Autore Giorgio Agamben
Titolo A che punto siamo?
SottotitoloL'epidemia come politica
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2020, n. 78 , pag. 108, cop.fle., dim. 12x18,2x1 cm , Isbn 978-88-229-0539-0
LettoreLuca Vita, 2020
Classe paesi: Italia: 2020 , politica , salute , medicina , scienza , universita' , storia sociale , inizio-fine












 

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Indice


 11       Avvertenza

 17   1.  L'invenzione di un'epidemia

 21   2.  Contagio

 25   3.  Chiarimenti

 29   4.  A che punto siamo?

 33   5.  Riflessioni sulla peste

 37   6.  L'epidemia mostra che lo stato
          di eccezione è diventato la regola

 43   7.  Distanziamento sociale

 47   8.  Una domanda

 53   9.  La nuda vita

 59  10.  Nuove riflessioni

 65  11.  Sul vero e sul falso

 69  12.  La medicina come religione

 77  13.  Biosicurezza e politica

 81  14.  Polemos epidemios

 99  15.  Requiem per gli studenti

103  16.  Il diritto e la vita


 

 

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Pagina 11

Avvertenza


                         La nave sta affondando e noi discutiamo sul suo carico.

                                                                        Girolamo



Ho raccolto qui i testi che ho scritto durante i mesi dello stato di eccezione per l'emergenza sanitaria. Si tratta di interventi puntuali, a volte molto brevi, che cercano di riflettere sulle conseguenze etiche e politiche della cosiddetta pandemia e, insieme, di definire la trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di eccezione andavano disegnando.

Trascorsi ormai più di quattro mesi dall'inizio dell'emergenza è, infatti, tempo di considerare gli eventi di cui siamo stati testimoni in una prospettiva storica più ampia. Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia - a questo punto non importa se vera o simulata - per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove esigenze. Come, di fronte alla crisi che sconvolse l'Impero nel III secolo, Diocleziano e poi Costantino intrapresero quelle radicali riforme delle strutture amministrative, militari ed economiche che dovevano culminare nell'autocrazia bizantina, così i poteri dominanti hanno deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro nemmeno per coloro che ne stanno tracciando le linee.

Quel che definisce, però, la Grande Trasformazione che essi cercano di imporre è che lo strumento che l'ha resa formalmente possibile non è un nuovo canone legislativo, ma lo stato di eccezione, cioè la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali. In questo essa presenta dei punti di contatto con quanto avvenne in Germania nel 1933, quando il neo cancelliere Adolf Hitler, senza abolire formalmente la costituzione di Weimar, dichiarò uno stato di eccezione che durò per dodici anni e che di fatto vanificò il dettato costituzionale apparentemente mantenuto in vigore. Mentre nella Germania nazista fu necessario a questo fine il dispiegamento di un apparato ideologico esplicitamente totalitario, la trasformazione di cui siamo testimoni opera attraverso l'istaurazione di un puro e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione della salute. Quello che nella tradizione delle democrazie borghesi era un diritto del cittadino alla salute si rovescia, senza che la gente sembri accorgersene, in un'obbligazione giuridico-religiosa che deve essere adempiuta a qualsiasi prezzo. E quanto alto possa essere questo prezzo, abbiamo avuto ampiamente modo di misurarlo e continueremo presumibilmente a farlo ogni volta che il governo lo riterrà nuovamente necessario.

Possiamo chiamare «biosicurezza» il dispositivo di governo che risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il potere statale col suo stato di eccezione. Esso è probabilmente il più efficace fra quanto la storia dell'Occidente abbia finora conosciuto. L'esperienza ha mostrato infatti che una volta che in questione sia una minaccia alla salute gli uomini sembrano disposti ad accettare limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto le dittature totalitarie. Lo stato di eccezione, che è stato prolungato fino al 31 gennaio 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della legalità nella storia del Paese, attuata senza che né i cittadini né, soprattutto, le istituzioni deputate abbiano avuto nulla da obiettare. Dopo l'esempio cinese, proprio l'Italia è stata per l'Occidente il laboratorio in cui la nuova tecnica di governo è stata sperimentata nella sua forma più estrema. Ed è probabile che quando gli storici futuri avranno chiarito che cosa era veramente in gioco nella pandemia, questo periodo apparirà come uno dei momenti più vergognosi della storia italiana e coloro che lo hanno guidato e governato come degli irresponsabili privi di ogni scrupolo etico.

Se il dispositivo giuridico-politico della Grande Trasformazione è lo stato di eccezione e quello religioso la scienza, sul piano dei rapporti sociali essa ha affidato la sua efficacia alla tecnologia digitale, che, com'è ormai evidente, fa sistema con il «distanziamento sociale» che definisce la nuova struttura delle relazioni fra gli uomini. Le relazioni umane dovranno evitare in ogni occasione per quanto possibile la presenza fisica e svolgersi, come già di fatto spesso avveniva, attraverso dispositivi digitali sempre più efficaci e pervasivi. La nuova forma della relazione sociale è la connessione e chi non è connesso è tendenzialmente escluso da ogni rapporto e condannato alla marginalità.

Ciò che costituisce la forza della trasformazione in corso è anche, come spesso avviene, la sua debolezza. La diffusione del terrore sanitario ha avuto bisogno di un apparato mediatico concorde e senza faglie, che non sarà facile mantenere intatto. La religione medica, come ogni religione, ha le sue eresie e i suoi dissensi e già da più parti autorevoli voci hanno contestato la realtà e la gravità dell'epidemia, che non potranno essere indefinitamente sostenute dalla quotidiana diffusione di cifre prive di ogni consistenza scientifica. Ed è probabile che i primi a esserne consapevoli siano proprio i poteri dominanti, che, se non presentissero di essere in pericolo, non avrebbero certo ricorso a dispositivi così estremi e disumani. Ormai da decenni è in atto una progressiva perdita di legittimità dei poteri istituzionali, che questi non hanno saputo arginare che attraverso la produzione di una perpetua emergenza e il bisogno di sicurezza che essa genera. Per quanto tempo ancora e secondo quali modalità potrà essere prolungato l'attuale stato di eccezione? Quel che è certo è che saranno necessarie nuove forme di resistenza, a cui dovranno impegnarsi senza riserve coloro che non rinunciano a pensare una politica a venire, che non avrà né la forma obsoleta delle democrazie borghesi né quella del dispotismo tecnologico-sanitario che le sta sostituendo.

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4. A che punto siamo?

20 marzo 2020


Che cosa significa vivere nella situazione di emergenza in cui ci troviamo? Significa, certo, restare a casa, ma anche non lasciarsi prendere dal panico che le autorità e i media diffondono con ogni mezzo e ricordarsi che l'altro uomo non è soltanto un untore e un possibile agente di contagio, ma innanzitutto il nostro prossimo, cui dobbiamo amore e soccorso. Significa, certo, restare a casa, ma anche restare lucidi e chiedersi se l'emergenza militarizzata che è stata proclamata nel Paese non sia, fra le altre cose, anche un modo per scaricare sui cittadini la gravissima responsabilità in cui i governi sono incorsi smantellando il sistema sanitario. Significa, certo, restare a casa, ma anche far sentire la propria voce e chiedere che agli ospedali pubblici siano restituiti i mezzi di cui sono stati privati e ricordare ai giudici che aver distrutto il sistema sanitario nazionale è un crimine infinitamente più grave che uscire di casa senza il modulo di autocertificazione.

Significa, infine, chiedersi che cosa faremo, come riprenderemo a vivere quando l'emergenza sarà passata, perché il Paese ha bisogno di tornare a vivere, indipendentemente dal parere tutt'altro che concorde dei virologi e degli esperti improvvisati. Ma una cosa è certa: non potremo semplicemente ricominciare a fare tutto come prima, non potremo, come abbiamo fatto finora, fingere di non vedere la situazione estrema in cui la religione del denaro e la cecità degli amministratori ci hanno condotto. Se l'esperienza che abbiamo attraversato è servita a qualcosa, noi dovremo reimparare molte cose che abbiamo dimenticato. Dovremo innanzitutto guardare in modo diverso la terra in cui viviamo e le città in cui abitiamo. Dovremo chiederci se ha senso, come sicuramente ci diranno di fare, ricominciare a acquistare le inutili merci che la pubblicità cercherà come prima di imporci, e se non sia forse più utile esser in grado di provvedere da noi almeno ad alcune elementari necessità, invece di dipendere dal supermarket per qualsiasi bisogno. Dovremo chiederci se è giusto salire nuovamente su aerei che ci condurranno per le vacanze in luoghi remoti e se non sia forse più urgente imparare nuovamente a abitare i luoghi in cui viviamo, a guardarli con occhi più attenti. Perché noi abbiamo perso la capacità di abitare. Abbiamo accettato che le nostre città e i nostri borghi fossero trasformati in parchi di divertimento per i turisti, e ora che l'epidemia ha fatto scomparire i turisti e le città che avevano rinunciato a ogni altra forma di vita sono ridotte a non-luoghi spettrali, dobbiamo capire che era una scelta sbagliata, come quasi tutte le scelte che la religione del denaro e la cecità degli amministratori ci hanno suggerito di fare.

Dovremo, in una parola, porci seriamente la sola domanda che conta, che non è, come ripetono da secoli i falsi filosofi, «da dove veniamo» o «dove andiamo?», ma semplicemente: «a che punto siamo?». È questa la domanda a cui dovremo provare a rispondere, come possiamo e dovunque siamo, ma in ogni caso con la nostra vita e non soltanto con le parole.

(Testo richiesto e poi rifiutato dal «Corriere della sera»)

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8. Una domanda

13 aprile 2020


                        La peste segnò per la città l'inizio della corruzione...
                        Nessuno era più disposto a perseverare in quello che
                        prima giudicava essere il bene, perché credeva che
                        poteva forse morire prima di raggiungerlo.

                                     Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53



Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai da più di un mese non cesso di riflettere. Com'è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per formulare questa domanda sono state una per una attentamente valutate. La misura dell'abdicazione ai propri princìpi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà la pena di considerare i punti che seguono non potrà non convenire che - senza accorgersene o fingendo di non accorgersene - la soglia che separa l'umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.

1) Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che - cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi - che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?

2) Abbiamo poi accettato senza farsi troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del Paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore), la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.

3) Questo è potuto avvenire - e qui si tocca la radice del fenomeno - perché abbiamo scisso l'unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall'altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l'ha qui ricordato di recente, le responsabilità della medicina moderna in questa scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.

Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita.

So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l'emergenza non cessano di ricordarci che, quando l'emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il «distanziamento sociale», come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere cancellato.


Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell'uomo. Innanzitutto la Chiesa che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi princìpi più essenziali. La Chiesa, sotto un Papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede.

Un'altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei giuristi. Siamo da tempo abituati all'uso sconsiderato dei decreti di urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è stato superato, e si ha l'impressione che le parole del primo ministro e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come, esaurito il limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le limitazioni della libertà potranno essere, come si annuncia, mantenute. Con quali dispositivi giuridici? Con uno stato di eccezione permanente? È compito dei giuristi verificare che le regole della costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete iuristae in munere vestro?

So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di princìpi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buona fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. Una norma che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.

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10. Nuove riflessioni

«Neue Zürcher Zeitung», 27 aprile 2020


Da più parti si va ora formulando l'ipotesi che in realtà noi stiamo vivendo la fine di un mondo, quello delle democrazie borghesi, fondate sui diritti, i parlamenti e la divisione dei poteri, che sta cedendo il posto a un nuovo dispotismo che, quanto alla pervasività dei controlli e alla cessazione di ogni attività politica, sarà peggiore dei totalitarismi che abbiamo conosciuto finora. I politologi americani lo chiamano Security State, cioè uno Stato in cui «per ragioni di sicurezza» (in questo caso di «sanità pubblica», termine che fa pensare ai famigerati «comitati di salute pubblica» durante il Terrore) si può imporre qualsiasi limite alle libertà individuali. In Italia, del resto, siamo abituati da tempo a una legislazione per decreti di urgenza da parte del potere esecutivo, che in questo modo si sostituisce al potere legislativo e abolisce di fatto il principio della divisione dei poteri su cui si fonda la democrazia. E il controllo che viene esercitato tramite videocamere e ora, come si è proposto, attraverso i telefoni cellulari, eccede di gran lunga ogni forma di controllo esercitata sotto regimi totalitari come il fascismo o il nazismo.

Occorre mettere in questione il modo in cui sono comunicate le cifre relative ai decessi e ai contagi dell'epidemia. Almeno per quanto riguarda l'Italia, chiunque abbia qualche conoscenza di epistemologia non può non essere sorpreso dal fatto che i media per tutti questi mesi hanno diffuso delle cifre senza alcun criterio di scientificità, non soltanto senza metterle in rapporto con la mortalità annua per lo stesso periodo, ma senza nemmeno precisare la causa del decesso. Io non sono un virologo né un medico, ma mi limito a citare testualmente fonti ufficiali sicuramente attendibili. 23 mila morti per Covid-19 sembrano e sono certamente una cifra impressionante. Ma se li si mettono in rapporto con i dati statistici annuali le cose, com'è giusto, assumono un aspetto diverso. Il presidente dell'ISTAT (l'istituto statistico nazionale in Italia), dottor Gian Carlo Blangiardo, ha comunicato qualche settimana fa i numeri della mortalità dell'anno scorso: 647.000 morti (quindi 1772 decessi al giorno). Se analizziamo le cause nei particolari, vediamo che gli ultimi dati disponibili relativi al 2017 registrano 230.000 morti per malattie cardiocircolatorie, 180.000 morti di tumore, almeno 53.000 morti per malattie respiratorie. Ma un punto è particolarmente importante e ci riguarda da vicino. Cito le parole della relazione: «Nel marzo 2019 i decessi per malattie respiratorie sono state 15.189 e l'anno prima erano state 16.220. Incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020». Ma se questo è vero e non abbiamo ragione di dubitarne, senza voler minimizzare l'importanza dell'epidemia bisogna però chiedersi se essa può giustificare misure di limitazione della libertà che non erano mai state prese nella storia del nostro Paese, nemmeno durante le due guerre mondiali. Nasce il legittimo dubbio, per quanto concerne l'Italia, che diffondendo il panico e isolando la gente nelle loro case si sia voluto scaricare sulla popolazione le gravissime responsabilità dei governi che avevano prima smantellato il servizio sanitario nazionale e poi in Lombardia commesso una serie di non meno gravi errori nell'affrontare l'epidemia. Quanto al resto del mondo, credo che ogni Stato abbia modalità diverse di usare ai suoi fini i dati dell'epidemie e di manipolarli secondo le proprie esigenze. La consistenza reale dell'epidemia si potrà misurare solo mettendo ogni volta in relazione i dati comunicati con quelli statistici sulla mortalità annua per malattia.

Un altro fenomeno da non lasciarsi sfuggire è la funzione svolta dai medici e dai virologi nel governo dell'epidemia. Il termine greco epidemia (da demos, il popolo come entità politica) ha un immediato significato politico. Tanto più pericoloso è affidare ai medici e agli scienziati decisioni che sono in ultima analisi etiche e politiche. Gli scienziati, a torto o a ragione, perseguono in buona fede le loro ragioni, che si identificano con l'interesse della scienza e in nome delle quali - la Storia lo dimostra ampiamente - sono disposti a sacrificare qualunque scrupolo di ordine morale. Non ho bisogno di ricordare che sotto il nazismo scienziati molto stimati hanno guidato la politica eugenetica e non hanno esitato a approfittare dei lager per eseguire esperimenti letali che ritenevano utili per il progresso della scienza e per la cura dei soldati tedeschi. Nel caso presente lo spettacolo è particolarmente sconcertante, perché in realtà, anche se i media lo nascondono, non vi è accordo fra gli scienziati e alcuni dei più illustri fra di essi, come Didier Raoult, forse il massimo virologo francese, hanno diverse opinioni sull'importanza dell'epidemia e sull'efficacia delle misure di isolamento, che in un'intervista ha definito una superstizione medievale. Ho scritto altrove che la scienza è diventata la religione del nostro tempo. L'analogia con la religione va presa alla lettera: i teologi dichiaravano di non potere definire con chiarezza che cos'è Dio, ma in suo nome dettavano agli uomini delle regole di condotta e non esitavano a bruciare gli eretici; i virologi ammettono di non sapere esattamente che cos'è un virus, ma in suo nome pretendono di decidere come devono vivere gli esseri umani.

Se lasciamo l'ambito dell'attualità e proviamo a considerare le cose dal punto di vista del destino della specie umana sulla Terra, mi vengono in mente le considerazioni di un grande scienziato olandese, Louis Bolk. Secondo Bolk, la specie umana è caratterizzata da una progressiva inibizione dei processi vitali naturali di adattamento all'ambiente, che vengono sostituti da una crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per adattare l'ambiente all'uomo. Quando questo processo sorpassa un certo limite, esso raggiunge un punto in cui diventa controproducente e si trasforma in autodistruzione della specie. Fenomeni come quello che stiamo vivendo mi sembrano mostrare che quel punto è stato raggiunto e che la medicina che doveva curare i nostri mali rischia di produrre un male ancora più grande.

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15. Requiem per gli studenti

24 maggio 2020


Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall'anno prossimo online. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.

Non c'interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l'elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell'insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale,

Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti - universitates - e a queste devono il loro nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente lo studio e l'ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l'incontro e l'assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del Medioevo ai movimenti studenteschi del Novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un'aula universitaria sa bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca, che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.

Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede l'università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.

Di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:

1) I professori che accettano - come stanno facendo in massa - di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente online sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.

2) Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all'origine, costituirsi in nuove universitates, all'interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere - se nascerà - qualcosa come una nuova cultura.

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