Copertina
Autore Simonetta Agnello Hornby
Titolo La mennulara
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2002, I Narratori , pag. 216, dim. 140x220x18 mm , Isbn 978-88-07-01619-6
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa italiana
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Indice


 7  Lunedì 23 settembre 1963

 7  l.  Il dottor Mendicò assiste alla morte di una paziente

15  2.  Il pomeriggio del giorno della morte la famiglia
        Alfallipe prende delle decisioni fatidiche e i
        fratelli Alfallipe passano la notte ognuno per i
        fatti propri anziché fare la veglia

19  3.  Massimo Leone incautamente festeggia a modo suo la
        morte della Mennulara

22  4.  A casa Mendicò la conversazione tra fratello e
        sorella il giorno della morte

27  5.  La sera della morte della Mennulara se ne parla nel
        cortile della portineria di Palazzo Ceffalia

33  6.  Il pranzo di mezzogiorno a casa Fatta

38  7.  La prova del vestito della nipotina della signora
        Fatta

42  8.  Nuruzza Salviato racconta alla figlia

45  9.  Nuruzza Salviato e suo marito maledicono la
        Mennulara

49  Martedì 24 settembre 1963

49  10. Il geometra Bommarito non riceve il suo caffè
        mattutino

52  1l. Maricchia Pitarresi apprende alla Merceria Moderna
        la notizia della morte della Mennulara e la maledice

56  12. Don Giovannino Pinzimonio rievoca al Circolo della
        Conversazione

58  13. Gaspare Risico, impiegato alle Poste nonché
        segretario della sezione di Roccacolomba del Partito
        comunista italiano, e sua moglie Elvira

61  14. Il funerale

64  15. Don Paolino Annunziata se la fa addosso per la
        seconda volta nella sua vita e sempre per colpa
        della Mennulara

[...]

 

 

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Pagina 7

LUNEDI 23 SETTEMBRE 1963



1.
Il dottor Mendicò assiste alla morte di una paziente
Il dottor Mendicò improvvisamente si senti stanchissimo, con le gambe indolenzite e le braccia formicolanti. Era rimasto nella stessa posizione per più di un'ora, le mani della Mennulara strette fra le sue, accarezzandole le dita con un movimento circolare e delicato, incessante. Sollevò la mano destra, lasciando a palma aperta sul lenzuolo la sinistra, su cui poggiavano quelle ancora tiepide della defunta.

Era un momento solenne, che conosceva bene e sempre lo emozionava, l'ultimo compito di un medico sconfitto dalla morte. Le chiuse le palpebre delicatamente. Poi le rassettò le mani intrecciandole le dita, gliele pose con cura sullo sterno, riordinò il lenzuolo tirandolo su fino a coprirle le spalle e finalmente si alzò per comunicare agli Alfallipe la morte della Mennulara.

Rimase con loro quanto necessario, diede a Gianni Alfallipe la busta contenente le ultime volontà della defunta e scese in fretta le scale della palazzina, incrociando le vicine che salivano per le scale a condolersi. Si era sentito soffocare in quella casa; appena uscito dal portone prese a camminare a piccoli passi lenti, respirando a pieni polmoni l'aria ancora fresca della mattina. La via misurava appena poche decine di metri, ma sembrava più lunga in quanto stretta e piena d'angoli creati dagli edifici a due o tre piani che nei secoli si erano moltiplicati a caso, accatastandosi l'uno sull'altro e inglobando le costruzioni originarie fino a formare quasi due muraglie contigue e irregolari, interrotte soltanto da due archi che le traforavano come una galleria e attraverso i quali passava e si snodava fino a valle una delle tante scalinate che formavano la principale rete urbana di Roccacolomba, un tipico paese dell'entroterra aggrappato alle coste della montagna.

Il dottor Mendicò si sovvenne tutto a un tratto di non aver intrecciato un rosario attorno alle dita della morta, come si soleva fare. Con la memoria rivisitò la stanza della Mennulara per rendersi conto della propria omissione. Era una stanzetta particolarmente spoglia. C'era soltanto lo stretto necessario: il letto, una sedia, l'armadio, una lampada e una radio sul comodino, un tavolo stretto che fungeva da scrivania, dove erano posate in perfetto ordine, su un vassoietto di metallo, penne, matite e una grossa gomma per cancellare. Sullo scaffale c'erano due fotografie dei nipoti e una piuttosto sbiadita che ritraeva i genitori, alcuni quaderni e qualche libro. Le pareti erano nude, a parte una riproduzione della Madonna col Bambino del Ferretti, al capezzale. Mancavano, in quella stanza, il tocco femminile e l'elemento religioso: la farragine d'immagini sacre, statuette della Madonna e di santi locali, bottigline piene di acque benedette portate da paesi lontani, che si ammassano sui comodini delle donne; mancava perfino un rosario. Nonostante ciò, la camera da letto della Mennulara gli aveva dato la netta sensazione di essere permeata da una religiosità profonda, quasi monastica.

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Pagina 27

Nella portineria di Palazzo Ceffalia, a tutte le ore, c'era un gran viavai di gente, parenti e amici, quasi tutti appartenenti a famiglie a servizio dei notabili di Roccacolomba, che si fermavano per salutare e riposarsi prima di riprendere il loro cammino, e per chiacchierare. Sin dalla caduta dei Borboni l'oligarchia di Roccacolomba si era mantenuta compatta, avendo goduto di un lungo periodo di stabilità e benessere. Di riflesso, le famiglie che da generazioni la servivano come domestici - cocchieri, cuoche, cameriere, balie, portieri - potevano vantare una posizione altrettanto stabile e non erano affatto indigenti, pur vivendo in condizioni di povertà. Legati ai padroni dall'antica conoscenza di generazioni - un misto di rispetto, risentimento e anche affetto reciproco -, avevano fatto propri i loro valori e i loro modelli di comportamento. Le famiglie delle persone di casa guardavano dall'alto in basso gli altri poveri del paese, che padrone non ne avevano e vivacchiavano nell'incertezza del pane quotidiano; inoltre si sentivano in un certo qual modo protetti, ma anche minacciati, a seconda della posizione dei padroni, dall'altra grande componente della società del latifondo: la mafia, che - dopo essere stata ridotta quasi all'impotenza dal fascismo - a quel tempo attraversava una fase di rapida ascesa ed era pronta a penetrare nelle province orientali.

Il padre di don Vito Militello era diventato portiere del barone Ceffalia, nuovo nobile emergente nella società stratificata del paese: questi lo aveva insediato nella più sontuosa portineria della piazza, con una loggia di legno scolpito, e lo aveva munito di una bella divisa blu scuro, come fanno i nobili di città. La portineria era diventata uno snodo di visite e pettegolezzi per le persone di casa dei ricchi, fonte utilissima di informazioni che giungevano poi ai padroni tramite la moglie dei portiere in modo più veloce e accurato rispetto ai canali ortodossi costituiti dalle conversazioni nei circoli e nei salotti. Tale traffico di gente avveniva dunque con la tacita acquiescenza del barone, a cui non dispiaceva che anche la portineria di Palazzo Ceffalia brillasse di luce riflessa.

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Pagina 35

Palazzo Fatta era costruito nella parte più alta di Roccacolomba, a fianco del monastero dell'Addolorata e rispettosamente vicino all'imponente palazzo dei principi di Brogli, ora disabitato. Ne rimanevano intatte e maestose le mura esterne, la grandiosa facciata barocca dai balconi panciuti, le persiane perennemente accostate e il grande portone di ferro. L'interno era nascosto agli sguardi dei paesani ma non a quelli dei Fatta, dalla cui terrazza si scorgevano i cortili rigogliosi di piante e arbusti selvatici, le finestre delle corti interne squassate dal vento, le aiuole semidistrutte, in uno stato di abbandono che lasciava presagire la prossima e accelerata metamorfosi del magnifico palazzo in rudere.

Il panorama dalla terrazza costituiva, in qualunque stagione, motivo di superbo godimento per Pietro Fatta. Appoggiato alla balaustrata che aggettava oltre i muri esterni, si sentiva sospeso in aria, come se fosse sopra la sorgente di un fiume vorticoso di tegole, che prorompevano ai suoi piedi e si allargavano sull'intero costone meridionale della montagna. I tetti di tegole a cannolo, uno diverso dall'altro per sfumatura di colore, misura, pendenza e direzione, sembravano tessere di un mosaico monocromo sparpagliate alla rinfusa, in splendida armonia di toni e volumi. Qua e là tra i tetti spuntavano gli alti e delicati campanili delle chiese, costruiti come il resto del paese in pietra grigio-rosata, che al tramonto pareva uno specchio del cielo, tanto assorbiva le sfumature rossastre del sole morente. Spiccava tra i tetti quello della chiesa madre, di colore ocra scuro, intervallato da strisce di piastrelle verdi e bianche. A fianco della matrice si scorgeva il tetto del palazzo delle Poste, come pomposamente era chiamato l'edificio rotondo a due piani, costruito durante il fascismo. Anch'esso, con il passare degli anni, si era integrato nel corpo di Roccacolomba come se ci fosse sempre stato. Il tetto di cemento, intonacato di un rosa un tempo brillante, aveva assunto una precoce vetustà e, grazie a quel degrado, si armonizzava perfettamente con gli altri tetti spioventi che lo stringevano d'attorno.

Roccacolomba Alta finiva a valle, nella confusione delle casupole di Roccacolomba Bassa, dove abitava la povera gente. C'era poi il fiume, attraversato dal ponte di pietra a tre archi, che univa il paese vecchio a Roccacolomba Nuova, un obbrobrio senza identità creato negli ultimi trent'anni. Dal dopoguerra Roccacolomba era in fase di rapida espansione, anche grazie alla nuova superstrada che, dopo una lunga galleria, allacciava Roccacolomba agli altri centri della provincia. Decine di edifici di cemento armato intonacati con colori sgargianti erano stati costruiti nell'anarchica euforia edilizia degli ultimi anni e Roccacolomba si era affermata come un grosso paese agricolo in cui i proprietari terrieri avevano reagito alla crisi del sistema mezzadrile investendo su macchine e tecnologia, e guadagnandosi la fama di essere "all'avanguardia". Laddove la terra non rendeva, o rendeva più faticosamente, l'edilizia aveva fatto il resto. Il benessere e lo sviluppo di Roccacolomba erano stati assicurati, ma la bellezza isolata e altera del paese, fondato nel Seicento dai principi di Brogli, era stata intaccata e presto sarebbe stata distrutta, il suo tessuto sociale sarebbe scomparso entro pochi anni, e tutto sarebbe cambiato. Pietro Fatta considerava positivi i mutamenti imposti dal progresso, ma aveva difficoltà ad adeguarvici. Di questa sua incapacità si doleva assai, e la sentiva come un presagio di morte.

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Pagina 64

A quel punto padre Arena si senti trafitto da due raggi penetranti e terribili che lo guidavano inesorabilmente verso don Vincenzo Ancona. Mise a fuoco l'inconfondibile figura, in fondo alla chiesa, davanti a una colonna del portale, a gambe larghe e braccia conserte; il cappotto appoggiato sulle spalle solide e pesanti pareva il manto del Potere, gli creava un'aureola attorno al corpo.

Padre Arena ammutolì e rimase immobile come una statua. Con uno sforzo immane si riprese. Tralasciando tutto quello che avrebbe voluto dire, concluse in fretta: "E soffrì anche nel morire ancor giovane. Vi dico che era una donna da ammirare e che col tempo si imparerà anche ad amare, perché mantenne sempre la parola e fu domestica e amica leale. Faccio le mie condoglianze ai nipoti e al cognato, che purtroppo non sono presenti, e alla famiglia Alfallipe".

Solo allora padre Arena riuscì a staccare lo sguardo da quello di don Vincenzo, e lo rivolse alla signora Alfallipe. Si sentiva svenire e si appoggiò al pulpito. Alzò gli occhi cercando ancora quelli di don Vincenzo, come un agnellino da latte che ha bisogno dell'approvazione materna. Ma don Vincenzo Ancona non c'era più. Si era dileguato come se fosse stato un'apparizione, non il rumore di un passo, non un cigolio dei cardini della porta: era scomparso coi suoi uomini.


15.
Don Paolino Annunziata se la fa addosso per la seconda volta
nella sua vita e sempre per colpa della Mennulara

Don Paolino non era religioso. In chiesa ci andava soltanto per funerali, battesimi e matrimoni, e donna Mimma se ne dispiaceva assai benché il marito avesse un valido motivo per la sua scarsa osservanza: soffriva di artrite e non riusciva a infilarsi e a uscire agevolmente dai banchi di legno, marchingegno infernale con poggiapiedi in cui gli si incagliavano i piedi, tavolette ribaltabili per inginocchiarsi su cui gli sbattevano le ginocchia, scaffaletti per tenerci dentro il messale che sporgevano e gli impedivano i movimenti. Una volta, al matrimonio di una nipote, tre uomini avevano dovuto darsi da fare per disincagliarlo dal banco, in cui era caduto incastrandocisi dentro. Nella chiesa dell'Addolorata aveva preferito lasciare che la moglie e la nipote Lucia si mettessero in vista nei primi banchi, nella navata centrale, mentre lui fortunatamente aveva trovato vicino alla porta d'ingresso una sedia, su cui si accomodò per essere tra i primi a uscire dopo la funzione.

Osservava benevolmente padre Arena, che tante volte aveva accompagnato in macchina alla casa di campagna dell'avvocato, ai tempi della signora Lilla, quando ancora usava far celebrare la messa nella cappella. Brava persona, questo padre Arena, gli faceva simpatia. Dopo tutto tanto "prete" non era, aveva messo incinta la sua perpetua, donna Maricchia, vedova e più anziana di lui, e ci aveva fatto un bel figlio, si assomigliavano come due gocce d'acqua. Padre Arena non nascondeva "la cosa", come fanno tanti altri preti, e durante i tragitti in automobile i due uomini parlavano spesso dei rispettivi figli.

Ascoltare la messa celebrata da lui era un sollievo per la sua garantita brevità. Don Paolino la paragonava a un viaggio in macchina: partiva sbuffando e incespicando nella balbuzie, prendeva velocità mangiandosi le parole, saltando frasi, per raggiungere in un baleno l' "ite missa est". Un'Alfa Romeo. Sicuro che anche l'omelia sarebbe stata breve, don Paolino ascoltava le parole del prete con attenzione. "Bravo, padre Arena," si disse, notando che parlava con chiarezza e senza balbettii, "si vede che con la vecchiaia è migliorato", e lo guardava con affetto.

Ma all'improvviso, dopo le prime frasi, padre Arena si era interrotto. Parve a don Paolino come se questi gli avesse puntato gli occhi addosso, ma non era così, lo sguardo del prete scivolava oltre la sua persona. "Non dovevo illudermi che si fosse liberato della balbuzie, ecco che ricomincia, non vuole 'checchiare' e non sa andare avanti," pensò don Paolino, calmo e fiducioso che padre Arena avrebbe presto ripreso a parlare. Ma il sacerdote rimaneva fermo e muto, pareva pietrificato da un terrore indecifrabile, lo sguardo era fisso sopra la spalla destra di don Paolino, come una lepre abbagliata dal faro dei cacciatori notturni, vittima impotente in attesa di essere riempita di pallottole. Don Paolino cominciò a sentire uno strano disagio, come se in quella situazione c'entrasse anche lui, come se da dietro le sue spalle partisse un perverso fascio di luce che folgorava e immobilizzava padre arena.

Costringendosi a dolorose contorsioni, don Paolino, che non aveva perso la sua proverbiale curiosità, riuscì a girarsi e a guardare indietro: appoggiato alla porta della chiesa c'era don Vincenzo Ancona, la vecchia faccia rossa dalla pelle distesa, lucida e quasi senza rughe, irradiava energia e potere, lo sguardo fisso su padre Arena. Gli stavano attomo quattro uomini vestiti di scuro, gli occhi guizzanti da un punto all'altro della chiesa. Don Paolino fu subito notato. Gli calò addosso da uno di questi un'occhiata di avvertimento, che gli trasmetteva il noto messaggio: "Fatti gli affari tuoi e ricordati che niente hai visto". Con miracolosa velocità e senza il minimo dolore alle ossa, don Paolino si rigirò nella posizione di prima e calò la testa come se fosse in penitenza. Vedeva sfocato e tremava dalla paura. Provava una lenta sensazione di calore dentro di sé, che scendendogli tra le cosce si diffondeva sulle gambe e gli risaliva sulle natiche: don Paolino Annunziata si stava pisciando addosso.

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Pagina 147

Gli avvenimenti che seguirono furono così raccontati da don Paolino ai cognati don Vito e donna Enza Militello, quella sera a cena: "Appena la macchina fu entrata, Massimo Leone si attaccò al bagagliaio cercando di aprirlo, tirava la maniglia, la girava come se volesse strapparla, e urlava 'apri, apri', mentre il professor Gianni e la signora Lilla scendevano dalla macchina tutti calmi, come se lo facessero apposta per farlo dannare. Il professore gli diede un'occhiata come quelle che lanciava la signora Lilla Grande, e disse: 'Non c'è fretta, non stiamo scappando col tesoro, se continui li sbatterai e andranno in frantumi'. Quello bestemmiò e si mise di lato, lasciando loro lo spazio per aprire il bagagliaio e le portiere posteriori. Nel frattempo la signora Adriana e la signora Carmela erano scese dalla scala interna, che porta all'androne della portineria e nell'anticucina e facevano cento domande: 'Che vi ha detto? Sono tutti sani? Siete stati attenti durante il viaggio?'. Il professore disse: 'Ho la busta in tasca, la leggeremo dopo'. E quelle si zittirono.

"Si misero tutti al lavoro, facevano una gran confusione. C'erano quattro grosse casse stipate nel bagagliaio, e quattro sul sedile posteriore, nascoste da alcune coperte. Gli uomini se le caricavano, a una a una, e le portavano dentro casa. Le trattavano come se fossero delicatissime. Mi sembravano pesanti, dalle smorfie che facevano nel sollevarle. Insomma, pareva che ci fossero tesori in quelle casse. La signora Lilla disse che sarebbe andata sopra ad aprirle con cura, le altre femmine rimasero in garage a guardare.

"A un certo punto la signora Adriana esclamò contenta: 'Mennù sempre a noi pensa, ora sarete ricompensati!'. Al che sua figlia le rispose: 'Stai zitta mamma, ancora non abbiamo letto la valutazione, saliamo nello studio', ma non si mossero.

"C'erano le ultime due casse da trasportare. Il professore si stava avvicinando al bagagliaio quando sua sorella Carmela e il cognato, senza neanche darsi un segno d'intesa, gli bloccarono il passaggio, mettendosi davanti a lui, un agguato vero e proprio. Massimo Leone gli disse: 'Apri la busta, ora, ti dico'. Era tutto sudato e minaccioso, faceva paura. La moglie, dritta vicino a lui, pareva il suo luogotenente. La signora Adriana si mise a gridare: 'Non bisticciate, si rompono, si rompono', e si copri il viso con le mani.

"Il professore si era arrabbiato davvero, non degnò il cognato di uno sguardo, e ordinò alla sorella di dire a suo marito di levarsi di davanti, erano cose degli Alfallipe e quell'atteggiamento a lui non piaceva, e fece per scansarlo. Massimo Leone gli diede uno spintone e urlò: 'Leggila, disgraziato!', che magari mi spaventai, una bestia è quello lì. Il professore ammutolì, si rizzò e prese dalla tasca dei pantaloni una busta, la aprì e ne uscì una carta, che si lesse da solo. Poi disse: 'Sono falsi'. Pallido era, e pallidissimo diventò, e poi ci fu il finimondo. La signora Carmela si mise a inveire contro la Mennulara, ma che c'entrava quella povera buonanima?, ladra, imbrogliona, ignorante, di tutto l'accusava, pareva impazzita, e gli altri rimasero a guardarla, come statue. Insomma, era un cinematografo".

"Non ti stancavi, seduto lì, a guardare da quel buco?" chiese donna Enza al cognato. Le rispose la sorella: "Tutto voleva vedere, non c'era verso di staccarlo dal muro... io pure volevo guardare nel garage, ma lui non mi accontentò, tanto gli piaceva, e il dolore alle ossa non lo sentiva più".

"Aspetta, che il bello viene ora," disse don Paolino. "Massimo Leone si era preso la carta in mano e se la lesse, poi alzò gli occhi e li girava per il garage, come se gli fosse entrato in corpo uno spirito. Gli si erano ingranditi, parevano occhi di polipo, sembrava che stessero per schizzargli fuori. Senza dire una parola, si mise a darsi pugni sulla testa, ma forte, si sentiva il rumore dei colpi, e lui continuava, sempre muto. Gli altri gli dicevano di fermarsi, ma nessuno l'aveva il coraggio di avvicinarsi a quel diavolo, che ora aveva preso a bestemmiare contro la Mennulara, continuando a darsi pugni, prima in testa, poi sul collo, e giù sul petto.

"A un certo punto la signora Adriana gli urlò: 'Fermati, ti fai male!'. Quello la guardò e rispose: 'Non posso permettermi di prendere a legnate mia moglie, che è la causa di tutti i miei guai, ma su me stesso posso fare quello che voglio'. E continuò a darsi pugni come un forsennato; le donne si misero a urlare contro la Mennulara, il professore si avvicinò alla madre, muto, io dico che aveva paura che il cognato se la prendesse con lui, e se ne stava zitto. La signora Lilla nel frattempo era scesa, avrà sentito quel fracasso, e lei pure si uni alle maledizioni contro la povera Mennulara, c'era il finimondo. Poi lei e suo fratello si presero le casse rimaste e gli Alfallipe se ne andarono, lasciando Massimo Leone solo nel garage, che continuava a darsi colpi, era tutto tumefatto. Alla fine diede un calcio alla macchina del cognato e se ne salì a grandi passi, chissà che sarà successo sopra..."

"E poi?" chiese donna Enza.

Le rispose la sorella: "Che ne sappiamo?, dalle voci che sentivo pareva che si stavano ammazzando fra loro, c'era rumore di cose rotte, ma non si capiva bene. Noi siamo rimasti dentro, le voci venivano dall'altro lato del palazzo, ci pareva male uscire. Se vuoi sapere quello che è successo te lo devi fare raccontare dagli altri, questa storia non muore fino a quando tutto il paese non la conosce". E riprese a mangiare con gusto la verdura bollita, il suo primo pasto caldo della giornata.

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Pagina 164

"Mi spieghi perché la mafia avrebbe un interesse così forte per lo sviluppo edilizio qui a Roccacolomba..."

"Presidente, lei sa che la mafia è sotto pressione nelle grandi città. La magistratura potrebbe serrarla in una morsa. E allora, in vista della stangata, ecco che si ritrae nei piccoli centri, per poi tornare ad attaccare." Era evidente che Gaspare ripeteva quanto aveva appreso in sezione, ma lo faceva con passione.

"Cosa le fa pensare che sia sotto pressione e stia perdendo potere?"

"Basta leggere i giornali. Leggerli e capirli, ovviamente. C'è gente che si ribella, che non vuole più abbassare la testa. E allora bisogna sostenerla. La gente, intendo. Al processo di Tommaso Natale, la vedova di Pietro Messina si era offerta di testimoniare contro gli assassini del marito. Poi è stata costretta a ritrattare, hanno minacciato lei e i suoi figli, ma altre ce la faranno. I nostri deputati, quelli comunisti, martellano il governo di interpellanze. Noi in Sicilia vogliamo lavoro, sviluppo, un avvenire, presidente."

A Pietro Fatta piaceva quel giovane idealista. Pensò di chiedergli se aveva figli, ma non lo fece.

"Capisco. Lei vuole cambiare il mondo," disse, e concluse: "Fa bene".

"La Sicilia, presidente. Voglio cambiare la Sicilia. Lavoro, acqua, sviluppo, giustizia. Io ci credo nella giustizia," disse Gaspare con una certa enfasi ma attento a non fare del presidente Fatta un antagonista, "credo nella lotta contro le estorsioni, contro la corruzione, mi batto per il diritto al lavoro, per l'uguaglianza dei cittadini. Per questi principi sono disposto a fare sacrifici e anche a correre rischi."

Pietro Fatta pensò al figlio Giacomo, ligio e affidabile. Era un bravo e coscienzioso allevatore, un amministratore oculato, figlio, padre e marito affettuoso. Era diverso da questo giovanotto che ora aveva dinanzi e che gli recitava, infiammato, il proprio credo. Gli sarebbe piaciuto conoscerlo meglio, ma sapeva che la cosa era improbabile.

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