive la più stringente è forse lo sviluppo della politica internazionale. La quale sembra giustificare, a posteriori, l'aggressione dell'Unione Sovietica da parte di Hitler. Dal momento che il mondo occidentale determina la sua unità essenzialmente nella comune difesa dalla minaccia russa, si ha l'impressione che i vincitori del 1945 abbiano distrutto solo per stoltezza lo sperimentato baluardo contro il bolscevismo per ricostruirlo pochi anni dopo. Dal disinvolto «Ma Hitler lo ha sempre detto», alla conclusione che egli avesse ragione anche in altre cose, il passo è breve. Solo spensierati oratori della domenica potrebbero sorvolare su una fatalità storica, sul fatto cioè che, in un certo senso, il disegno che spinse i Chamberlain e il loro seguito a tollerare Hitler come aguzzino dell'Est sia sopravvissuto a Hitler. Veramente una fatalità. Poiché è evidente la minaccia dell'Est di assorbire i contrafforti dell'Europa occidentale. Chi non vi si oppone si rende letteralmente colpevole di una riedizione dell' appeasement chamberlainiano. Si dimentica solo – solo! – che questa minaccia è stata scatenata proprio dall'azione di Hitler che ha portato all'Europa esattamente ciò che egli, secondo la volontà degli appeasers, con la sua guerra espansionistica voleva evitare. Ancor più del destino individuale, è quello dell'intreccio politico un intrico di colpe. La resistenza contro l'Est ha in sé una dinamica che risveglia il passato tedesco. Non solo ideologicamente, perché lo slogan della lotta al bolscevismo da sempre è riuscito a mascherare coloro che della libertà non hanno un concetto migliore, ma anche realmente. Secondo un'osservazione fatta già durante il periodo hitleriano, la potenza organizzativa dei sistemi totalitari impone ai suoi nemici aspetti del suo modo d'essere. Fino a che durerà il divario economico tra Est e Ovest la variante fascista avrà più presa sulle masse rispetto alla propaganda dell'Est, mentre d'altro canto non ci si vede ancora sospinti, tuttavia, verso l'ultima ratio fascista. Ma sono le stesse categorie di persone a essere soggette a entrambe le forme di totalitarismo. Si darebbe un giudizio errato dei caratteri inclini all'autoritarismo se li si riconducesse a una determinata ideologia politico-economica; anche da un punto di vista socio-psicologico non sono un caso le note fluttuazioni di milioni di elettori tra il partito nazionalsocialista e quello comunista, prima del 1933. Studi condotti in America hanno dimostrato che tale struttura caratteriale non dipende poi tanto da criteri politico-economici. La definiscono piuttosto caratteristiche come: un pensiero determinato da categorie del tipo potenza-impotenza, inflessibilità e incapacità di reagire, convenzionalismo, conformismo, mancanza di autocoscienza, insomma incapacità di maturare esperienze. Queste persone si identificano con il potere reale in quanto tale, indipendentemente dalla sua natura. In fondo dispongono solo di un Io debole e hanno perciò bisogno come surrogato della identificazione con grandi collettivi e della copertura da parte di essi. Il fatto che ci si continui a imbattere in individui come quelli rappresentati dal film «Wir Wunderkinder» non dipende né dalla cattiveria del mondo in quanto tale, né dalle presunte peculiarità del carattere nazionale tedesco, bensì dall'identità tra quei conformisti, che hanno comunque rapporti con le leve di ogni apparato di potere, e i potenziali seguaci totalitari. Inoltre è un'illusione pensare che il regime nazionalsocialista non abbia significato altro che paura e sofferenza, sebbene ciò sia vero anche per molti dei suoi aderenti. Numerosi erano coloro che non se la sono passata male sotto il fascismo. Il terrore vero e proprio si è indirizzato solo contro pochi e relativamente ben definiti gruppi. Dopo le esperienze di crisi del periodo prehitleriano prevalse un sentimento di «c'è qualcuno che provvede», e non solo come ideologia legata alle «KdF-Reisen» (attività fisico-ricreative, escursioni, ecc., organizzate dai responsabili del tempo libero nazisti, ndt) e ai vasi di fiori posti all'interno delle fabbriche. Rispetto al laissez faire l'apparato hitleriano ha effettivamente protetto, in una certa misura, i suoi dalle catastrofi naturali della società di cui gli uomini erano in balìa. Ha violentemente anticipato l'attuale gestione della crisi, un barbaro esperimento di controllo statale della società industriale. La tanto invocata integrazione, l'organizzazione di una fitta rete sociale che tutto parava, garantiva anche protezione dalla paura universale di scivolare tra le maglie e di precipitare nel baratro. A molti il freddo di una condizione alienante sembrava essere eliminato dal calore dello stare insieme, quantunque manipolato e sollecitato; l'illusorietà di una comunità di popolo di uomini non liberi e disuguali era nel contempo anche l'esaudimento di un antico e certamente già da sempre nefasto sogno borghese. Il sistema, che offriva tali gratificazioni, celava comunque in sé il potenziale del suo disfacimento. La prosperità economica del Terzo Reich si fondava in larga misura sugli armamenti in preparazione della guerra, che portò alla catastrofe. Ma la memoria indebolita, di cui ho parlato, si rifiuta di accettare questo ragionamento. Trasfigura tenacemente la fase nazionalsocialista in cui si realizzarono le collettive fantasie di potere di coloro che individualmente erano impotenti e che solo in seno a un potere collettivo potevano aspirare a sentirsi qualcuno. Nessuna analisi, per quanto illuminante, può a posteriori spazzare via la realtà di questo esaudimento e le energie pulsionali in esso profuse. Lo stesso azzardo hitleriano non era così irrazionale come sembrò allora all'intelligenza liberale media, o come potrà apparire oggi il suo fallimento a una retrospettiva storica. Il calcolo di Hitler di sfruttare il vantaggio temporale sugli altri stati di un riarmo realizzato a ritmi forsennati non era, rispetto agli obiettivi che voleva perseguire, per niente dissennato. A chi richiami alla mente la storia del Terzo Reich, soprattutto la parte relativa alla guerra, i singoli momenti in cui Hitler soccombeva appariranno come casuali, e come necessario invece solo il decorso del tutto in cui appunto si è affermato il più forte potenziale tecnico-economico del resto della terra che non voleva lasciarsi conquistare – una necessità statistica, in un certo senso, non una logica palese nel suo susseguirsi. La persistente simpatia per il nazionalsocialismo non ha bisogno di ricorrere a particolari sofismi per convincere sé e gli altri che le cose avrebbero potuto prendere anche un'altra piega, che in effetti sarebbero stati commessi solo degli errori e che la caduta di Hitler sarebbe una casualità della storia che forse lo spirito del mondo prima o poi correggerà.

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Pagina 37

PER COMBATTERE
L'ANSISEMITISMO OGGI
1962



Gentili signore e signori,

mi sento un po' costretto nei panni di Hans Sachs, quando dice: «Voi, vi rendete la vita facile, a me, me la rendete difficile, dandomi, ahimé, troppo onore». Non dovete pertanto aspettarvi troppo da ciò che ho da dirvi.

Mi vorrei limitare semplicemente alla discussione di alcuni punti critici. Cercherò di non dire niente di ciò di cui voi tutti siete più o meno al corrente, per soffermarmi su alcune cose che magari non sono così vivamente presenti nella coscienza collettiva.

Parlare oggi dell'antisemitismo e dei possibili rimedi ad esso sembra, in un primo momento, un po' anacronistico, in quanto, così si dice, l'antisemitismo in Germania non costituirebbe un problema attuale. Questo vi verrà confermato, ad esempio, dai dati rilevati dagli istituti demoscopici, soprattutto da quelli commerciali che ci informano continuamente che il numero degli antisemiti sarebbe in diminuzione. I motivi sono a un primo approccio molto tangibili: intanto ci sono i tabù ufficiali sull'antisemitismo nella nostra società, oggi, almeno in Germania; poi il fatto terribile che in Germania non ci sono quasi più ebrei sui quali impostare i pregiudizi antisemiti. Tutto questo non lo vorrei negare, ma ritengo, tuttavia, che la questione sia più complessa delle indicazioni statistiche. Non dovete supporre che l'antisemitismo sia un fenomeno isolato e specifico. Esso è invece, come lo definimmo a suo tempo Horkheimer e io nella Dialettica dell'illuminismo, parte o aspetto di un atteggiamento più complessivo; è, per così dire, una delle assi che compongono una piattaforma, è una parte di un «Ticket». Dappertutto dove si predichi un certo tipo di nazionalismo militante ed eccessivo, è come se l'antisemitismo venisse automaticamente inglobato. Si è affermato in tali movimenti come lo strumento idoneo a unificare le forze altrimenti molto divergenti che caratterizzano ogni tipo di radicalismo di destra. A questo si aggiunge il fatto che il potenziale è senz'altro sopravvissuto. A questo proposito basta che diate un'occhiata alla stampa radicale di destra in Germania, rappresentata da un numero abbastanza nutrito di giornali, e vi imbatterete in molte espressioni che si possono definire criptoantisemite e che alimentano l'antisemitismo, attraverso le loro implicazioni, o anche con una complice strizzatina d'occhio. In fin dei conti noi, anche nel nostro lavoro all'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, abbiamo sufficienti motivi per non fidarci troppo delle belle cifre che ci vengono fornite dagli istituti demoscopici. Tempo fa, ad esempio, da un rilevamento emergeva che i bambini di estrazione piccolo-borghese e in parte anche proletaria hanno una certa tendenza ai pregiudizi antisemiti.

Noi la poniamo in correlazione al fatto che i genitori di questi bambini facevano parte, a suo tempo, dei seguaci attivi del Terzo Reich. Oggi si vedono costretti a difendere nei confronti dei figli il loro comportamento di allora, e vengono così quasi automaticamente indotti a rinverdire il loro antisemitismo degli anni Trenta. Il nostro collaboratore Peter Schoenbach ha coniato a tal proposito la ben trovata espressione «antisemitismo di ritorno». Queste cose andrebbero approfondite. Sarebbe comunque importante, fin da principio, indirizzare l'attenzione a quei gruppi specifici all'interno dei quali si osserva un perdurare dell'antisemitismo fascista. Ogni studio operato in questo campo deve essere improntato all'idea della necessità di capire e riconoscere il manifestarsi di tali fenomeni, anziché indignarsi. Solo se si riescono a capire anche le forme più estreme – non immedesimandosi ma analizzando – sarà possibile contrastarle efficacemente e con verità. Un sintomo dell'enorme potere collettivo della ripulsa dell'intero complesso di colpe del passato è costituito dall'accoglienza entusiastica riservata in Germania, negli ultimi tempi, a una serie di autori anglosassoni che, rispetto alla questione della colpa bellica, sembrano deresponsabilizzare la Germania. Essi vengono citati con entusiasmo, anche se il tenore dei loro libri è tuttl'altro che tedescofilo. Si può probabilmente dire, affermare senza forzature, che là dove si riscontrino tali effetti anche l'antisemitismo del Terzo Reich viene spiegato in qualche modo apologeticamente per puro istinto di autodifesa collettiva. Non appena però lo si renda plausibile, magari ricorrendo all'argomento secondo cui, allora, l'influenza degli ebrei sarebbe stata davvero indebitamente sproporzionata, allora si spiana una via che può condurre a un'immediata rinascita del pregiudizio. Al riguardo si sente dire abbastanza spesso che, oggi, agli ebrei, il cui numero è veramente sparuto, non bisognerebbe concedere troppi spazi, né permettere loro l'accesso ad alte cariche e simili. Lasciatemi subito precisare che io, proprio in ragione della lotta all'antisemitismo, non troverei giusto, per esempio, negare l'influenza degli ebrei nella repubblica di Weimar. Se ci si impelaga in una casistica del genere, o addirittura in un gioco di numeri con i dati, si parte subito in svantaggio. Bisogna argomentare in modo molto più radicale: dire che in una democrazia la sola questione circa la partecipazione di determinati gruppi della popolazione a determinate professioni viola il principio di uguaglianza. Vi dico questo perché qui mi sembra sia dato un caso esemplare dei problemi che comporta la controargomentazione all'antisemitismo, problemi con i quali abbiamo continuamente a che fare.

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