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| << | < | > | >> |Pagina 9Il cane graffiava contro la porta a vetri. Il sole colpiva i rami degli alberi e rimbalzava incandescente sulle foglie; un fascio di luce vi perciava in mezzo fino agli argenti sulla credenza alla parete. Tito si tolse le sbavature di salsa intorno alla bocca. Passava e ripassava il bordo del tovagliolo sulle labbra serrate, come in un massaggio; poi stese il quadrato di lino sulle gambe e lo lisciò con il palmo delle mani. Suo figlio Santi era di fronte a lui, all'altro capotavola, come nelle sedute del consiglio d'amministrazione del pastificio: bastava un'occhiata per capirsi al volo; alla destra del figlio, la zia. Tito indugiò con lo sguardo su ognuno dei cinque nipotini. Un giorno anche loro avrebbero partecipato a quelle sedute insieme a lui: in fondo era giovane, compiva sessant'anni. "A che pensi, nonno?" gli chiese Titino, sempre all'erta. "Penso che sono contento," rispose, e aggiunse rivolgendosi agli altri: "Vorrei fare un brindisi con l'acqua, tutti insieme, grandi e piccoli". "Ma i bambini non hanno ancora finito la pasta!" Mariola, la moglie, scosse la testa, affrettandosi però a versare da bere. Poi, con un cenno, diede il via. Tenendo alto il bicchiere, Tito aspettò che fossero tutti pronti. Puntò gli occhi sulla zia e disse: "Brindiamo alla zia e alla nonna, a cui devo il più bel regalo di questo compleanno: la mia famiglia!".
Fu tutto un truzzare di bicchieri, ripetuto varie volte per
accontentare i più piccoli, affascinati da quel nuovo gioco.
Esaurito dallo sforzo del brindisi, Tito distribuì timidi sorrisi e poi tornò ai
suoi gradevoli pensieri.
A quel tavolo pranzava da quando aveva imparato a destreggiarsi con coltello e forchetta, il padre da una parte, lui e la zia dal lato opposto, sotto i barbagli del grande lampadario di ferro battuto a dieci bracci. Tito era intimidito, chiusi com'erano fra gli enormi candelabri da un lato – immobili commensali – e il centrotavola d'argento dall'altro. Poi ci si era abituato. Ogni giorno, nella tarda mattinata, cominciava a pregustare quel momento di intimità familiare. Le pietanze erano sempre una sorpresa, ma sapeva che solitamente la zia faceva preparare quello che piaceva a lui – il padre lo costringeva ad assaggiare tutto e a finire quello di cui si era servito – e spesso andava anche oltre: ogni qual volta il padre lo rimproverava, gli faceva trovare i suoi piatti preferiti. Tito era certo che fosse il suo tacito modo per esprimere disapprovazione nei confronti della severità del fratello e dare conforto al nipote. La zia ora stava dicendo qualcosa a Sandra e non si accorgeva di essere guardata; con un leggero sospiro, Tito attaccò le triglie alla livornese, di cui era ghiotto. Se ne mise in bocca una abbondante forchettata. La polpa soda del pesce freschissimo si amalgamava alla perfezione con il condimento di pomodoro e cipolle; ogni sapore rimaneva distinto, anche quello del prezzemolo sparso generosamente a fine cottura. Pure sua moglie lo viziava a tavola. Tito la guardò: nemmeno lei gli dava conto, aiutava la piccola Daniela a infilzare il pesce con la forchetta. Le triglie dei bambini erano state pulite in cucina, ma Mariola temeva che fosse rimasta qualche spina. Vera, capricciosa, andava avanti lentamente, a piccoli bocconi. Sandra mangiava svogliata: ascoltava la conversazione degli adulti, curiosa. Marò parlava con foga, la bocca piena. Daniela chiedeva a gran voce dell'altro pesce. Titino teneva gli occhi fissi sul piatto, tutto compunto. Tito mentalmente affibbiava a ciascuno un nomignolo, prendendo ispirazione dalle varietà di pasta illustrate nella brochure su carta lucida appena realizzata dal direttore commerciale: settanta formati. Avrebbero dovuto prepararne un'altra sui procedimenti di pastificazione ed essiccazione: i mercati esteri richiedevano informazioni sul processo produttivo per concertare la comunicazione commerciale. Ne avrebbe parlato a Santi l'indomani mattina. "Ti compiaci anche tu di questi nostri bei figli e nipoti?" gli chiese all'improvviso Mariola. "Veramente pensavo alla nuova brochure del pastificio, è davvero bella. Ho dato a ogni nipote un nome preso dai diversi formati di pasta, mi sembrano tutti azzeccati! Titino, a cui piacciono le auto d'epoca del nonno," disse abbracciandogli le spalle, "è – cos'altro poteva essere? – Ruote!" "E Marò, che pasta è?" incalzò il bambino. "Marò la chiacchierina è Linguine. E Daniela, che è piccola, Lingue di passero. Vera, che mangia come una formichina, si chiama Bocconcini. Sandra sta sempre con le orecchie tese, quando noi grandi parliamo... Orecchiette!" La zia non riusciva a seguire, ma Santi le sussurrava ogni nomignolo, prontamente accolto da gridolini e risate; lei rideva beata, lo sguardo fisso sul nipote. "E dire che noi non pensavamo che tuo padre avesse uno spiccato spirito di osservazione!" bisbigliò a Santi. "Pastificio e famiglia, le sue passioni!" fece lui, e poi disse ad alta voce: "Papà, ci scommetto che anche noi abbiamo dei nomi". "Certamente, ma a voi do solo i numeri del catalogo." La bocca mezza piena di pesce, Antonio alzò la mano. "Escludimi, io non ricordo nemmeno i cataloghi dei miei clienti!" "Idem per me!" si affrettò ad aggiungere l'altro genero, Piero. E cominciò una sorta di tombola, in cui Tito dava a ciascuno un numero che questi smorfiava al volo, nell'ilarità generale: "Mariola, 56...". "Ditalini!" "Elisa, 33..." "Verrine!" "Santi, 35..." "Penne rigate!" La zia si era scostata dalla spalliera, i polsi poggiati sulla tovaglia, anche lei pronta a partecipare al gioco. Tito esitò. Un battito di palpebre di Santi e la tombola riprese: "Zia Rachele, 40..." "Anelletti!" gridò quella, pispisa come le bambine. Poi bisbigliò a Santi: "La memoria mi funziona ancora bene!". Ne mancava soltanto una. E Teresa, la figlia maggiore, non seppe che rispondere quando il padre le disse: "39!". "È nel consiglio d'amministrazione e non conosce la pasta che produce..." si rummuliò Tito, e chiuse la parata con un sospiro lasciando Teresa con il suo numero nudo, senza nome. Mariola stava per intervenire, ma non ce ne fu bisogno: in quel momento Sonia, la cameriera, fece il suo ingresso trionfale nella stanza da pranzo con la torta su un vassoio d'argento. "E io che pasta sono?" mormorò Vanna, seduta alla destra del suocero. "Tu sei 27." "Che c'entro io con Capelli d'angelo?, li porto cortissimi!" obiettò lei. "È la mia pasta preferita, ma tienilo per te." E i loro sguardi si incrociarono ridenti. | << | < | > | >> |Pagina 61Alla villa il pasto di mezzogiorno, quello forte, era sacro: famiglia soltanto. Figli e nipoti erano ospiti frequenti e graditissimi; non c'era bisogno di invito. Anche a cena erano sempre e soltanto loro. Cenavano frugalmente da soli. Sonia apparecchiava e lasciava le verdure cotte sulla credenza, coperte da un piatto per mantenerle tiepide; sarebbe tornata a fare le pulizie la mattina seguente. Mariola portava a tavola il pane e le altre pietanze: formaggi, insalata, prosciutto e i resti del pranzo. Il menu subiva poche variazioni stagionali. Era un'abitudine di casa: il padre e la zia di Tito avevano sempre fatto così.
Dopo cena, Mariola guardava la televisione in camera da
letto e augurava la buonanotte a ciascun figlio e nipote. Poi
ricamava o sferruzzava, secondo la stagione: c'era sempre
qualcosa in cantiere per i bambini. Tito andava al secondo
piano, dove viveva la zia, e chiacchieravano della giornata;
poi saliva nella Stanza di Nuddu, nella torretta: il suo rifugio. Lì faceva le
sue cose: aggiustava meccanismi di orologi,
riordinava fotografie, sfogliava riviste di auto d'epoca.
Le donne di casa erano in agitazione per l'invito a Dante e Irina. Ma la preparazione del pasto – "Mangiano aglio, questi?" "Meglio non aggiungere peperoncino!" "Ce lo mettiamo il marsala?" "Il sapore d'acciuga può non piacere!" –, la scelta del servizio di piatti, dei bicchieri e della tovaglia parvero facili a paragone di quella del vestiario. A giudicare dalla deferenza dimostratale dai figli, si sarebbe detto che Mariola fosse una madre autoritaria, in realtà con lei i ragazzi avevano semplicemente seguito l'esempio del padre, figlio ligio e rispettoso: quello che dice un genitore è un ordine. Con il passare degli anni, tra madre e figlie si era instaurato un rapporto di subordinazione all'inverso sulle questioni legate all'apparire, cui attribuivano somma importanza; tutte e tre adoravano i vestiti. Erano Elisa e Teresa a suggerire gli acquisti di Mariola e a dare il giudizio finale: le spese poi, le facevano quasi sempre assieme, in paese, come pure – in occasione dei viaggi – per il rinnovo del guardaroba stagionale. E non soltanto perché la madre pagava anche per loro. In occasione di quell'invito, scelsero per lei un tailleur che non la snelliva, con sotto un top dalla scollatura profonda. Irina si presentò senza gioiello alcuno: aveva un accenno di abbronzatura ed era semplicemente radiosa. Mentre Santi le mostrava un quadro di Lojacono, Mariola le ammirava il collo lungo e il perfetto décolleté. La sua mano scivolò sulla catena del grosso ciondolo di agata e oro, regalo di Natale di Tito. Era lenta. Mariola abbassò gli occhi: il ciondolo le si era arenato tra i seni. Cacciò indietro lagrime umiliate e continuò con i suoi compiti di padrona di casa. Dante volle visitare tutta la rappresentanza. I complimenti degli ospiti confortarono non poco Mariola, che da giovane sposa aveva odiato le mura rivestite da pannelli, le carte da parati a disegni scuri, le vetrate multicolori che lasciavano entrare poca luce, le poltrone dure, i soffitti affrescati in stile floreale e i mobili costruiti a misura di parete e incastrati nel lambrì. Avrebbe desiderato cambiare l'arredamento e dare una rinfrescata alle pareti, ma non aveva mai osato proporlo al suocero e nemmeno al marito. Mariola era rispettosa delle proprietà di Tito e sapeva di aver avuto dai genitori soltanto una modesta eredità. La villa era stata disegnata da un famoso architetto modernista, insieme alla mobilia e agli arredi: l'originario proprietario era andato in bancarotta per quella stravaganza, e la casa si era poi conservata intatta per fortuite e tragiche circostanze. Il nonno di Tito l'aveva comprata per la prima moglie e a scopo di lucro: intendeva lottizzare la fascia di terreno che la univa al paese, parte di un grandioso giardino che non fu mai. La seconda moglie non volle andarvi e la casa era rimasta disabitata. Mademoiselle, che amava nuotare, insistette perché vi andassero almeno nei mesi estivi. Durante la guerra, sfollarono lì e vi ospitarono le monache di San Vincenzo. Dopo la nascita di Tito, la zia vi si trasferì definitivamente e volle lasciarla com'era. Quando il Liberty era tornato di moda, Tito aveva seguito personalmente i restauri. "È un gioiello!" gli disse Dante. "Non oso nemmeno chiederti di fotografarla!"
"L'ho fotografata tutta io!" rispose lui, orgoglioso.
Dante e Irina sapevano come rendersi graditi: lei chiese la ricetta del falso magro e delle zucchine ripiene; lui riuscì a far sorridere Mariola più di una volta. E poi parlava più di tutti, seguito da Santi e Vanna. Antonio, un brav'uomo di gusti semplici, si divertiva ad ascoltare; di tanto in tanto, diceva la sua. Elisa, taciturna, lanciava lunghe occhiate a Irina e alla sorella, che discutevano animatamente del trasferimento in Toscana; poi posava lo sguardo sul cognato. Piero parlò pochissimo. I suoi occhi stretti convergevano furtivi sul corpo di Irina, come l'ago di una bussola. Gli ospiti lasciarono la villa a tarda notte. La serata era stata un gran successo e aveva confermato a Tito che fra lui e Dante c'era una vera sintonia: ammiccavano, ridevano per le stesse cose, come d'intesa, e conversavano con gran piacere.
Come Santi ebbe a dire a Vanna l'indomani: "Papà aveva bisogno di un amico:
sembravano due innamorati".
Mariola non stava più in piedi dal sonno ed era andata subito a letto. Tito fumava in giardino, e pensava. La sua famiglia era diventata gentuzza: goffi, paesani, privi di stimoli intellettuali. Tutt'altra cosa rispetto alle precedenti generazioni. Non se ne dava pace. Il nonno era stato un personaggio politico rispettato nella provincia e introdotto nei circoli: aveva sposato bene, ambedue le volte. Il padre, dopo la licenza liceale, aveva intrapreso con successo la carriera militare. La zia aveva studiato in un ottimo collegio. D'inverno la famiglia viveva a Palermo e frequentava la buona società. Avevano casa anche a Roma. Ma lui era stato educato in modo diverso: in casa fino agli undici anni – prigioniero nella villa – e poi in un mediocre collegio, nell'isola. Tito sapeva di aver ereditato i modi signorili del padre e le buone maniere della zia, solo che non aveva avuto occasione di usarli con i suoi pari: in casa non si riceveva e lui non aveva fatto amicizie in collegio o all'università, e nemmeno dopo. Rimpiangeva di non essere stato spinto a frequentare di più: ma la sua nascita rappresentava uno svantaggio sociale e il padre non voleva che fosse umiliato, mai. Tito invidiava Dante, che non si vergognava di essere illegittimo. Goccia a goccia, lui aveva assorbito l'orgogliosa paura del padre e adesso era troppo tardi per emulare Dante e scrollarsi di dosso quel disonore. Tito però non voleva che i nipoti crescessero zavurdi e che i figli si imbarbarissero. Lui, nonostante l'età, aveva desiderio di nuove esperienze ed era pronto a cambiare. Dante era come un soffio di aria fresca. Gettò il mozzicone di sigaro nell'aiuola e si avviò verso casa. Le persiane di Dana erano serrate. Quelle della zia erano socchiuse, a lei piaceva un filo di luce in camera. Tito si chiese perché la zia, estroversa e vivacissima nei racconti di Dante, si fosse rintanata ventunenne nella villa e perché suo padre l'avesse assecondata, trascinando nel contempo lui in quello che ora gli appariva come un baratro sociale.
Quando entrò in camera, Mariola dormiva sodo, con la
luce accesa. Non si era nemmeno struccata. Tito vide le sottili sbavature di
mascara che le frangiavano le guance paffute.
Con uno sguardo pietoso e non privo di affetto, Tito si ficcò sotto le lenzuola. | << | < | > | >> |Pagina 163"Sei sicuro che sia la strada giusta? Non vedo anima viva," diceva Tito arrancando. Dante aveva insistito che bisognava andarci a piedi. Né la guida né i passanti a cui avevano chiesto indicazioni erano stati chiari su come raggiungere le Macalube. Seguivano un sentiero invaso da erba stentata. Dante andava spedito, carico di macchine fotografiche, dimentico di avere un compagno.
Abbandonò il sentiero e procedette a grandi passi sulle
zolle rivoltate. La terra era dissestata, poi divenne sconvolta. Non c'era
traccia di vegetazione e nemmeno di insetti. Tutto taceva. Più si avvicinavano,
più prendeva corpo una piattaforma ondulata con dei pinnacoli neri. Dante
prese a correre.
Era sul gradone del deposito più recente: una distesa di argilla bluastra coperta da un reticolo di crepe fresche e dalla quale emergevano decine di neri coni eruttanti, la riproduzione su minuscola scala di un paesaggio vulcanico. Dante si sentiva un gigante. Il cielo era solcato in lungo e in largo da stormi di uccelli in formazione: deviavano per evitare le Macalube. I coni erano di tutte le forme e misure, alti, schiacciati, tozzi, esili, panciuti. Ognuno aveva il proprio ritmo, secondo la frequenza dell'emissione di argilla mista a metano che usciva dalla bocca e colava da un solo cedimento del bordo. Anche le colate erano diverse per portata, densità e velocità. Una, incanalata nell'argilla soffice, seguiva un percorso tortuoso apparentemente senza fine. Alcune si congiungevano come fiumare confluenti; altre si allargavano in polle minuscole, altre correvano ripide e scomparivano in spaccature profonde, altre ancora si coagulavano in molle argilla. Dante, da un vulcanello all'altro, seguiva un percorso immaginario. L'argilla rigurgitata si era solidificata alla base di un cono sottile, creando un argine; la colata, lentissima, non si incanalava. Densa, si ripiegava invece su se stessa, in pieghe lisce e lucide, come lo strascico di raso di una sposa nerovestita che, con un gesto del braccio, lo sollevi e lo lasci ricadere leggiadro al proprio fianco. Un altro cono – basso e a bocca larga – eruttava acqua quasi limpida. Una farfalla, attratta da quel gorgoglio invitante, sbatteva frenetica le ali maculate di marrone. Il bordo vischioso del cratere minacciava l'imprudente sosta. Con rinnovata energia, la farfalla riprese a sbattere le ali e volò via.
Dante assaggiò l'acquetta del cratere. Anche Tito vi immerse un dito,
dubbioso. "Amara, salata!" esclamò disgustato.
Scendevano dal lato opposto. La vista era desolata, grigia e priva di colore come la superficie della luna. Il nuovo gradone poggiava grumoso sull'argilla rigurgitata dal deposito della precedente eruzione, come il guano scuro di un uccello gigante del quale si pascevano neri mosconi. Si individuavano bene i vecchi gradoni che scendevano in basso; in svariate tonalità di grigio, a seconda della vetustà, erano spennellati di strisce di sale cristallizzato che luccicavano sotto i raggi del sole. Fenditure profonde, strette e lunghissime, formavano grandi riquadri, a loro volta suddivisi in altri, e altri ancora, ognuno attraversato da crepe fitte e sottili, come la pelle rugosa di un vecchio. Anche lì c'era vita. Come pus, fughe di acqua e metano si sprigionavano ancora dalle bocche di coni erosi e formavano polle di melma di diversa grandezza. Ogni polla tremolava, palpitante. Era come se sotto terra ci fosse un'immensa bolla di gas che voleva affiorare. La superficie, lucida e densa, opponeva resistenza, poi cedeva ed eruttava; la colata debordava e seguiva l'antica incanalatura. Più in alto, una distesa di grandi polle di fango – a forma di imbuto, la parte interna profondissima – gorgogliavano placide. Il gas affiorava in piccole bolle e la melma si allargava attorno in cerchi concentrici dalle diverse gradazioni di grigio. L'argilla, apparentemente solidificata ai bordi, era traditrice: simile alle sabbie mobili, inghiottiva gli incauti.
Sul livello inferiore, tuttora sconvolto dalle eruzioni,
spuntavano – rade – le piante assuefatte alla salinità. Lì le
falde di argilla, costrette in pieghe e contorsioni, avevano
creato dei valloni. Alcuni erano diventati stagni d'acqua
piovana e rifugio di uccelli. In altri c'erano laghi piccoli e
stretti; profondissimi, venivano alimentati da acque sotterranee.
Piovigginava. Aspettando che schiarisse, Dante e Tito guardavano dall'alto uno di questi laghetti. Era fiancheggiato da pareti nude e rugose. Il giallo ocra dell'argilla contrastava con le sfumature blu scuro dell'acqua che culminavano in nero pece, sopra la profonda spaccatura da cui affiorava la vena, come la pupilla di un occhio. Stupendo ma letale: le emissioni di gas alla superficie sopraffacevano chiunque si avvicinasse. Dante inspirava. "Siamo sulla crosta della terra. Le sue viscere esalano odore di vita e di morte, come gli odori del nostro corpo: quello unto dei capelli, quello salato della pelle calda, quello acido della cavità dell'orecchio. Ma anche sentori diversi, agri, che sanno di pesce e perfino di marcio e che risvegliano gli istinti. C'è qualcosa di sacro, qui." Tito non lo capiva. A lui le Macalube non piacevano. Due cani scendevano correndo da un'altura. Cambiarono direzione e deviarono verso di loro. Si fermarono. Seduti sulle zampe posteriori, ansavano assetati – il muso girato verso le polle. Non osavano scendere a bere; guardavano gli uomini e aspettavano l'ordine. Puntavano gli occhi sull'acqua, poi sugli uomini – le mandibole aperte, le lingue penzoloni – e poi di nuovo acqua-uomini-acqua. Quindi, all'unisono, si rizzarono sulle zampe e scapparono via nella direzione da cui erano venuti. "A un nostro cenno, sarebbero discesi in quell'inferno di metano e avrebbero bevuto," osservò Dante. E poi aggiunse, piano, come se pensasse ad alta voce: "Sono come i bambini: fiduciosi e bisognosi di affetto. Il tradimento li ferisce più della violenza fisica, eppure continuano ad amare chi li offende".
Tito si alzò di scatto e si diresse verso la collina da cui
erano sbucati i cani. Camminava in linea retta, senza guardare dove metteva i
piedi. Inciampava sulle pietre, sprofondava in pozze di fango, saliva su crateri
spenti, attraversava rigagnoli, sbriciolava zolle di terra sotto le suole. Quasi
sbatté contro la recinzione di filo spinato. Oltre, le pieghe della terra erano
coperte di pascoli, come un mare di onde dolci e
verdi. Il vento trasportava il frinire delle cicale, il brusio degli insetti e
un tenue profumo di erba. Più lontano, le bianche groppe di un gregge; lente, le
pecore si inerpicavano brucando, seguite dal pastore e dai due cani di prima. Le
nuvole correvano nel cielo. Timido, appariva il sole. Tito sentiva il suo tepore
e capiva che, come le Macalube si trasformavano in pascolo, così il bambino
tradito dentro di lui doveva farsi uomo.
Lontano da casa e solo, Tito cresceva. Lagrime rade gli scorrevano sulle
guance. Il vento gliele asciugava, a una a una.
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