Autore Simonetta Agnello Hornby
Titolo Caffè amaro
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2016, Narratori , pag. 350, cop.fle., dim. 14x22x2,7 cm , Isbn 978-88-07-03183-0
LettoreAngela Razzini, 2016
Classe narrativa italiana












 

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Indice


  9  1. Un innamoramento d'altri tempi
 16  2. Una giornata che lascia tutti perplessi
 19  3. Colpo di fulmine
 25  4. Dopo ogni notte buia sorge il sole
 33  5. Vuttara
 41  6. Le tre industrie siciliane
 52  7. La farfalla
 58  8. Un frutto mai assaggiato
 66  9. Un inconsueto accordo prematrimoniale
 70 10. Nuda e cruda

 75 11. Biscotti all'anice
 80 12. Lo specchio rotto
 86 13. Maria lo piglia amaro
 90 14. Gli acquisti del corredo
 96 15. La madre di Pietro
103 16. Pizzo di Bruxelles
107 17. Il matrimonio
113 18. Maricchia pensa
117 19. Viaggio di nozze
125 20. Un viaggio di nozze felice che rischia di finire male

137 21. Ritorno in Sicilia
147 22. La nascita di Anna nella casa di Girgenti
156 23. Ogni giorno ha qualcosa di bello
160 24. Villeggiatura a Fuma Vecchia
163 25. Diseredato
171 26. Leggere e scrivere
177 27. 1914. Capodanno a Tripoli
193 28. I dolci dei Morti
199 29. "E la bella Trinacria... per nascente zolfo"
208 30. Fegato alla veneziana e frittella per Giosuè

217 31. Al vero amore si perdona tanto
223 32. Il nostro è un solo destino
230 33. Ricatto
238 34. "Son lo spirito che nega"
244 35. "Ora veni lu patri tò"
249 36. 1935. Date oro alla patria
254 37. Lettera da Buenos Aires
257 38. L'"Almanacco della donna italiana"
266 39. Credere, obbedire, combattere

270 40. Via San Callisto
279 41. La morte di Pietro
284 42. Le lettere di Giosuè
291 43. Scirocco
298 44. I bagni ebraici a Casa Professa
305 45. 9 Maggio 1943. Sotto le bombe
310 46. All'opera dei pupi
319 47. Una passeggiata insieme per Palermo
324 48. Voluta e amatissima
331 49. 1948. La visita di Ruben

341 Indice dei personaggi principali

343 Nota dell'autrice

347 Ringraziamenti


 

 

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Pagina 9

1.
Un innamoramento d'altri tempi



Alta e lucida come il carro di santa Rosalia, la Isotta Fraschíni saliva rombando lungo la via Grande, una strada che attraversava serpeggiando il paese di Camagni. Sotto la capote di tela impermeabile, Pietro Sala era alla guida — berretto di cuoio nero, giacca turchina pesante, occhialoni e sciarpa — con Leonardo a lato, anche lui con berretto, occhialoni e spolverino grigio doppiopetto. A ogni curva l'automobile sembrava sfiorare i muri delle case: dietro le persiane, molti occhi attoniti.

La via Grande si era spopolata. Bestie da soma cariche di provviste e merci erano state legate in fretta e furia agli anelli lungo le scale che tagliavano la strada. Come formiche impazzite, la gente, le carriole, i calessi e le carrozze avevano cercato rifugio. Gli androni gentilizi erano affollati di estranei, e così l'interno e le soglie delle putìe; i carrettieri avevano accostato i carri ai muri e gettato una coperta sulla testa dei muli. Di tanto in tanto arrivavano ragli isolati e grida di scimuniti. I cani erano all'erta. Le scale esterne delle abitazioni e le scalinate delle chiese si erano trasformate in palco e rifugio.

Al passaggio della macchina spinta da energia inanimata gli alunni del Convitto Nazionale, stipati nei balconi del collegio, diedero il via a un entusiastico battimani. Bastò quello per far tornare la normalità. I cani abbaiavano. La gente si riversava in strada, curiosa. I ragazzini seguivano l'automobile incuranti del fumo che bruciava occhi e gola. Cu sunnu i forasteri? Cu ci purta? Unni vannu? Che razza di machina è? All'ultima curva la Isotta Fraschini rallentò; poi riprese velocità e raggiunse la piazzetta su cui si apriva il seicentesco palazzo Tummia.

In piedi davanti alla portineria, svuotata per l'occasione dalle graste e pulitissima – pavimento lucido, fresco odore di liscivia –, don Totò era pronto a dare il benvenuto al cognato del padrone, il barone Peppino Tummia. Un ruggito del motore, una sterzata, e la Isotta Fraschini fu oltre il portone. Pietro balzò a terra. Dopo un saluto veloce a don Totò e ai garzoni, infilò la scala che portava al piano nobile, lasciando Leonardo, madido di sudore e imbarazzato, a raccontare le mirabolanti avventure del viaggio da Fara alla piccola folla ammirata che a poco a poco si ingrossava attorno a lui e all'automobile. "Insomma, ti piaci 'sta machina?" chiese don Totò. Leonardo gli lanciò una lunga taliata, poi si sbottonò la palandrana che lambiva le scarpe rivelando, sotto, l'uniforme di cocchiere: "Nonzi. Cocchiere dei Sala nascìu, come don Ciccio mio padre, e cocchiere sugnu!".


La camera da letto dei baroni Tummia era divisa in due ambienti: da una parte la stanza da letto vera e propria – dove Caterina, la cameriera della baronessa, aveva fatto entrare Pietro – e dall'altra, nascosto da un tendone rasente l'alcova, un salotto che chiudeva la fuga delle sale di rappresentanza del palazzo. Appoggiata ai guanciali e vestita di tutto punto, Giuseppina Tummia lavorava all'uncinetto. Alla notizia dell'arrivo del fratello si era raddrizzata, aveva posato il lavoro sul letto e, pudica, si era coperta con lo scialle i piedi scalzi. "Pietru', beati gli occhi che ti vedono... era da tanto che non venivi."

Pietro, disinvolto, si era seduto sul bordo del letto e parlava fitto per non lasciare alla sorella maggiore l'opportunità di fargli domande e, soprattutto, di rimproverarlo. Invano.

"Non capisco come nostro padre ti abbia permesso di venire in automobile. Le strade non sono adatte! Non devi guidare: è pericoloso per te e per i cani. Si spaventano e si fanno ammazzare. Se l'automobile sbanda, ci muori anche tu!"

"È il prezzo del progresso. Chi va a cavallo corre il rischio di una caduta, se non peggio. E poi ricordati che io sono fortunato... lo sarò anche con le automobili. La Isotta Fraschini si è fatta onore alla Targa Florio dell'anno scorso, è una macchina affidabile. Ti garantisco che non ci morirò!" Pietro prese la mano della sorella e depose un bacio sul dorso. "Tuo marito mi ha fatto sapere che Fuma Vecchia è in vendita e che se ne occupa vostro cognato, Ignazio Marra: ho appuntamento con lui stamattina. Ne voglio fare una riserva di caccia, e ho pensato di trasformare la torre in casa di villeggiatura. Saremo vicini di casa, ci vedremo spesso."

"Dopo il primo entusiasmo, la abbandonerai come facesti con la casa di Palermo, arredata con i mobili di Ducrot! Quanto ci sei rimasto? Due, tre mesi? Tu stai bene solo a Montecarlo!" Giuseppina fissava il lavoro a uncinetto e scuoteva la testa. "Un altro capriccio!" E poi: "Mamà come sta?".

"Al solito: beata tra le sue monachelle a fare mantelline all'uncinetto, come te." Lo disse con una smorfia indecifrabile, e parve contrariato; poi prese congedo dalla sorella e la rassicurò che sarebbe ritornato all'ora di pranzo.


Il venticello insistente, incanalato tra le muraglie di case, infastidiva i passanti che si muovevano cauti, all'apparenza incuranti dello sconosciuto che camminava a testa alta e passo spedito.

"'Mericano?" chiese la biscottara.

"Nonni. Italiano deve essere," rispose la nipote.

"Che vuole cà?"

"'Nnu sacciu," fece la nipote distratta.

"Meglio 'mericano ca italiano. Quelli portano moneta, l'autri ce la rubano con i tassi!"

"Meglio assai!" fece una cliente, che aveva comprato un coppo di ciambelle. "I figli masculi c'arrubbano, 'sti italiani, a noi puvareddi! Vossia si addimenticò dei bei masculi arrubbati dalla leva militare e dalla guerra d'Affrica!"


La portineria di casa Marra sembrava deserta. La targhetta AVVOCATO IGNAZIO MARRA era avvitata sulla porta d'ingresso interna. Ad aspettare Pietro non c'era nessuno. Dal buio emerse una mano; roteando l'indice, gli fece cenno di proseguire per le scale fino al secondo piano; poi il pollice dritto fece segno di suonare il campanello.

Il profumo del gelsomino era dolce. Pietro aveva un olfatto finissimo: a ogni respiro gli calava dentro un senso di benessere. Passi in discesa, poi silenzio. Sul pianerottolo, tralci rigogliosi di fiori bianco-rosati cadevano a frangia sulla finestra spalancata. Nell'angolo, appiattito, un giovane dai capelli scuri fissava intensamente un punto nel cortile; quando vide Pietro si riscosse, sollevò il cappello e riprese a scendere.

Lo studio dell'avvocato Ignazio Marra era severo: vetrine stipate di volumi e faldoni, scrivania e sedie di legno scuro. Due stampe ne rivelavano l'appartenenza politica: un anziano Francesco Crispi dai baffi spioventi e Giuseppe Mazzini da giovane, pensieroso. L'incontro d'affari fu rapido – Pietro accettava la cifra richiesta dal venditore e avrebbe visitato la torre prima di confermare l'acquisto di Fuma Vecchia – e i due erano già pronti al commiato. In quel momento si sentì un gran vuciare di bambini; saliva dalla finestra e Pietro, curioso, si sporse fuori. "Complimenti! Mi aspettavo il solito cortile interno e invece vedo una quantità di piante e angoli di conversazione! Siete stato voi?" Pietro aveva assunto il tono familiare di chi parla con il cognato della propria sorella.

Non possedendo una casa di villeggiatura, Ignazio aveva trasformato il cortile in un rifugio ameno in cui si stava al fresco in estate, si ricevevano le visite e i figli potevano giocare. "Le piante, crescendo, si sono 'mangiate' il cortile." Fiero, illustrava dall'alto la sua creazione. "Ho lasciato un corridoio di disimpegno lungo l'intero perimetro, su cui si aprono le stanze di servizio e la sala da pranzo. Contro i muri ho messo dodici piante di gelsomino rampicante; crescendo hanno raggiunto le finestre interne: il profumo mi fa sentire in campagna, e in più tiene lontane le zanzare!" Al centro del cortile aveva fatto costruire un gazebo, in quella stagione coperto di rose, da cui partivano quattro vialetti bordati da siepi di bosso. "L'unico capriccio che mi sono concesso è la vetrata in stile moderno della sala da pranzo." E la indicava, faceva da sfondo alla rotonda di mattoni rossi arredata con tavoli, sedie e panchine di ghisa, graste contenenti alberi e arbusti e due statue di donne ignude. Sotto lo studio, un giardinetto di piante aromatiche – lavanda rosmarino salvia origano citronella e arbusti di alloro diventati veri e propri alberi – con al centro un giovane pergolato di glicine, alla cui ombra due donne erano intente a ricamare una tovaglia. L'orto era davanti alla cucina: graste di prezzemolo, menta e basilico, una stretta aiuola rettangolare di melanzane in fiore e una folta macchia di banani. Grazie alla posizione sopraelevata, Ignazio leggeva con orgoglio ogni dettaglio del giardino. Tra le grandi foglie, in piedi, stava una vecchia – probabilmente un'antica persona di casa – in abito blu scuro, cuffia bordata di merletto e grembiule di cotone blu chiaro. Pietro l'aveva già notata prima: stendeva fazzoletti umidi sull'alloro senza assicurarli ai rami. Ignazio indicava intanto due cerchi concentrici. Quello interno era formato da alberi di agrumi dal fogliame lucido – tra cui erano appese a festone le corde per stendere la biancheria –, mentre quello esterno era un pergolato di uva da tavola. "Per nascondere la vista della roba stesa ad asciugare!" spiegò. Poi, con un "mi scusi", si rivolse al portiere che aspettava di consegnargli un biglietto.

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Pagina 70

10.
Nuda e cruda



I fidanzamenti brevi erano la norma nei matrimoni combinati. Quello di Pietro e Maria avrebbe dovuto esserlo particolarmente, su richiesta dei Sala: otto settimane. Il padre di Pietro si era dichiarato pronto ad accoglierla al ritorno dal viaggio di nozze nel palazzo di Fara, in attesa che fossero completati i lavori per ridecorare il secondo piano della casa di Girgenti, dove gli sposi avrebbero vissuto. Dai Marra si aspettavano un dignitoso corredo personale per la figlia e null'altro, in quanto Pietro aveva espresso l'intenzione di portare la sua sposa alla sartoria Montorsi a Roma e dalla sarta dei reali a Bologna perché scegliesse i capi che più le aggradavano. Alle cerimonie nuziali – una civile in municipio e l'altra religiosa – erano stati invitati in pochi, intimissimi, per non far notare l'assenza della madre dello sposo, malata da anni.

Le uniche visite previste erano quelle dei fidanzati ai parenti stretti di ognuna delle due famiglie. Durante queste visite l'attrazione principale non era il nuovo membro della famiglia, ma l'anello di fidanzamento, esaminato da tutti, uomini e donne. Quello sì che la diceva lunga sul matrimonio! Secondo tradizione, l'anello passava dalla futura suocera alla fidanzata del figlio maggiore. Le eccezioni celavano storie segrete. Maria ricevette un brillante da cinque carati – il peso normale nei fidanzamenti delle famiglie benestanti –, purissimo, che Pietro dichiarò di aver comprato anni prima, nell'attesa di conoscere la donna della sua vita. Pochi gli credettero. L'anello divenne il tema principale dei pettegolezzi e delle illazioni sui Sala. Si arrivò a sostenere che era destinato alla Bella Otero, di cui Pietro era stato innamorato e da cui era stato piantato per il primo dei due arciduchi russi che la fascinosa spagnola annoverava tra i suoi amanti; si disse poi che lo aveva comprato suo zio, Giovannino Sala, scapolo inveterato in quanto si murmuriava che frequentasse solo maschi; per l'occasione, del poverino si disse che aveva avuto un innamoramento pazzo per una gentildonna francese, morta, ahimè, di tisi prima del fidanzamento ufficiale; secondo altri, l'anello faceva parte del tesoro di gioielli accumulati dal nonno di Pietro, che aveva messo da parte una fortuna con l'usura – oltre che con le miniere di zolfo – e che in riscatto di debiti accettava gioielli di famiglia da nobili sfasolati. Queste e altre voci giunsero alle orecchie di Ignazio Marra, che se ne adombrò e decise, contro il parere della moglie, di limitare la durata delle visite a una mezz'ora. Ottenne però l'approvazione della figlia e di Pietro, che ai salotti della buona società di Camagni preferiva il gazebo nel giardino dei Marra: lì, seduto accanto a Maria, mano manuzza, le raccontava storie vere e inventate e la faceva ridere, sotto lo sguardo lontano dello chaperon del momento.

Ignazio non ottenne quello che voleva: i pettegolezzi crebbero a dismisura e questa volta fu lui a esserne l'oggetto. Si parlò ancora una volta della sua brillante mente giuridica tarata di arroganza intellettuale; si commiserarono con un certo compiacimento le sue scelte sbagliate: giovanissimo carbonaro ai tempi del sovrano Borbone, mazziniano ai tempi dello sbarco dei Mille, contrario ai termini del referendum sull'unione con il Piemonte, era tuttora afflitto dal male del secolo, il socialismo, come dimostrato dal fatto che in tarda età era diventato simpatizzante dei Fasci siciliani. I pochi che lo dichiaravano lungimirante e precursore del pensiero futuro si univano ai tanti che lo biasimavano per essersi schierato a favore degli eretici piemontesi sbarcati con Garibaldi, al punto da incoraggiarli a stabilirsi nel vicino comune di Grotte e da ospitarne alcuni in casa. La sua pecca più grave, descritta mirabilmente dalla baronessa Tummia, riempì i salotti di Camagni: "Questo mio cognato è il più intelligente e il meglio preparato avvocato del paese, e il solo che non è diventato ricco. Può permettersi di fare il socialista grazie all'eredità lasciata a sua madre da un parente acquisito, marito di sua zia Carlotta". Poi sussurrava, ma in modo da essere udita anche dai più lontani, che al contrario suo zio Luigi Margiotta, un usuraio molto bigotto che aveva saputo tenersi cari tutti i clienti – mafiosi e gente perbene, nobili e popolani –, aveva fatto affari acquistando alle aste, truccate a suo favore, immobili e terreni della Santa Madre Chiesa confiscati dai Savoia. Successivamente aveva diseredato suo figlio Diego per avere sposato una donna di fede greco-ortodossa, e con i suoi denari aveva fondato un ospedale: era stato ricompensato con la nomina a senatore del Regno. "Di quello, che di cose torte ne fece assai e non fu buon padre, i paesani venerano la memoria come se fosse un santo, mentre di Ignazio Marra, che non ha mai commesso una disonestà in vita sua e adora i figli – i suoi e quelli altrui che si è messo in casa –, si ricorderanno soltanto le amanti... e non con tanta benevolenza!"

In privato, Giuseppina Tummia era più velenosa: i Marra avevano gravi problemi finanziari. Contando sull'infatuazione di Pietro, Ignazio aveva ribadito che non avrebbe fornito la figlia di alcuna dote. E lei ripeteva, con voluttuosa malizia: "Nuda e cruda la manda a mio fratello!".


Ignara di quanto si diceva in giro, Maria viveva intense giornate di emozioni contrastanti. Apprezzava la conversazione di Pietro, dotta e leggera allo stesso tempo, le sue frequenti lettere e il tocco sapiente delle sue mani. Ma non si sentiva innamorata, nonostante lui facesse di tutto per dimostrarle il suo amore e accenderlo in lei. La copriva di regali scelti con cura: una sciarpa del giallo intenso delle margherite che avevano raccolto insieme un pomeriggio in campagna, seguiti da Leonardo e da Filippo; uno squisito servizio da scrivania in marocchino con lo stesso fregio dorato del libriccino sul quale lei prendeva appunti e che teneva sempre con sé; una raccolta di poesie di D'Annunzio, la cui opera era bandita in casa Marra. Maria avrebbe desiderato condividere con Pietro l'attrazione fisica, che era sempre accesa in lui. Anche quando le scriveva scherzose e dettagliate descrizioni dei gioielli che lo appassionavano, corredate da disegni a china di suo pugno, Pietro riusciva con una parola, uno schizzo, un verso, a far trapelare un'allusione alla completa felicità che gli avrebbe arrecato la loro unione carnale. Quella sensualità affascinava e incuriosiva Maria, ma lei aveva, ancora, un'istintiva resistenza a ricambiarla.


Pietro le apriva le porte di un mondo in cui regnavano la bellezza e la cultura. Lei, che non era mai stata fuori dalla Sicilia, che di arte sapeva poco e che era totalmente ignorante dell'oreficeria della Magna Grecia e romana di cui i Sala erano collezionisti, lo ascoltava incantata dalla sua eloquenza e dagli oggetti che lui le mostrava sui libri.

Per Pietro era un modo per stare vicino alla fidanzata e sentire la prossimità del suo corpo. Le portava volumi con riproduzioni di capolavori del Rinascimento e cataloghi delle opere di artisti contemporanei – una novità assoluta – e li sfogliava con lei. Maria, il volto inumidito di pudico sudore, era inconsapevole del respiro accelerato e del desiderio scatenato da quel connubio di arte e sensualità. Altre volte invece "sentiva" che l'attrazione da lei suscitata in Pietro era potentissima, e non le dispiaceva. Credeva di essere pronta a ricambiarla. Che cosa doveva fare? Forse in lei c'era qualcosa che non andava? Non aveva nessuno con cuí parlarne, e dunque le pesava; era diventato un pensiero quasi costante, che si rincantucciava in un angolo della sua mente, pronto a prendere il sopravvento nei momenti di solitudine. Solo la musica riusciva ad allontanarlo, null'altro ora che Giosuè era andato – pochi giorni dopo il fidanzamento – dalla madre a Livorno per festeggiare l'ammissione alla Regia Accademia di Modena e a mettere a posto delle faccende familiari. Si scrivevano. Giosuè continuava a darle compiti e poi a correggerli – Maria li eseguiva diligente, determinata a completare gli studi una volta sposata. Quello era il loro segreto, condiviso soltanto con la madre.


Tutti in casa Marra erano fieri del fidanzamento – il matrimonio era il traguardo di ogni ragazza –, ma con un velo di tristezza: Maria avrebbe lasciato Camagni per sempre. Si era parlato, agli inizi, dell'acquisto della torre di Fuma Vecchia – poi, non più. Maria non osava chiedere cosa fosse successo. Le sembrava indiscreto, ma era quella la domanda che le affiorava alle labbra più spesso, quando era sola con il padre. La certezza di avere una casa sua a Camagni le avrebbe reso più dolce il distacco.

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Pagina 131

Erano diretti a Crespi d'Adda, un paese di un migliaio di anime creato una ventina d'anni prima insieme alla filanda in cui i suoi abitanti avrebbero lavorato: un paese modello fondato dal proprietario per dare a operai e impiegati abitazioni dignitose accanto all'opificio e tutto ciò di cui avevano bisogno per vivere con dignità.

I Crespi erano imprenditori tessili; da generazioni possedevano filande in Lombardia. Avevano costruito il villaggio prendendo a modello quelli inglesi, con asilo e scuola per i figli delle operaie, ospedale, chiesa e spaccio alimentare. L'elegante castello poco distante dall'abitato era di loro proprietà.

La fabbrica consisteva di una sequenza di corpi bassi e due ciminiere alte come minareti. Spiccavano in mezzo alla campagna e dunque si potevano riconoscere anche da molto lontano. Rappresentavano il progresso portato dalla Rivoluzione industriale e davano al sonnolento contado un chiaro messaggio: ammirate, e svegliatevi!

Maria era incantata dalla vicinanza tra opificio e comunità e dalla gradevolezza dell'insieme. I corpi dell'opificio erano illeggiadriti da ringhiere e finiture in ferro battuto, aiuole fiorite fiancheggiavano le strade, larghe e ben tenute, le case in mattoni degli operai godevano ciascuna di un giardinetto, e nel centro del paese, accanto al bar, c'era un lavatoio pubblico protetto da una tettoia e attrezzato con banconi e vasche per sciacquare. Pietro aveva conosciuto Daniele Crespi durante un viaggio al Sud: aveva in animo di estendere l'azienda fuori dai confini lombardi, ma quel progetto si era arenato, come tanti altri. Lo descriveva a Maria come un giovane esuberante e simpaticissimo. Aveva studiato Chimica industriale e aveva contribuito con il fratello Silvio a mettere a punto le operazioni di finissaggio introducendo un processo di mercerizzazione chiamato Thomas Prevost; per questo era stato premiato dal Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. "Ama spendere, è magnifico nell'ospitalità e si gode la vita. La pinacoteca dei Crespi è una delle collezioni private più ricche di Milano. Silvio e Teresa ci aspettano per il tè al 'castello', la loro casa di villeggiatura estiva: è stata costruita secondo il gusto del revival medioevale."

Furono accolti con affetto e andarono subito al belvedere superiore, dal quale erano visibili le Prealpi lecchesi e tanta parte della vallata dell'Adda, poi presero il tè nel salotto blu, a piano terra, dove solitamente si faceva musica. Dalle ampie vetrate si coglieva il frusciare verdissimo delle foglie, il morbido e fresco balenio di luci a cui Maria non era abituata. La compostezza dei padroni di casa, e perfino del personale di servizio, rivelava consuetudini signorili che andavano di pari passo con la consapevolezza di un potere economico solidissimo, la stessa che era anche all'origine della volontà di fondare quel villaggio. I Crespi cercavano di mettere Maria a proprio agio; lo facevano con una severità tutta lombarda che in realtà confinava la giovane siciliana nella mera elargizione di sorrisi e commenti in punta di labbra, inudibili.


Lasciavano Crespi d'Adda in automobile. "È un mondo totalmente diverso dal nostro!" sospirava Maria, "irripetibile da noi in Sicilia."

"Concordo," rispose Pietro. "Noi viviamo in una realtà in cui il divario tra ricchi e poveri è incolmabile: lo Stato è considerato nemico, l'ordine pubblico è mantenuto dalla mafia, attraverso il sopruso e la violenza; i politici non hanno fede e nemmeno un obiettivo che non sia il loro interesse economico: si vendono per una poltrona al governo. I poveri, sfruttati dai padroni e dalla mafia stessa, soffrono la fame; la loro salvezza è l'emigrazione. Siamo un popolo dannato." Poi si lasciò andare contro il sedile e Maria gli appoggiò la testa sulla spalla. Ricordava di aver sentito più o meno le stesse parole da suo padre. Ma lui si scoraggiava soltanto dopo aver perduto una battaglia, e poi era pronto a intraprenderne un'altra, per l'uguaglianza, e per dare l'opportunità ai poveri di vivere meglio.


Il viaggio continuò nel Veneto. A Padova, mentre erano seduti nella loro sala da pranzo, serviti da Rosalia, Pietro annunciò che avrebbero iniziato il viaggio di ritorno. Maria ne fu sorpresa: dava per scontato che sarebbero andati anche a Venezia ed espresse il desiderio di visitarla: "Credevo che ci saremmo andati, me ne avevi parlato tanto".

"Non ci andremo," disse Pietro bruscamente. E bevve a grandi sorsi il vino che aveva nel bicchiere. Era la prima volta che non accontentava un suo desiderio e che usava quel tono con lei. Maria c'era rimasta molto male. "Peccato..." mormorò. Lo guardava, certa di ricevere una spiegazione plausibile e gradevole, ma incontrò uno sguardo cupo. Finché Pietro gettò il tovagliolo sulla tavola e scattò in piedi, spingendo indietro la seggiola.

"Andate!" ingiunse poi a Rosalia, che aveva iniziato a raccogliere i piatti. Lei si fermò, interdetta. "Itivinni!" le urlò allora, facendola scappare con il volto infuocato.

Imbarazzata, Maria aveva abbassato lo sguardo sul cestino del pane, ormai solitario al centro della tavola, come se potesse consolarla. Pietro si riempì di nuovo il bicchiere, di nuovo lo vuotò e prese a camminare a grandi passi su e giù lungo la parete su cui si apriva il balcone. Maria non riusciva a spiegarsi il comportamento di Pietro con Rosalia, lui che era sempre cortese e rispettoso con le persone di servizio. Quella mattina avevano visitato il giardino botanico, impiantato nel Rinascimento – "Il più antico del mondo," aveva spiegato la guida –, e lui era stato molto affettuoso: aveva segnato sul taccuino i nomi di diverse piante che le erano piaciute, per comprarle e metterle a dimora nel giardino di Girgenti. Maria cercava motivi per il malumore di Pietro e non ne trovava nemmeno uno. A forza di pensare, le tornò in mente che Leonora aveva alluso più di una volta alle amanti di Pietro e al suo passato. Pietro stesso le aveva detto di aver avuto molte donne. Forse aveva un'amante a Venezia e voleva evitare che Maria la incontrasse, magari per caso? Bastò quel pensiero per farla sciogliere in lagrime.

Lui intanto si era fermato davanti al balcone. Guardava fuori, teso, fremente; poi riprese a fare su e giù, senza degnarla di uno sguardo. Maria ebbe paura, e scoppiò in singhiozzi, coprendosi la bocca con il tovagliolo per fare meno rumore possibile.

"Che piangi a fare?" Pietro si era fermato; la guardava come se fosse una nemica. I singhiozzi divennero più forti. "Che piangi a fare?!" ripeté, e si piazzò davanti a lei.

Maria, lagrimando, gli spiegò il suo sospetto, anzi la certezza, che lui non volesse portarla a Venezia perché lì viveva una donna che lui amava ancora, più di quanto amasse lei, sua moglie.

"Non c'è nessuna donna!" E Pietro confessò rabbioso di non voler andare a Venezia per via del casinò. "Il gioco mi piace moltissimo!" esclamò. "Capisci?! Moltissimo!" E rimase in attesa della reazione di Maria. Che lo spiazzò completamente. Subito calma, lei aveva allungato il braccio, la mano aperta per ricevere quella di lui. "Lo sapevo, Pietro, che ti piace giocare. Scusami tanto, ma avevo temuto il peggio." E accennò un sorrisetto impacciato.

Pietro si tirò indietro: l'innocenza di Maria era repellente. Lanciò il bicchiere contro il muro, frantumandolo.

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Le dune si spingevano immense e lente verso l'orizzonte. Sembravano i cavalloni di un mare mosso ma non tempestoso, quando le onde avanzano parallele e poi, come se tutto fosse stato orchestrato, si spezzano e si ricompongono, si allacciano ad altre onde, avanzano senza requie gonfiandosi e sgonfiandosi senza perdere compattezza. I due camminavano seguiti dalle guardie. Non c'era pista. Si arrampicavano, arrancavano nella salita e scendevano cauti. Quando erano in cresta si sentivano sopraffatti dall'immensità di quell'oceano immobile, a colloquio con la profondità del cielo.

"Devo sfogarmi," disse a un tratto Giosuè, e gesticolando prese a raccontarle gli orrori della guerra: "Sono stanco. Stanco e amareggiato. È andato tutto malissimo. Siamo stati inefficienti nella conquista, i turchi ce l'hanno regalata... si sono ritirati senza uno scontro armato, sono letteralmente scappati. Abbiamo mandato un esercito mal equipaggiato, con armi vecchie, senza munizioni e con scarsa conoscenza del territorio. I bombardamenti, mal orchestrati, sono finiti nel deserto. Ma questo non importa. C'è di peggio: siamo arrivati impreparati, senza sapere nulla della popolazione indigena e dei suoi bisogni".

Giosuè parlava con foga. "Bisogna portare la gente di qui dalla nostra parte, rassicurarli che saremo meglio dei turchi, che rispettiamo la loro religione. Non lo abbiamo fatto. All'inizio sembrava che gli arabi avessero accettato, persino di buon grado, la nostra conquista. E noi li abbiamo trattati come bestie: li abbiamo radunati e tenuti prigionieri. Non ci siamo spiegati, abbiamo promesso e non abbiamo mantenuto. Finché, incoraggiati dai Giovani turchi e dalle loro milizie, gli arabi hanno ritrovato l'orgoglio e hanno reagito con crudeltà efferata, uccidendo e seviziando."

Tacque. Aveva affrettato il passo, quasi volesse scavare una distanza tra sé e Maria e non dover parlare più. Lei si guardò bene dal lasciarlo fare e lo raggiunse subito. Allora Giosuè, per la prima volta, diede sfogo a quello che aveva tenuto dentro, gli occhi fissi a terra. "Noi italiani, proprio noi, abbiamo fatto di peggio e in grande scala contro la gente di qui. Se non era pianificata, la cosa certamente era tollerata e incoraggiata dal comando. Uso di bombe di gas letali o incapacitanti su civili inermi. Stupri su maschi e femmine, di tutte le età. Capisci, Maria? Abbiamo infierito sui moribondi e sui cadaveri, denudato e messo in mostra i corpi. Abbiamo squarciato i ventri delle gravide ed estratto i feti dai cadaveri per esporli in fila, impalati. Abbiamo sodomizzato con legni e candele cadaveri di uomini e donne, lasciandoli nelle piazze, nei mercati, dove tutti potessero vederli. Una guerra vergognosa, di cui non si sa nulla e nulla si saprà." Giosuè puntò gli occhi su Maria. "Non avrei dovuto darti questo immondo fardello... perdonami." E la guardava, duro.

Dava le spalle al sole, grondava di sudore. Si era allentato la cravatta, e sbottonato la camicia. Si intravedeva il petto abbronzato. Il volto sembrava invecchiato, come se il sole vi avesse inciso delle rughe, mentre il corpo esprimeva energia e potenza: le gambe muscolose, da cavallerizzo, la vita sottile e il torso asciutto, il petto riccio come i capelli. Giosuè, turbato e infelice, era bello come un dio. Maria ritornò con la memoria all'Apollo nudo del Museo del Campidoglio: un corpo perfetto. Guardandolo, aveva cominciato a capire la sensualità circolare dell'arte, che non stimola o richiede appagamento carnale.

"Torniamo," disse Giosuè. Sapeva di essere guardato e non lo gradiva. Si era tolto in fretta e furia giacca e cravatta, e accelerò il passo nel sole rovente, senza aspettare che lei gli si affiancasse. Erano due figure sospese nel nulla, dentro la vastità d'ocra del nulla.

Maria lo seguiva silenziosa. Aveva dimenticato tutto quel parlare di guerra e dei suoi orrori e vedeva il Giosuè che fino ad allora aveva conosciuto – il ragazzo mingherlino che passava le ore a studiare – trasformato in un uomo forte, dalla virilità prorompente. Vedeva soltanto lui, nella luce accecante. Lo voleva. Voleva che lui fosse attratto da lei quanto lei era attratta da lui. Accelerò il passo, per essergli finalmente accanto. Voleva dirgli che lo amava, che voleva toccarlo ed essere toccata da lui. E che gli si offriva, lì, sulla sabbia, umida di sudore. Nella foga di raggiungerlo, Maria scivolò e soltanto allora si accorse che sulla cresta delle dune, sull'orizzonte vicino, rivolti verso di loro e immobili, erano appostati dei cavalieri biancovestiti, in groppa ai cammelli. Altri se ne aggiungevano e a poco a poco circondavano lei e Giosuè, come se fossero pronti a scendere su di loro per catturarli. Ebbe paura.

"Non ti preoccupare. È la scorta indigena," le disse Giosuè, e le porse la mano per aiutarla a rialzarsi.

Bruciava, quella mano, e anche il palmo di lei era rovente.

Capirono.

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