Copertina
Autore Giorgio Agamben
Titolo Profanazioni
Edizionenottetempo, Roma, 2005, figure , pag. 110, cop.fle., dim. 140x200x8 mm , Isbn 978-88-7452-048-0
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe filosofia , fotografia
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Indice


Genius                                            7

Magia e felicità                                 19

Il Giorno del Giudizio                           25

Gli aiutanti                                     31

Parodia                                          39

Desiderare                                       57

L'essere speciale                                59

L'autore come gesto                              67

Elogio della profanazione                        83

I sei minuti piú belli della storia del cinema  107


 

 

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Pagina 25

Il Giorno del Giudizio


Che cosa mi affascina, mi tiene incantato, nelle fotografie che amo? Credo si tratti semplicemente di questo: la fotografia è per me in qualche modo il luogo del Giudizio Universale, essa rappresenta il mondo come appare nell'ultimo giorno, nel Giorno della Collera. Non è certamente una questione di soggetto, non intendo dire che le fotografie che amo sono quelle che rappresentano qualcosa di grave, di serio o perfino tragico. No, la foto può mostrare un volto, un oggetto, un evento qualunque. Θ il caso di un fotografo come Dondero, che, come Robert Capa, è sempre rimasto fedele al giornalismo attivo e ha spesso praticato quella che si potrebbe chiamare la flβnerie (o la "deriva") fotografica: si passeggia senza meta e si fotografa tutto quello che capita. Ma "quello che capita" – il volto di due donne che passano in bicicletta in Scozia, la vetrina di un negozio a Parigi – è convocato, è citato a comparire al Giorno del Giudizio.

Che ciò sia vero sin dall'inizio della storia della fotografia, un esempio lo mostra con assoluta chiarezza. Conoscete certamente il celebre dagherrotipo del Boulevard du Temple, che viene considerato come la prima fotografia in cui compaia una figura umana. La lastra d'argento rappresenta il boulevard du Temple fotografato da Daguerre dalla finestra del suo studio in un'ora di punta. Il boulevard doveva essere stracolmo di gente e di carrozze e, tuttavia, dal momento che gli apparecchi dell'epoca esigevano un tempo di esposizione estremamente lungo, di tutta questa massa in movimento non si vede assolutamente nulla. Nulla, tranne una piccola sagoma nera sul marciapiede, in basso a sinistra della foto. Si tratta di un uomo che si stava facendo lucidare gli stivali ed è dunque rimasto immobile abbastanza a lungo, con la gamba appena sollevata per poggiare il piede sul banchetto del lustrascarpe.

Non saprei fantasticare un'immagine piú adeguata del Giudizio Universale. La folla degli umani – anzi l'umanità intera – è presente, ma non si vede, perché il giudizio concerne una sola persona, una sola vita: quella, appunto, e non altra. E in che modo quella vita, quella persona è stata colta, afferrata, immortalata dall'angelo dell'Ultimo Giorno – che è anche l'angelo della fotografia? Nel gesto piú banale e ordinario, nel gesto di farsi lustrare le scarpe! Nell'istante supremo, l'uomo, ogni uomo, è consegnato per sempre al suo gesto piú infimo e quotidiano. E tuttavia, grazie all'obiettivo fotografico, quel gesto si carica ora del peso di un'intera vita, quell'atteggiamento irrilevante, persino balordo compendia e contrae in sé il senso di tutta un'esistenza.

Io credo che vi sia una relazione segreta fra gesto e fotografia. Il potere del gesto di riassumere e convocare interi ordini di potenze angeliche si costituisce nell'obiettivo fotografico ed ha nella fotografia il suo locus, la sua ora topica. Benjamin ha scritto una volta a proposito di Julien Green che egli rappresenta i suoi personaggi in un gesto carico di destino, che li fissa nell'irrevocabilità di un'aldilà infernale. Credo che l'inferno che è qui in questione sia un inferno pagano e non cristiano. Nell'Ade, le ombre dei morti ripetono all'infinito lo stesso gesto: Issione fa girare la sua ruota, le Danaidi cercano inutilmente di portare acqua in una brocca bucata. Ma non si tratta di una punizione, le ombre pagane non sono dei dannati. L'eterna ripetizione è qui la cifra di una apokatastasis, dell'infinita ricapitolazione di un'esistenza.

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Pagina 57

Desiderare


Desiderare è la cosa piú semplice e umana che sia. Perché, allora, proprio i nostri desideri sono per noi inconfessabili, perché ci è cosí difficile portarli alla parola? Cosí difficile che finiamo col tenerli nascosti, costruiamo per essi in noi da qualche parte una cripta, dove rimangono imbalsamati, in attesa.

Non possiamo portare al linguaggio i nostri desideri, perché li abbiamo immaginati. La cripta contiene in realtà soltanto delle immagini, come un libro di figure per bambini che non sanno ancora leggere, come le images d'Epinal di un popolo analfabeta. Il corpo dei desideri è una immagine. E ciò che è inconfessabile nel desiderio, è l'immagine che ce ne siamo fatta.

Comunicare a qualcuno i propri desideri senza le immagini è brutale. Comunicargli le proprie immagini senza i desideri è stucchevole (come raccontare i sogni o i viaggi). Ma facile, in entrambi i casi. Comunicare i desideri immaginati e le immagini desiderate è il compito più arduo. Per questo lo rimandiamo. Fino al momento in cui cominciamo a capire che rimarrà per sempre inevaso. E che quel desiderio inconfessato siamo noi stessi, per sempre prigionieri nella cripta.

Il messia viene per i nostri desideri. Egli li divide dalle immagini per esaudirli. O, piuttosto, per mostrarli già esauditi. Ciò che abbiamo immaginato, lo abbiamo già avuto. Restano – inesaudibili – le immagini dell'esaudito. Con i desideri esauditi, egli costruisce l'inferno, con le immagini inesaudibili il limbo. E con il desiderio immaginato, con la pura parola, la beatitudine del paradiso.

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Pagina 107

I sei minuti piú belli della storia del cinema


Sancho Panza entra in un cinema di una città di provincia. Sta cercando Don Chisciotte e lo trova che sta seduto in disparte e fissa lo schermo. La sala è quasi piena, la galleria – che è una specie di loggione – è interamente occupata da bambini chiassosi. Dopo qualche inutile tentativo di raggiungere Don Chisciotte, Sancho si siede di malavoglia in platea, accanto a una bambina (Dulcinea?), che gli offre un lecca lecca. La proiezione è cominciata, è un film in costume, sullo schermo corrono dei cavalieri armati, a un tratto appare una donna in pericolo. Di colpo Don Chisciotte si alza in piedi, sguaina la sua spada, si precipita contro lo schermo e i suoi fendenti cominciano a lacerare la tela. Sullo schermo compaiono ancora la donna e i cavalieri, ma lo squarcio nero aperto dalla spada di Don Chisciotte si allarga sempre piú, divora implacabilmente le immagini. Alla fine dello schermo non resta quasi piú nulla, si vede soltanto la struttura di legno che lo sosteneva. Il pubblico indignato abbandona la sala, ma nel loggione i bambini non smettono di incoraggiare fanaticamente Don Chisciotte. Solo la bambina in platea lo fissa con riprovazione.

Che cosa dobbiamo fare con le nostre immaginazioni? Amarle, crederci a tal punto da doverle distruggere, falsificare (questo è, forse, il senso del cinema di Orson Welles). Ma quando, alla fine, esse si rivelano vuote, inesaudite, quando mostrano il nulla di cui sono fatte, soltanto allora scontare il prezzo della loro verità, capire che Dulcinea — che abbiamo salvato — non può amarci.

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