Copertina
Autore Giorgio Agamben
Titolo La potenza del pensiero
SottotitoloSaggi e conferenze
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2005, la quarta prosa , pag. 412, cop.ril.sov., dim. 145x222x30 mm , Isbn 978-88-545-0042-6
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe filosofia , linguistica , critica letteraria , scienze umane , antropologia , storia dell'arte
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Indice


  7 I. Linguaggio

  9 La cosa stessa
 25 L'idea del linguaggio
 37 Lingua e storia
 57 Filosofia e linguistica
 77 Vocazione e voce
 91 L'Io, l'occhio, la voce
107 Sull'impossibilità di dire Io


121 II. Storia

123 Aby Warburg e la scienza senza nome
147 Tradizione dell'immemorabile
163 *Se. L'Assoluto e l'«Ereignis»
191 L'origine e l'oblio
205 Walter Benjamin e il demonico
237 Kommerell, o del gesto
251 Il Messia e il sovrano


271 III. Potenza

273 La potenza del pensiero
289 La passione della fatticità
321 Heidegger e il nazismo
333 L'immagine immemoriale
345 Pardes
365 L'opera dell'uomo
377 L'immanenza assoluta

405 Nota ai testi


 

 

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Pagina 26

L'idea del linguaggio


Chiunque sia stato educato o abbia semplicemente vissuto in un ambiente cristiano o ebraico ha qualche familiarità con la parola: rivelazione. Questa familiarità non significa tuttavia che egli sia in grado di definirne il senso. Vorrei cominciare queste mie riflessioni proprio con un tentativo di definire questo termine. Sono infatti convinto che una sua corretta definizione non sia irrilevante per il tema del nostro incontro né estranea all'ambito della filosofia, cioè di quel discorso che, è stato detto, può parlare di tutto, a condizione di parlare innanzitutto del fatto che ne parla. Il tratto costante che caratterizza ogni concezione della rivelazione è la sua eterogeneità rispetto alla ragione. Ciò non vuol dire semplicemente — anche se i padri della Chiesa hanno spesso insistito su questo punto — che il contenuto della rivelazione debba necessariamente apparire assurdo alla ragione. La differenza che è qui in questione è qualcosa di ben più radicale, che concerne il piano stesso su cui la rivelazione si situa, ovvero la sua struttura propria.

[...]

Nei termini della logica contemporanea, potremmo dire, allora, che il senso della rivelazione è che, se vi è un metalinguaggio, esso non è un discorso significante, ma una pura voce insignificante. Che vi sia il linguaggio è altrettanto certo quanto incomprensibile, e questa incomprensibilità e questa certezza costituiscono fede e rivelazione.


La principale difficoltà insita in un'esposizione filosofica concerne questo stesso ordine di problemi. La filosofia non si occupa, infatti, soltanto di ciò che è rivelato attraverso il linguaggio, ma anche della rivelazione del linguaggio stesso. Un'esposizione filosofica è, cioè, quella che, di qualunque cosa parli, deve dar conto anche del fatto che ne parla, un discorso che, in ogni detto, dice innanzitutto il linguaggio stesso. (Di qui l'essenziale prossimità – ma anche la distanza – fra filosofia e teologia, almeno altrettanto antica quanto la definizione aristotelica della filosofia prima come theologiké.)

Ciò si potrebbe anche esprimere dicendo che la filosofia non è una visione del mondo, ma una visione del linguaggio e, in effetti, il pensiero contemporaneo ha seguito con fin troppo zelo questa via. La difficoltà sorge qui, però, dal fatto che – com'è implicito nella definizione che Gaunilone dà della voce – ciò che è in questione in un'esposizione filosofica non può essere semplicemente un discorso che abbia il linguaggio come tema, un metalinguaggio che parli del linguaggio. La voce non dice nulla, ma si mostra, proprio come la forma logica secondo Wittgenstein, e non può pertanto diventare tema di un discorso. La filosofia non può che condurre il pensiero fino al limite della voce: non può dire la voce (o, almeno, così sembra).

Il pensiero contemporaneo ha preso risolutamente coscienza del fatto che un metalinguaggio ultimo e assoluto non esiste e che ogni costruzione di un metalinguaggio resta presa in un regresso all'infinito. Il paradosso della pura intenzione filosofica è, tuttavia, proprio quello di un discorso che deve parlare del linguaggio ed esporne i limiti senza disporre di un metalinguaggio. In questo modo essa si urta proprio a ciò che costituiva il contenuto essenziale della rivelazione: logos en arché, la parola è assolutamente nel principio, è il presupposto assoluto (o, come Mallarmé scrisse una volta, il verbo è un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni principio). Ed è con questa dimora della parola nel principio che una logica e una filosofia coscienti dei loro compiti devono sempre di nuovo misurarsi.


Se c'è un punto sul quale le filosofie contemporanee sembrano trovarsi d'accordo è proprio il riconoscimento di questo presupposto. Così l'ermeneutica assume questa irriducibile priorità della funzione significante affermando – secondo il motto di Schleiermacher che apre Verità e Metodo – che «nell'ermeneutica c'è un solo presupposto: il linguaggio», o interpretando, con Apel, il concetto di «gioco linguistico» in Wittgenstein nel senso di una condizione trascendentale di ogni conoscenza. Questo apriori è, per l'ermeneutica, il presupposto assoluto, che può essere ricostruito e reso cosciente, ma non può essere oltrepassato. Coerentemente a queste premesse, l'ermeneutica non può che porsi come orizzonte di una tradizione e di una interpretazione infinite, il cui senso ultimo e il cui fondamento devono necessariamente restare non detti. Essa può interrogarsi su come avvenga la comprensione, ma che ci sia comprensione è ciò che, restando impensato, rende possibile ogni comprensione. «Ogni atto di parola», scrive Gadamer, «nell'atto del suo accadere, rende, insieme, presente il non detto a cui esso, come risposta e richiamo, si riferisce». (Si capisce, quindi, come l'ermeneutica, pur richiamandosi a Hegel e a Heidegger, lasci nell'ombra proprio quell'aspetto del loro pensiero che chiamava in causa il sapere assoluto e la fine della storia da una parte, e l' Ereignis e la fine della storia dell'essere dall'altra.)

In questo senso, l'ermeneutica si contrappone – ma non in modo così radicale come potrebbe sembrare – a quei discorsi, come la scienza e l'ideologia, che, pur presupponendo più o meno consapevolmente la preesistenza della funzione significante, rimuovono questo presupposto e ne lasciano agire senza riserve la produttività e il potere nullificante. E, in verità, non si vede in che modo l'ermeneutica potrebbe convincere questi discorsi, almeno nella misura in cui essi siano divenuti nichilisticamente coscienti della loro infondatezza, a rinunciare al proprio atteggiamento. Se il fondamento è, comunque, indicibile e irriducibile, se esso anticipa già sempre l'uomo parlante, gettandolo in una storia e in un destino epocale, allora un pensiero che ricordi e prenda cura di questo presupposto sembra eticamente equivalente a quello che, abbandonandosi al suo destino, ne esperisce fino in fondo (e non c'è, in verità, fondo) la violenza e l'infondatezza.

Non è perciò un caso se, secondo un'autorevole corrente del pensiero francese contemporaneo, il linguaggio è, sì, mantenuto nel principio, ma questa dimora nell' arché ha la struttura negativa della scrittura e del gramma. Non c'è una voce per il linguaggio, ma esso è, fin dall'inizio, traccia e autotrascendimento infinito. In altre parole: il linguaggio, che è nel principio, è la nullificazione e il differimento di se stesso, e il significante non è che la cifra irriducibile di questa infondatezza.

È legittimo chiedersi se questo riconoscimento del presupposto del linguaggio che caratterizza il pensiero contemporaneo possa veramente esaurire il compito della filosofia. Si direbbe che qui il pensiero consideri chiuso il suo compito proprio col riconoscimento di quanto costituiva il contenuto più proprio della fede e della rivelazione: la situazione del logos nell' arché. Ciò che la teologia proclamava incomprensibile per la ragione è ora riconosciuto dalla ragione come suo presupposto. Ogni comprensione è fondata nell'incomprensibile.

Ma non resta in ombra, in questo modo, proprio quello che dovrebbe essere il compito filosofico per eccellenza, e, cioè, l'eliminazione e l'«assoluzione» del presupposto? Non era forse la filosofia il discorso che si voleva libero da ogni presupposto, anche dal più universale dei presupposti, che si esprime nella formula: vi è il linguaggio? Non si tratta appunto per essa di comprendere l'incomprensibile? Forse proprio nell'abbandono di questo compito, che condanna l'ancella a un matrimonio con la sua padrona teologica, consiste la difficoltà presente della filosofia, così come la difficoltà della fede coincide con la sua accettazione da parte della ragione. L'abolizione dei confini fra fede e ragione segna anche la loro crisi, cioè il loro reciproco giudizio.

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Pagina 123

Aby Warburg e la scienza senza nome


Il presente saggio si propone come obiettivo la situazione critica di una disciplina che, all'opposto di tante altre, esiste ma non ha nome. Poiché creatore di questa disciplina è stato Aby Warburg, solo un'attenta analisi del suo pensiero potrà fornire il punto di vista a partire dal quale una tale situazione diventerà possibile. E solo a partire da una tale situazione sarà possibile chiedersi se questa «disciplina innominata» sia suscettibile di ricevere un nome e in che misura i nomi finora proposti rispondano allo scopo.

L'essenza dell'insegnamento e del metodo di Warburg, quale si è espresso nell'attività dell'amburghese «Biblioteca per la scienza della cultura» divenuta più tardi l'Istituto Warburg, viene di solito caratterizzata come un rifiuto del metodo stilistico-formale imperante nella storia dell'arte alla fine del diciannovesimo secolo e come uno spostamento del punto focale dell'indagine dalla storia degli stili e dalla valutazione estetica agli aspetti programmatici e iconografici dell'opera d'arte quali risultano dallo studio delle fonti letterarie e dall'esame della tradizione culturale. La ventata di aria fresca che l'approccio warburghiano all'opera d'arte avrebbe portato sulle acque stagnanti del formalismo estetico è testimoniata dal successo crescente delle ricerche che si sono ispirate al suo metodo e che hanno conquistato un pubblico così vasto, anche al di fuori dei circoli accademici, che si è potuto parlare di un'immagine «popolare» dell'Istituto Warburg. Di pari passo a questo allargarsi della fama dell'Istituto, si assisteva tuttavia a un'obliterazione crescente della figura del suo fondatore e del suo progetto originale, mentre l'edizione degli scritti e dei frammenti inediti di Warburg veniva continuamente posposta e non ha ancora oggi visto la luce.

Naturalmente la caratterizzazione suddetta del metodo warburghiano riflette un atteggiamento di fronte all'opera d'arte che fu indubbiamente proprio di Aby Warburg. Nel 1889, mentre preparava presso l'Università di Strasburgo la sua tesi sulla Nascita di Venere e sulla Primavera di Botticelli, egli si rese conto che qualsiasi tentativo di comprendere la mente di un pittore del Rinascimento era futile se il problema era accostato solo da un punto di vista formale e per tutta la vita egli conservò la sua «onesta ripugnanza» per la «storia dell'arte estetizzante [ästhetisierende Kunstgeschichte]» e per la considerazione puramente formale dell'immagine. Ma questo atteggiamento non nasceva in lui da un approccio puramente erudito ed antiquario ai problemi dell'opera d'arte né tanto meno da un'indifferenza ai suoi aspetti formali: la sua ossessiva, quasi iconolatrica, attenzione alla forza delle immagini prova, se fosse necessario, che egli era fin troppo sensibile ai «valori formali» e un concetto come quello di Pathosformel, in cui non è possibile distinguere fra forma e contenuto perché designa un indissolubile intreccio di una carica emotiva e di una formula iconografica, è sufficiente testimonianza del fatto che il suo pensiero non si lascia in alcun modo interpretare nei termini di una contrapposizione così poco genuina come quella forma / contenuto, storia degli stili / storia della cultura. Ciò che è unico e proprio nel suo atteggiamento di studioso non è tanto un nuovo modo di fare storia dell'arte, quanto una tensione verso il superamento dei confini della storia dell'arte che accompagna fin dall'inizio il suo interesse per questa disciplina, quasi che egli l'avesse scelta solo per insinuare in essa il seme che l'avrebbe fatta esplodere. Il «buon dio» che, secondo il suo celebre motto, «si nasconde nei dettagli» non era, per lui, il nume tutelare della storia dell'arte, ma il dèmone oscuro di una scienza innominata di cui soltanto oggi cominciamo a intravedere i lineamenti.

[...]

Il nome dell'antropologia avrebbe potuto essere fatto più spesso nel corso di questo studio. È infatti indubbio che il punto di vista dal quale Warburg guardava ai fenomeni umani coincide singolarmente con quello delle scienze antropologiche. Forse il modo meno infedele di caratterizzare la sua «scienza senza nome» è quello di inserirla nel progetto di una futura «antropologia della cultura occidentale» in cui filologia, etnologia, storia e biologia convergano con una «iconologia dell'intervallo», dello Zwischenraum in cui opera l'incessante travaglio simbolico della memoria sociale. L'urgenza di una tale scienza, per un'epoca che dovrà prima o poi decidersi a prendere atto di quanto già trent'anni fa Valéry costatava scrivendo che «le temps du monde fini commence», non ha bisogno di essere sottolineata. Solo questa scienza potrebbe infatti permettere all'uomo occidentale, uscito dai limiti del proprio etnocentrismo, di rivolgere su di sé la conoscenza liberatrice di una «diagnosi dell'umano» che potrebbe guarirlo dalla sua tragica schizofrenia.

A questa scienza che, purtroppo, dopo quasi un secolo di studi antropologici, è appena agli inizi, Warburg, «nel suo modo erudito, un po' complicato» ha recato dei contributi non trascurabili, che permettono di iscrivere il suo nome accanto a quelli di Mauss, di Sapir, di Spitzer, di Kerényi, di Usener, di Dumézil, di Benveniste e di molti, ma non moltissimi, altri. Ed è probabile che una tale scienza dovrà restare senza nome finché la sua azione non sarà penetrata così profondamente nella nostra cultura da far saltare le false divisioni e le false gerarchie che mantengono separate non soltanto le discipline umane fra loro, ma anche le opere d'arte dagli studia humaniora, la creazione letteraria dalla scienza.

Forse la frattura che divide, nella nostra cultura, poesia e filosofia, arte e scienza, la parola che «canta» e quella che «ricorda», non è che un aspetto di quella schizofrenia della civiltà occidentale che Warburg aveva riconosciuto nella polarità della ninfa estatica e del malinconico dio fluviale. Saremo veramente fedeli all'insegnamento di Warburg, se sapremo vedere nel gesto danzante della ninfa lo sguardo contemplativo del dio e se riusciremo a capire che anche la parola che canta ricorda e anche quella che ricorda canta. La scienza che allora avrà raccolto nel suo gesto la conoscenza liberatrice dell'umano meriterà veramente di essere chiamata col nome greco di Mnemosyne.


Postilla 1983

Questo saggio è stato scritto nel 1975, dopo un anno di fervido lavoro nella biblioteca del Warburg Institute. Esso era stato concepito come primo di una serie di ritratti dedicati a personalità esemplari, ciascuna delle quali doveva rappresentare una scienza umana. Oltre al saggio su Warburg, solo quello dedicato a Emile Benveniste e alla linguistica fu portato avanti, anche se mai terminato.

A distanza di sette anni, il progetto di una scienza generale dell'umano, che si trova formulato in questo studio, appare all'autore non superato, ma certamente non più perseguibile negli stessi termini. Del resto, già alla fine degli anni '60, l'antropologia e le scienze umane erano entrate in una fase di disincanto, che avrebbe reso tale progetto probabilmente obsoleto. (Che esso sia stato in questi ultimi anni qua e là riproposto in modi diversi come generico ideale scientifico testimonia soltanto della leggerezza con cui, in ambito accademico, si sogliono sciogliere i nodi storici e politici impliciti nei problemi della conoscenza.)

L'itinerario della linguistica che, già con la generazione di Benveniste, aveva esaurito il grande progetto ottocentesco della grammatica comparata, può servire, in questa prospettiva, di esempio. Se da una parte, col Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, la grammatica comparata aveva raggiunto un vertice, sul cui crinale sembravano vacillare le stesse categorie epistemologiche delle discipline storiche, dall'altra, con la teoria dell'enunciazione, la scienza del linguaggio investiva il terreno tradizionale della filosofia. In entrambi i casi, ciò coincideva con l'urtarsi della scienza (qui la linguistica, questa «disciplina pilota» delle scienze umane) a dei limiti, la cui esatta ricognizione pareva delineare concretamente il campo, sul quale avrebbe potuto svilupparsi una scienza generale dell'umano sottratta alle vaghezze dell'interdisciplinarità. Ciò non è avvenuto e non è questa la sede per indagarne le ragioni. Sta di fatto che si è assistito, invece, sulla retroguardia, al ripiegamento accademico sulle posizioni della semiotica (molto al di qua delle prospettive indicate da Benveniste, e persino da Saussure) e, all'avanguardia, alla massiccia svolta verso la linguistica formalizzata di indirizzo chomskiano, la cui feconda avventura è ancora in corso, ma nel cui orizzonte epistemologico un progetto del genere sarebbe difficilmente proponibile negli stessi termini.

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Pagina 237

Kommerell, o del gesto


La critica ha tre livelli, esemplificabili, se si vuole, in tre sfere concentriche: quello filologico-ermeneutico, quello fisiognomico e quello gestuale. Il primo svolge l'interpretazione dell'opera, il secondo la situa (tanto negli ordini storici che in quelli naturali) secondo la legge della somiglianza, il terzo ne risolve l'intenzione in un gesto (o in una costellazione di gesti). Si può dire che ogni autentico critico trascorra attraverso tutti e tre questi ambiti, indugiando, secondo la propria indole, più o meno in ciascuno di essi. L'opera di Max Kommerell — certamente il più grande critico tedesco del Novecento dopo Benjamin e forse l'ultima grande personalità della Germania fra le due guerre che ci resti ancora da scoprire — s'inscrive quasi integralmente nel terzo ambito, dove più rari sono i talenti supremi (fra i critici del Novecento, oltre a Benjamin, solo Rivière, Fénéon e Contini vi si collocano a pieno titolo).

Che cos'è - nella prospettiva che qui ci interessa - un gesto? Basta scorrere il saggio su Kleist Il poeta e l'indicibile per misurare la centralità e la complessità del tema del gesto nel pensiero di Kommerell, e la decisione con cui egli riconduce ogni volta l'intenzione ultima dell'opera in questa sfera. Il gesto non è un elemento assolutamente non-linguistico, ma qualcosa che sta col linguaggio nel rapporto più intimo e, innanzitutto, una forza operante nella lingua stessa, più antica e originaria dell'espressione concettuale: gesto linguistico (Sprachgebärde) definisce Kommerell quello strato del linguaggio che non si esaurisce nella comunicazione e lo coglie, per così dire, nei suoi momenti solitari.

Il senso di questi gesti non si compie nella comunicazione. Il gesto, per quanto cogente possa essere per l'altro, non esiste mai unicamente per lui; solo, anzi, in quanto esiste anche per se stesso, può essere tanto cogente per l'altro. Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un'impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s'intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari.

In questo senso, Kommerell può scrivere che «la parola è il gesto originario [Urgebärde], dal quale derivano tutti i singoli gesti» e che il verso poetico è, nella sua essenza, gesto («Il linguaggio è, insieme, concettuale e mimico. Il primo elemento domina nella prosa, il secondo nel verso. Prosa è, innanzitutto, l'intendersi su un contenuto, il verso è, oltre a ciò e in modo più deciso, gesto espressivo»). Se questo è vero, se la parola è il gesto originario, allora ciò che è in questione nel gesto non è tanto un contenuto prelinguistico, quanto, per così dire, l'altra faccia del linguaggio, il mutismo insito nello stesso esser parlante dell'uomo, il suo dimorare, senza parole, nella lingua. E, quanto più l'uomo ha linguaggio, tanto più forte è, perciò, in lui il peso dell'indicibile, finché nel poeta, che è, fra i parlanti, colui che ha più parole, «l'accennare e il far segni si stremano e ne nasce qualcosa di corrosivo: la furia per la parola».

Nel saggio su Kleist, i tre gradi di questo essere, senza parole, nel linguaggio, sono l'enigma (Rätsel), in cui il parlante si rende incomprensibile quanto più cerca di esprimersi nelle parole (come avviene ai personaggi del dramma kleistiano); l'arcano (Geheimnis), che resta inespresso nell'enigma e che non è altro che l'essere stesso dell'uomo in quanto vive nella verità del linguaggio; il mistero (Mysterium), che è la pantomimica messa in scena dell'arcano. E, alla fine, il poeta appare come colui che «rimase senza parole nel parlare e morì per la verità del segno».

Proprio per questo — in quanto, cioè, esso non ha propriamente nulla da esprimere e nulla da dire oltre a ciò che è detto nel linguaggio, ma ha da esprimere lo stesso essere nel linguaggio — il gesto è sempre gesto di non raccapezzarsi nella parola, è sempre gag nel significato proprio del termine, che indica innanzitutto qualcosa che si mette in bocca per impedire la parola e, poi, l'improvvisazione dell'attore per sopperire a un'impossibilità di parlare. Ma vi è un gesto che s'insedia felicemente in questo vuoto di linguaggio e, senza proferirlo, ne fa la dimora più propria dell'uomo: qui lo smarrimento si fa danza e il gag mistero.

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Pagina 273

La potenza del pensiero


Che cosa significa: «Io posso»?

Il concetto di potenza ha, nella filosofia occidentale, una lunga storia e, almeno a partire da Aristotele, occupa in essa un posto centrale. Aristotele oppone — e, insieme, lega — la potenza (dynamis) all'atto (energeia) e questa opposizione, che traversa tanto la sua metafisica che la sua fisica, è stata da lui trasmessa in eredità prima alla filosofia e poi alla scienza medievale e moderna. Se ho scelto di parlarvi qui e oggi del concetto di potenza, ciò è perché il mio scopo non è semplicemente storiografico. Non si tratta, per me, di ridare attualità a categorie filosofiche da tempo cadute in oblio; sono convinto, al contrario, che questo concetto non abbia mai cessato di operare nella vita e nella storia, nel pensiero e nella prassi di quella parte dell'umanità, che ha accresciuto e sviluppato a tal punto la sua potenza, da imporre su tutto il pianeta il suo potere. Piuttosto, seguendo il consiglio di Wittgenstein, secondo il quale i problemi filosofici diventano più chiari se li riformuliamo come domande sul significato delle parole, potrei enunciare il tema della mia ricerca come un tentativo di comprendere il significato del sintagma «io posso». Che cosa intendiamo dire quando diciamo: «Io posso, io non posso»?

Nella breve introduzione alla raccolta Requiem, Anna Achmatova racconta come queste poesie sono nate. Erano gli anni della Ezovschina e da mesi la poetessa faceva la fila davanti alla prigione di Leningrado, sperando di aver notizie di suo figlio, arrestato per delitti politici. Con lei, stavano in fila decine di altre donne, che si ritrovavano ogni giorno nello stesso luogo. Una mattina, una di queste donne la riconobbe e le rivolse quest'unica domanda: «Può lei dire questo»? Achmatova tacque per un istante e poi, senza sapere perché, si trovò sulle labbra la risposta: «Sì, io posso».

Mi sono chiesto molte volte che cosa Achmatova intendesse dire. Forse che aveva un così grande talento poetico, che sapeva maneggiare con tanta abilità il linguaggio, da poter descrivere quell'esperienza così atroce, così difficile da dire? Non lo credo, non era questo che voleva dire. Viene per ciascun uomo il momento in cui egli deve pronunciare questo «Io posso», che non si riferisce ad alcuna certezza né ad alcuna capacità specifica, e che tuttavia lo impegna e mette in gioco interamente. Questo «io posso» al di là di ogni facoltà e di ogni saper fare, quest'affermazione che non significa nulla pone immediatamente il soggetto di fronte all'esperienza forse più esigente – e, tuttavia, ineludibile – con cui gli sia dato di misurarsi: l'esperienza della potenza.

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Pagina 377

L'immanenza assoluta


I. La vita

Per una singolare coincidenza, l'ultimo testo che Michel Foucault e Gilles Deleuze hanno pubblicato prima di morire ha, in entrambi i casi, al suo centro il concetto di vita. Il significato di questa coincidenza testamentaria (in un caso come nell'altro si tratta, infatti, di qualcosa dell'ordine di un testamento) va al di là della segreta solidarietà fra due amici. Esso implica l'enunciazione di un lascito che concerne inequivocabilmente la filosofia che viene. Questa, se vorrà raccoglierlo, dovrà partire da quel concetto di vita verso il quale il gesto ultimo dei filosofi indicava. (Tale è, almeno, l'ipotesi da cui muove la nostra indagine.)

Il testo di Foucault, pubblicato sulla «Révue de Métaphysique et de Morale» del gennaio-marzo 1985 (ma consegnato alla rivista nell'aprile 1984, ultimo testo, dunque, a cui l'autore ha potuto dare l' imprimatur, anche se riprende e modifica uno scritto del 1978) porta il titolo: La vie: l'expérience et la science. Ciò che caratterizza queste pagine, concepite da Foucault come un estremo omaggio al suo maestro Canguilhem, è un curioso rovesciamento di prospettiva proprio rispetto all'idea di vita. È come se Foucault, che, in Naissance de la clinique, aveva cominciato coll'ispirarsi al nuovo vitalismo di Bichat e alla sua definizione della vita come «l'insieme delle funzioni che resistono alla morte», finisse ora col vedere in essa piuttosto l'ambito proprio dell'errore. «A la limite», egli scrive, «la vie [...] c'est ce qui est capable d'erreur [...] La vie aboutit avec l'homme à un vivant qui ne se trouve jamais tout à fait à sa place, à un vivant qui est voué à "errer" et à "se tromper"». Si può vedere, in questo spostamento, una testimonianza ulteriore di quella crisi che, secondo Deleuze, Foucault attraversa dopo La volonté de savoir. Ma in gioco è qui certamente qualcosa di più che delusione o pessimismo, qualcosa come una nuova esperienza che obbliga a riformulare i rapporti tra verità e soggetto e che, pertanto, riguarda l'ambito più specifico della ricerca di Foucault. Strappando il soggetto dal terreno del cogito e della coscienza, essa lo radica in quello della vita, ma di una vita che, in quanto essenzialmente erranza, va al di là dei vissuti e dell'intenzionalità della fenomenologia: «Est-ce que toute la théorie du sujet ne doit pas étre reformulée, dès lors que la connaissance, plutòt de s'ouvrir à la verité du monde, s'enracine dans les "erreurs" de la vie?».

Che cosa può essere una conoscenza che non ha più come correlato l'apertura al mondo e alla verità, ma solo la vita e la sua erranza? E come pensare un soggetto solo a partire dall'errore? Ancora Badiou – certamente tra i filosofi più interessanti della generazione che segue immediatamente quella di Foucault e Deleuze – pensa il soggetto a partire dall'incontro contingente con una verità, e lascia da parte il vivente come «l'animal de l'espèce humaine» chiamato a fungere da supporto a questo incontro. È evidente che non si tratta in Foucault di un semplice aggiustamento epistemologico, ma di un'altra dislocazione della teoria della conoscenza, questa volta su un terreno assolutamente inesplorato. Ed è proprio questo terreno, che coincide con l'apertura del cantiere sulla biopolitica, che avrebbe potuto fornire a Foucault quel «terzo asse, distinto tanto dal sapere che dal potere», di cui egli, secondo Deleuze, aveva in quel momento bisogno, e che il testo su Canguilhem definisce in limine come «une autre manière d'approcher la notion de vie».

[...]

12. Prospettive

Si chiarisce ora in che senso abbiamo potuto affermare, all'inizio, che il concetto «Vita», come estremo lascito testamentario tanto del pensiero di Foucault che di quello di Deleuze, debba costituire il tema della filosofia che viene. Si tratterà, innanzitutto, di provare a leggere insieme le ultime riflessioni – in apparenza così cupe – di Foucault sul bio-potere e sui processi di soggettivazione e quelle di Deleuze – in apparenza così serene – su «una vita...» come immanenza assoluta e beatitudine. Leggere insieme non significa, qui, semplificare e appiattire; al contrario, una tale coniugazione implicherà che ciascun testo costituisca per l'altro un correttivo e una pietra d'inciampo, e che solo attraverso questa complicazione ulteriore essi potranno raggiungere ciò che cercavano: il primo l' autre manière d'approcher la notion de vie e il secondo una vita che non consista solo nel suo confronto con la morte e un'immanenza che non torni a produrre trascendenza. Dovremo, cioè, riuscire a vedere ogni volta nel principio che permette l'assegnazione di una soggettività la matrice stessa della de-soggettivazione e nello stesso paradigma di una possibile beatitudine l'elemento che segna l'asservimento al bio-potere.

Se tale è la ricchezza e, insieme, l'ambiguità contenuta nel diagramma testamentario L'immanence: une vie..., la sua assunzione come compito filosofico implicherà retrospettivamente la ricostruzione di un tracciato genealogico che distingua chiaramente nella filosofia moderna – che è, in un senso nuovo, in gran parte una filosofia della vita – una linea dell'immanenza da quella della trascendenza, secondo uno stemma approssimativamente di questo tipo:

         TRASCENDENZA             IMMANENZA

                 Kant             Spinoza
                  |                 |
              Husserl             Nietzsche
                     \           /  |
                       Heidegger    |
                     /           \  |
     Lévinas, Derrida             Foucault, Deleuze

Occorrerà, inoltre, impegnarsi m una ricerca genealogica sul termine vita, rispetto alla quale possiamo già anticipare che essa mostrerà che non si tratta di una nozione medico-scientifica, ma di un concetto filosofico-politico-teologico e che, pertanto, molte categorie della nostra tradizione filosofica saranno da ripensare in conseguenza. In questa nuova dimensione, non avrà più molto senso distinguere non solo tra vita organica e vita animale, ma persino tra vita biologica e vita contemplativa, tra nuda vita e vita della mente. Alla vita come contemplazione senza conoscenza corrisponderà puntualmente un pensiero che si è sciolto da ogni cognitività e da ogni intenzionalità. La theoria e la vita contemplativa, nelle quali la tradizione filosofica ha identificato per secoli il suo fine supremo, dovranno essere dislocate su un nuovo piano d'immanenza, in cui non è detto che la filosofia politica e l'epistemologia potranno mantenere la loro fisionomia attuale e la loro differenza rispetto all'ontologia. La vita beata giace ora sullo stesso terreno in cui si muove il corpo bio-politico dell'Occidente.

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