Copertina
Autore Simonetta Agnello Hornby
Titolo La monaca
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2010, I narratori , pag. 300, cop.fle., dim. 14,2x22x1,8 cm , Isbn 978-88-07-01823-7
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa italiana
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Pagina 13

1.
Messina, 15 agosto 1839.
Il ricevimento dei Padellani alla festa
dell'Assunzione della Vergine



La luce soffice del mattino entrava dal lucernario e si diffondeva in basso, esaltando il marmo rosato della scala barocca. "Allestitevi, don Totò!" gridava Annuzza. In punta di piedi, si sporgeva dalla balaustra e accompagnava le parole con ampi gesti: "Allestitevi, Sua Eccellenza vi aspetta!". Il cameriere reggeva tra le braccia una grande cesta a fondo largo, coperta da un panno pesante. Ansava a ogni scalino, ma non rallentava, il profumo di pane caldo, olio d'oliva, sarde salate e origano bruciato dava vigore alle sue ginocchia logore.

Un cameriere gli andò incontro per l'ultima rampa del piano nobile. Don Totò rifiutò di lasciarsi alleggerire del carico e così, preceduto dai due, fece il suo ingresso nella stanza gialla. La stavano smontando. I letti di ferro battuto – ora trispiti, sbarre e testate con rose dipinte – poggiavano sui materassi col centro macchiato di mestruo sbiadito. Un'anta mezza aperta rivelava la cavità desolata da cui Annuzza e le due balie avevano tolto i vaporosi abiti estivi delle ragazze Padellani. Al centro, una tavola raffazzonata: i camerieri avevano gettato una tovaglia sopra scatole di cartone e adesso, insieme al padrone, aspettavano l'arrivo dello sfincione.


"Bravo, Totò!" E senza aspettare la moglie, don Peppino Padellani tirò il panno dalla cesta rivelando i quadrati di sfincione disposti accuratamente a spina di pesce, ogni strato separato dall'altro da fogli di carta oleata. L'aroma sbummicò impetuoso. Con gagliarda ingordigia l'anziano maresciallo ne addentò un pezzo e, puntando il dito verso la cesta, incoraggiava i camerieri a farsi avanti. Quelli si accostavano con un ritegno che ebbe breve durata: presero a strappare lo sfincione con i denti e a ingozzarsi; con la bocca ancora piena, facevano a gara per infilare nella cesta le mani avide e afferrarne un altro pezzo.


Don Peppino Padellani di Opiri, cadetto di nobilissima famiglia napoletana e Gentiluomo della Chiave d'Oro del defunto re Ferdinando I, era stato trasferito a Messina nel 1825 con il ruolo di maresciallo dell'esercito del Regno delle Due Sicilie. Vi era stato in missione nel 1808, per seguire il processo dei partecipanti al complotto filofrancese, poi nel 1810, nella gloriosa occasione in cui l'esercito inglese aveva respinto l'attacco dell'armata di Murat, e poi per diversi mesi nel 1820, assieme alla marescialla, al tempo dei moti siciliani, quando l'allora principe ereditario e luogotenente generale del re in Sicilia aveva spostato il governo dalla rivoltosa Palermo alla leale Messina.

Le ristrettezze economiche, la vita dispendiosa della capitale, la necessità di educare e maritare le cinque figlie – a cui se n'erano aggiunte altre due – e il desiderio di vivere in una città che fosse in contatto con Napoli e con l'estero lo avevano spinto a chiedere al re il trasferimento a Messina, e ne era interamente soddisfatto. Nonostante la differenza d'età, l'ultrasettantenne maresciallo e la moglie di trentasette anni erano determinati a godersi la vita e a partecipare in pieno alle mondanità della società messinese, dalla quale erano trattati con la deferenza dovuta al rango e al lignaggio dei Padellani.

I ricevimenti della marescialla erano famosi per l'eleganza e la raffinatezza, ma quello di Ferragosto non aveva eguali. Ogni 15 agosto, i Padellani iniziavano le celebrazioni della festa dell'Assunzione della Vergine la mattina, offrendo sfincione caldo a tutte le persone di casa – cocchieri, garzoni e servitù. Quel giorno soltanto, don Peppino, donna Gesuela e le figlie si mescolavano con loro e li trattavano da pari – ma non viceversa. Era il loro modo per farsi perdonare gli stipendi mancati e incoraggiarli a sopportare di buon grado la fatica di smontare casa di prima mattina e rimontarla a sera – a mezzogiorno sarebbe iniziato il grande ricevimento in cui la marescialla avrebbe intrattenuto i cittadini più in vista e i forestieri più influenti per l'intera durata della processione e oltre. Tutti i salotti, due dei quali normalmente adibiti a camere da letto, dovevano essere rimessi in uso. Le tre figlie rimaste a casa dormivano proprio in quello giallo, in cui aveva luogo il ricevimento per le persone a servizio.

La servitù e i camerieri "prestati" da parenti o amici per l'occasione consideravano un onore mangiare lo sfincione, che peraltro era una bellezza, con i padroni; ogni anno il panettiere ne aggiungeva una varietà nuova su indicazione di donna Gesuela, che ne ordinava tanto da non lasciare nessuno digiuno. I resti andavano ai camerieri della proprietaria del palazzo e lontana parente degli Aspidi, la famiglia di donna Gesuela, che metteva a disposizione di quegli inquilini di riguardo il proprio personale e una stanza, nell'altra metà del piano nobile, per stiparvi la mobilia portata via dai salotti. Poco dopo salirono anche i due cocchieri e il garzone, seguiti dai cucinieri, a turno. Don Peppino, che aveva mantenuto l'umorismo napoletano accattivante e mai maligno, li intratteneva con le sue famose battute. Le cameriere non sposate venivano a due a due e si tenevano in disparte; ascoltavano attente con occhi vivaci, e senza aprire bocca se non per rispondere alle domande del padrone. Invece le due balie si univano liberamente alla conversazione generale, anche quando don Peppino la portava sul piccante.

La marescialla tardava ad arrivare e così anche le bambine, come Annuzza – a servizio di donna Gesuela da quando era nata e ora bambinaia a tempo perso – chiamava tuttora Anna Carolina, sedicenne e alle soglie del fidanzamento, Agata, tredicenne, e Carmela, l'ultima nata, di sette anni. Nonostante l'incoraggiamento del maresciallo, la serva, rispettosa, non volle tastare lo sfincione prima della padrona; appena poté, sgusciò via per andare a cercarla. Bussò alla porta della camera da letto grande – l'ultimo dei salotti, quello blu. Nessuna risposta. Appoggiò l'orecchio ai battenti. Donna Gesuela gridava a una delle figlie, ma Annuzza, che ci sentiva male, non capiva a quale delle tre. Bussò di nuovo e aspettò. Poi decise di entrare – soltanto lei, ogni tanto, poteva permetterselo. Svuotata, la stanza del maresciallo sembrava enorme. Lungo le pareti erano allineate sedie di stili diversi, prestate dalla vicina; in un angolo, gli uomini avevano ammucchiato trispiti e tavole da montare per la tablattè. Sotto il lampadario di Murano, e disposte in cerchio con la seduta verso l'esterno, c'erano quattro poltrone, su cui poggiavano come fantasmi in cerca di corpo i vestiti e gli accessori che le donne di famiglia avrebbero indossato per il ricevimento: gli abiti erano drappeggiati su spalliera, braccioli e sedile. Guanti e cappelli poggiavano sulla gonna senza sgualcirla. Davanti a ciascuna poltrona, le scarpine di seta dai colori tenui.

Ancora in veste da camera e cuffia da notte, donna Gesuela teneva inchiodata Agata contro la parete e le parlava fitto, gesticolando e alzando e abbassando il tono della voce. La figlia non rispondeva. Annuzza cercava di intravedere il viso di Agata, ma il corpo della madre glielo impediva.

"Basta! Ti ho detto basta!" Con quello, donna Gesuela calò le braccia e si scostò; pallidissima, Agata la guardava e non rispondeva. La madre tornò all'attacco: "Te lo dico per l'ultima volta: non ti vogliono perché non sei ricca! Lo capisci? Levaci mano, con questo! Babbierà con te fino a quando gli piace! E dopo che ti lascia, chi ti piglia? Nessuno! Nessuno! Lo capisci? Rispondi!". Le pieghe scomposte delle maniche di broccato blu della veste da camera nascondevano la ragazza, scivolata contro la parete, allo sguardo di Annuzza.

"Rispondi!" ripeté la marescialla, minacciosa.

Annuzza temette che Agata fosse svenuta; poi sentì un mormorio: "Ve l'ho già detto, signora madre, suo nonno è d'accordo". Una pausa. Poi: "Me lo ha scritto!", con foga.

"Scritto? Scritto! E che! E chi gli ha dato il permesso di scriverti? Macari ci scrivisti pure, disgraziata!" E poi, in italiano: "Vuoi comprometterti? Vuoi rovinare i matrimoni delle sorelle?".

"Non ho fatto nulla di male! È lui che mi scrive. Io, quasi mai."

La madre prima allargò le braccia con un gesto melodrammatico, si mise i pugni sui fianchi e gonfiò il petto. "'Quasi' mai! 'Quasi' mai!" ripeteva, i grandi occhi neri brillanti come tizzoni ardenti.

"Voscenza mi scusassi, ma arrivò lo sfincione," intervenne Annuzza, e poi aggiunse, mentendo: "Sua Eccellenza il maresciallo mi mandò a chiamare Voscenza". Gesuela si girò verso la serva, non l'aveva sentita entrare. Il bel volto madido di sudore era stravolto e í firricchioccoli neri, accuratamente appuntati e ora umidicci, le uscivano in disordine dalla cuffia di merletto. Annuzza ebbe pietà anche di lei, ma non sapeva che altro fare. La tolse dall'imbarazzo Carmela, che si era rifugiata sul balcone. Al sentire dello sfincione, esclamò: "Andiamo!" e porse la mano alla madre. Dopo un attimo di esitazione quella la prese e, senza nemmeno aggiustarsi i capelli, si diresse verso la porta borbottando tra i denti: "Giuro che l'ammazzo!".

Annuzza le seguì strascicando i piedi, nella tasca stringeva l'ultimo biglietto di Giacomo Lepre da consegnare ad Agata.

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3.
Il terremoto e la malattia del maresciallo Padellani



Era una fresca mattinata dei primi di settembre. Le due figlie minori dei Padellani, accompagnate da Annuzza e Nora — la cameriera personale della marescialla —, andavano in carrozza nella casa di villeggiatura della sorella Amalia, costruita in cima a una collina, non lontano dalla filanda appartenente al cognato, Domenico Craxi: la strada che le collegava a Messina era stata allargata in una carrabile fiancheggiata da alberi di gelso, fichi d'india e melograni. I genitori e Anna Carolina le avrebbero raggiunte per pranzo e sarebbero rimasti qualche giorno in villa per vedere Francesco Gallida, il figlio di nove anni di Anna Lucia — la maggiore delle sorelle Padellani, morta giovanissima di parto —, in visita con il padre e la famiglia del secondo matrimonio.

Superato l'ornato cancello della villa, don Totò aveva rallentato l'andatura dei cavalli: la strada diventava ripida e la carrozza traballava a ogni tornante. Carmela, a sette anni già megera, spettegolava sugli abiti indossati alla festa dell'Assunta dalle altre bambine. Agata la lasciava parlare; guardava fuori dal finestrino, meditabonda. Man mano che la carrozza saliva, íl paesaggio si allargava davanti ai loro occhi. Lo Ionio al di là di Messina era piatto e argentato; sotto il faro e fino a Reggio, il Tirreno era blu scuro e increspato. Oltre il faro, i paesini multicolori e le fitte montagne del continente. Era il tempo della caccia al pescespada, il cui percorso migratorio toccava il mare siciliano soltanto due volte all'anno. Lo Stretto era gremito di piccole imbarcazioni modificate e attrezzate per la pesca.

All'uscita della baia ai piedi della collina erano ancorate in formazione piccole scialuppe unite dalle prue e prive di equipaggio, remo o antenna. Da queste si innalzava un albero maestro altissimo, con in cima un uomo legato che poggiava i piedi su un trespolo di legno. Immobile, questi scrutava l'acqua: il suo compito era quello di avvistare il pescespada e guidarvi i marinai. Altre formazioni, ciascuna con l'altissimo albero maestro con vedetta, più o meno equidistanti una dall'altra, costellavano il mare dalla costa siciliana fino a quella calabrese. Ognuna aveva la propria squadra di pescatori in agili imbarcazioni con quattro rematori, un arpioniere e un uomo su un'antenna di modeste dimensioni. Non appena la vedetta avvistava la preda, la indicava con il movimento di torso e braccia, accompagnato da grida acute alla vedetta della barca più vicina. Questa, non meno rumorosa e veloce, dava i propri ordini all'equipaggio, cosicché la barca sfrecciava sulle onde accompagnata dal canto dei marinai. In piedi sulla prua, l'uomo con l'arpione guardava il mare — muscoli tesi, orecchie aperte, occhio scrutante. Le barche balzavano sulle onde a folle velocità e formavano curve e ghirigori, si fermavano e poi giravano di nuovo, rallentavano, incalzavano, e infine sfrecciavano sull'acqua finché il cacciatore non lanciava l'arpione. Lo sfrigolio dello scafo sulle onde era sommerso dal ritmico urlo dei rematori — lento, incalzante, bellicoso — e dalle urla delle vedette — quella dell'albero maestro sulla piattaforma fissa e formata da barche a forma di fiore a petali e quella della barca che seguiva le lance dei pescatori — che si chiamavano e quando non potevano sentirsi si dimenavano come ossessi per comunicare a gesti. Quando la preda era vicina si faceva silenzio nell'attesa del comando dell'uomo con l'arpione, in piedi sulla prua — seminudo, muscoli gonfi, braccia rigide, gambe larghe — come se fosse stato saldato al legno.

Come una vespa, la barca sfrecciava a zigzag sul mare liscio come l'olio. L'uomo urlò e lanciò l'arpione con tutte le sue forze; quello affondò fischiando e scomparve nel mare. L'arpioniere rimase traballante sulla prua e non si mosse più, come gli altri marinai. La corda dell'arpione, arrotolata in una larga mezza botte fissata al fondo della barca, si svolge- va velocissima e alla fine si trascinò la botte a mare. Un urlo della vedetta della barca e i marinai ripresero a remare come dannati in direzione della botte che correva velocissima sulle onde seguendo il percorso del pesce arpionato. Poi cominciò a oscillare e a muoversi come impazzita. Negli spasmi dell'agonia, il pescespada si contorceva creando mulinelli e gorghi d'acqua, poi rallentava; emergeva alla superficie, sprofondava, risaliva ancora una volta, mentre la pelle argentata del ventre brillava al sole riflettendone la luce come uno specchio tenuto sott'acqua. Fino a quando non si inabissò con un sussulto. Al cenno dell'arpioniere la barca si mosse piano per issare dolcemente la preda.


La carrozza saliva sulla collina. L'aria era più fresca. Da lontano, gli inseguimenti del pescespada – centinaia, contemporaneamente, sullo Stretto – creavano sulla superficie del mare arabeschi di schiuma bianca, subito cancellati; le barchette sembravano rondini che volavano sull'acqua, su cui galleggiavano fiori dal lungo pistillo. "Lu spaduni mi piaci assai," mormorò Annuzza, e si leccò il labbro rugoso, sicura di gustarlo: dai Craxi non si lesinava sul mangiare, e Amalia gliene avrebbe fatta dare una bella porzione.

"Mmm," le fece eco Agata. Anche lei era golosa. Fece un sorrisetto triste, poi rabbrividì.

Dopo la festa dell'Assunta, Giacomo si era dileguato senza darle alcuna nuova. Ogni mattina lei si svegliava all'alba, mangiata dalla voglia di vederlo, bramosa di avere almeno un segno da lui. Invano. Le persiane della stanza di Giacomo rimanevano inesorabilmente chiuse. Non c'era segno di vita neppure sulla fila di balconi dalle ringhiere a petto d'oca carichi di graste di edera assetata, i cui lunghi tralci ondeggiavano al vento. E ogni mattina Agata riviveva lo sgomento dell'attesa e della delusione di quel triste 16 agosto, quando la città, stanca dei festeggiamenti, era assopita, e per strada non c'era anima viva, nemmeno le capre dalle mammelle gonfie che il capraio ogni mattina portava a mungere di casa in casa. Aveva immaginato di tutto: un divieto di rivederla da parte del padre o della madre crudele, un malessere o perfino la morte dell'amato, che lui ce l'avesse con lei per avergli negato il bacio, che si fosse disamorato, che avesse deciso di fidanzarsi con l'altra. Agata non era di natura gelosa e aveva accettato la preferenza della madre per le altre figlie – anzi, spesso compativa le sorelle costrette a subire le attenzioni di donna Gesuela, mentre lei poteva leggere e dedicarsi alle cose sue. Ora invece conosceva la gelosia: il solo pensiero che Giacomo avesse accettato di sposare l'altra la torturava. L'avrebbe preferito morto, anziché felice con quella. Arrivò persino ad augurarsi la propria morte, ma soltanto dopo aver ucciso i due amanti. La gelosia non soltanto le ottenebrava l'intelletto, ma la portava al delirio. Quella mattina in città aveva scrutato dentro le carrozze che incrociavano, cercandolo: avrebbe giurato di averlo scorto almeno due volte, seduto tra due brutti ceffi. Il sangue della caccia al pescespada, la ruvida bellezza della collina e gli aspri profumi agresti acuivano desiderio e angoscia. Sentiva freddo. Senza dir nulla, Annuzza le mise addosso la coperta di cotone e la incapizzò per bene.


Amalia a ventidue anni era sposa e madre contenta. Prodigava le stesse cure che riversava sui propri figli a quelli di primo letto del marito, e quello, grato, non ostacolava la prodigalità della giovane moglie nei riguardi dei Padellani. Amalia aveva ereditato l'allegria del padre e l'attenzione per la buona cucina della madre; gli ospiti dei Craxi si trovavano bene. Agata e Carmela si divertirono a giocare con i nipoti. Dopo i rinfreschi, la governante inglese di Francesco, il nipote calabrese, li aveva portati in giardino. Passeggiavano cantando per i viali ombreggiati e i più piccini saltellavano al ritmo delle canzoni. Raggiunto il belvedere, si buttarono a riposare sulle coperte disposte sotto i pini, ma non Agata. Lei guardava il panorama e si sentiva isolata dal mondo e disperatamente triste. Gli aghi frusciavano al venticello autunnale. L'altissimo faro si stagliava sulle acque blu. Messina era ai loro piedi, Reggio dirimpetto, al di là dello Stretto. La pesca del pescespada era stata interrotta per riaprire il traffico delle navi. Le imbarcazioni che facevano la spola tra le due città lasciavano scie schiumose sul mare blu scurissimo, un'effimera ragnatela che legava isola e continente. Bastarono due velieri battenti bandiera francese che solcavano lo Stretto a scomporre quella parvenza di fili tesi e a rendere evidente la separazione tra le due sponde.

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14.
Dopo il miracolo della Madonna dell'Utria,
Agata nega la vocazione, sta male, offende
il cardinale e finalmente va dalla zia Orsola Padellani



Era poco prima di Mattutino, in giro non c'era anima viva. La campana dei forestieri risuonò lungo i corridoi delle novizie. Agata, febbricitante, delirava. Aveva perso conoscenza più di una volta, e la badessa aveva chiamato di nuovo il dottor Minutolo. Aiutato da donna Maria Immacolata, la sorella farmacista, il medico salassò la giovane e la costrinse a bere dei decotti che le abbassarono la temperatura. Agata cominciò ad assopirsi e il medico la lasciò con Angiola Maria. Prese la via del ritorno attraverso il meandro dei corridoi, discutendo con la sorella farmacista le cause del malessere. Al tintinnio della campana, le novizie correvano a origliare dietro la porta. Ognuna aveva pronta la sua storia, vera o non vera: Agata aveva avuto delle visioni celestiali, le erano comparse le stigmate, la Madonna dell'Utria la chiamava a sé, in cielo. Non c'era novizia, o postulante, o educanda che non volesse congratularsi per il miracolo e verificare di persona la propria versione dell'accaduto. Il viavai nella stanza di Agata, iniziato dopo Mattutino, non si arrestò per tutta la giornata.

Agata aveva ripreso a vaneggiare; nei giorni seguenti rifiutò cibo e medicine, col risultato che le ritornò la febbre alta. Questa volta il medico diagnosticò una diffusa debolezza di mente e corpo e prescrisse riposo totale, mangiare in bianco e brodo di carne. Per evitare le visite, la badessa mandò Angiola Maria a farle da guardiana. Nel frattempo, la fama del miracolo si era allargata dal rione all'intera città di Napoli e aveva raggiunto tutti i monasteri. La "Gazzetta di Nido e di Capuana" lo aveva riportato col massimo clamore e le richieste di incontrare la "miracolata", come Agata veniva chiamata, fioccavano da ogni parte.


Prigioniera del monastero, tradita e abbandonata dalla madre, Agata era in balìa degli eventi. Se la prendeva con Angioia Maria, che, su ordine della badessa, non la lasciava mai sola. E quella sopportava paziente e mormorava "Miracolata mia, miracolata mia" a tutti gli sgarbi. Agata rispondeva a monosillabi e per i primi giorni non volle lasciare il letto. Rifiutava di lavarsi, pettinarsi, perfino di cambiare la biancheria impregnata di sudore. Quando apriva gli occhi, li fissava sulla parete disadorna di fronte a lei. Odiava il proprio corpo, che era ormai il solo oggetto del suo potere. Lo privava di nutrimento e lo feriva, ficcandosi le unghie nelle braccia e tagliuzzando con un vecchio rasoio da tonsura la pelle delle cosce con tagli paralleli. E deperiva a vista d'occhio.


Il dottor Minutolo camminava meditabondo lungo il portico del chiostro, a passi strascicati, dietro la serva che suonava la campana – un'altra vittima di quel male, questa volta una giovane conversa rosa da un cancro al seno. Lui non se ne dava pace. Rallentò per dare l'opportunità alle due giovani monache che oziavano attorno alla fontana di nascondersi dalla sua vista. Passava davanti ai salotti della badessa, che di solito erano chiusi. Quella mattina stavano cambiando la disposizione dei quadri nella prima sala di ricevimento per aggiungerne uno nuovo, regalo della regina. Martello in mano e in cima alla scala puntellata contro il muro da due converse, Angiola Maria aspettava l'ordine di piantare il chiodo, mentre altre due converse, in punta di piedi, reggevano il quadro con le mani e lo spostavano lentamente lungo la parete sotto l'occhio attento della badessa.

Alla vista del medico, donna Maria Crocifissa lasciò le converse per andargli incontro. Ambedue avevano conosciuto monache che avevano portato il digiuno agli estremi, e lei era determinata a evitare che lo stesso succedesse ad Agata; discussero a bassa voce il da farsi e conclusero che un cambiamento d'aria sarebbe stato benefico: Agata sarebbe andata dalla zia Orsola non appena ricevuto il permesso dalla madre. Altrimenti, la badessa avrebbe dovuto chiederlo al cardinale.

Il dottor Minutolo aveva ripreso il cammino e il tintinnio della campanella echeggiava nel chiostro. La badessa era ritornata al compito interrotto. "Spostatelo un dito a destra, poi è perfetto!" ordinò, ma il quadro non si mosse: ciascuna delle converse elaborava e considerava quanto aveva afferrato dalla conversazione di quei due, per ripeterlo alle altre.


Agata ricordava i capelli lisci e corvini e l'aura di potere del cardinale, quando aveva officiato il funerale del padre. Seduto al tavolino rotondo della badessa, le sembrò rimpicciolito. Le porse la mano inanellata e dopo il baciamano la trattenne in piedi davanti a lui; la osservava, incerto, con uno sguardo scrutante che mutava dal benigno all'ostile. La badessa si era appartata su una seggiola e leggeva delle carte.

"Ho sentito che non mangi. Fai male, figliola," le disse, paterno. "Nostro Signore vuole che le sue monachelle siano in buona salute e contente."

"Eminenza, cercherò di mangiare."

"Avete sentito, donna Maria Crocifissa?" disse allora il cardinale rivolto alla badessa. "Vostra nipote ha promesso di comportarsi bene e di mangiare." Poi si girò verso Agata e ripeté ad alta voce, con un tono minaccioso: "Hai promesso, non è così?". La guardava, e le sue pupille la incantavano. Agata cominciò a tremare e perse di nuovo la voce; annuì calando la testa ripetutamente, senza smarrire il contatto degli occhi. Dopo un tempo che le era sembrato interminabile, il cardinale sollevò il braccio come se volesse benedirla. Agata calò lo sguardo, in segno di rispetto. Una mano le sfiorò la guancia e poi seguì il contorno della mandibola. Una fiera taliata e poi il riflesso immediato — Agata respinse quella mano con uno schiaffo. Sbalordita dall'enormità del proprio gesto, pavida, attendeva l'inevitabile.

"Perdonatemi, Eccellenza..."

"Donna Maria Crocifissa, andiamo dalle sorelle, ci aspettano. Agata ha promesso. Rimarrà con voi." Il cardinale non distoglieva gli occhi dal viso smunto di Agata. A capo chino, lei fissava la croce sul petto di porpora, poi su, su, fino al pomo di Adamo e sul rilievo azzurrastro della vena gonfia, sul mento liscio, sulle labbra strette, sul naso leggermente aquilino. Fin quando non inchiodò lo sguardo in quello di lui.

"Puoi andare."


Da allora, Agata si incaponì nel digiuno. Voleva la madre e chiedeva di lei ogni giorno. Negava la vocazione e ribadiva la sua determinazione a lasciare il monastero. Quel parlare, dopo il miracolo della Madonna dell'Utria, dava scandalo. Le parole di Agata rivelavano che confondeva realtà e fantasia. Per questo, e anche per assecondare il suo desiderio di solitudine, la badessa le concesse di rimanere nella sua cella, in attesa del consenso della madre a mandarla dalla zia Orsola. Ma donna Gesuela se n'era andata a Palermo senza dirle se e quando sarebbe tornata.

Quando venne a saperlo, Agata cominciò a rifiutare anche l'acqua. Si tormentava i capelli, se li strappava a ciocche. A quel punto la zia Orsola decise di assumersi la responsabilità e se la portò a palazzo Padellani.

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Il portiere del palazzo in cui abitavano gli Aviello aprì lo sportello con un grande inchino. Abbagliata dalla luce riflessa dalla bianca pietra dell'edificio, e sgomenta alla vista degli uomini che bighellonavano lì davanti e nel cortile, Agata vacillava. Poi Sandra la prese per il braccio e cominciarono a salire la scala. La madre l'abbracciò come se si fossero lasciate da poco; commentò soltanto la sua altezza – Agata era cresciuta molto – e non accennò né al passato, né al futuro. Carmela, ormai una signorina, si attaccò alla sorella e le stette accanto come un'ombra tutto il giorno. Agata riconosceva i segni del tempo e delle vicissitudini della vita sui volti delle tre: il bel corpo della madre era diventato pingue; vestita sontuosamente, la generalessa faceva ancora una gran bella figura, ma di tanto in tanto un'ombra le calava sullo sguardo e allora lei si stringeva le dita ingioiellate come se volesse farsi male. Sandra era dimagrita. Vestita senza cura e tesa, sembrava pensierosa; ma quando le sorelle ne incrociavano lo sguardo, Sandra era pronta al sorriso. Carmela era diventata una fiorente tredicenne dai modi spiccatamente provinciali e molto simile alla madre.

Quelle due settimane sarebbero dovute essere la prova finale del rifiuto della vita mondana da parte della postulante, ma in realtà per la prima settimana Agata si era ritrovata in una semiclausura. Non le fu permesso uscire in città, né fare passeggiate a piedi o in carrozza. Ricevette poche visite dai parenti curiosi della sua dote – lei era considerata una messinese e dunque diversa –, ma nessuno era davvero interessato a lei.

Quando non c'erano visite, la madre e le sorelle uscivano e la lasciavano sola. Le era gradito, perché ormai sentiva la mancanza della solitudine. Si avvicinava titubante al pianoforte, e suonava, insicura; a poco a poco riacquistava una certa dimestichezza, lontana tuttavia dalla perizia di un tempo. Leggeva tutto quello che le capitava sott'occhio e parlava, quando erano soli, con il cognato. A quarant'anni, Tommaso Aviello era un bell'uomo dai capelli brizzolati. Agata lo ricordava come uno che credeva con passione nei capisaldi della carboneria – l'uguaglianza e la dignità degli italiani, uniti in uno stato retto da una monarchia costituzionale –, fiero che, nel 1820, il Regno delle Due Sicilie fosse stato l'unico al mondo ad aver indetto un'elezione a suffragio universale, anche per gli analfabeti. Lo considerava un sognatore con i piedi per terra che manteneva il buon umore e un avvocato perspicace che analizzava e risolveva le situazioni più complicate.

Adesso, Tommaso era scoraggiato. Aveva sperato che il re si rendesse conto di avere la possibilità di unificare la penisola allargando il regno verso nord. Ma il re s'era trincerato dietro il più bieco isolazionismo e, insicuro della lealtà delle truppe regie, aveva umiliato i militari impiegando mercenari e indebitandosi con i banchieri Rothschild. Aveva gradualmente eroso le libertà conquistate, mentre la polizia e i servizi segreti avevano accresciuto i ranghi e il potere con i loro successi: la popolarità di Mazzini era in calo, la Giovine Italia, il movimento da lui fondato, aveva fallito in ben tre colpi insurrezionali, e Napoli non era più il fulcro della carboneria. Tommaso temeva che il movimento a cui aveva dedicato la vita stesse per estinguersi in tutta l'Italia.


Poi Tommaso riprendeva coraggio e parlava del Primato degli italiani, della possibilità di una unione doganale e di una federazione tra gli stati italiani con alla testa lo Stato pontificio – ma il papa era un reazionario. "Qualcosa dovrà pur succedere, il popolo patisce e il nazionalismo non può essere soffocato. Napoli è tuttora piena di società segrete. Il re, umiliato dagli inglesi che dominano i mari e il commercio, si comporta come un loro subalterno – si deve ben scuotere, lo farà!" Tommaso sembrava speranzoso. Dopo poco piombava di nuovo nel pessimismo. "La situazione interna è precaria. Come tanti, dovrò considerare la via dell'esilio, andare in Toscana. Non ho quasi più clienti, e devo mantenere la famiglia." Più di una volta le disse che non si fidava del generale Cecconi, un tempo reazionario, che ora sembrava volersi avvicinare alla carboneria. Era una spia della polizia.


Nonostante gli amari sfoghi, Tommaso usciva spesso e da solo, e allora aveva un incedere baldanzoso e tornava a casa di buon umore. Agata pensava di non poter contare su un uomo che fluttuava dal depresso all'esaltato, ed era preoccupata per Sandra.


L'arrivo del generale Cecconi, un anziano di bella presenza, dai baffi e barba candidi e sopracciglia nere e cespugliose, provocò un cambiamento nella madre – Gesuela divenne tutta sorridente, parlava con voce pacata e soddisfaceva con diligenza ogni sia pur piccolo desiderio del marito. Stavano a casa e ricevevano visite da parenti e amici, a cui Agata doveva presenziare. Il generale nutriva il più assoluto disinteresse nei confronti di Agata e Carmela, mentre non perdeva occasione per parlare con Tommaso e fare complimenti a Sandra.

Ad Agata capitò di sorprendere Sandra in lagrime. Sedeva su una poltrona quasi incurante. Sembrava cercare una liberazione. Agata non chiese, ma Carmela poi le confidò che Sandra era infelice perché il marito non le voleva più bene – lo aveva sentito dire dalla madre.

Agata trovava insopportabili la conversazione di società, i modi affettati e perfino la compagnia dei familiari. Giunse al punto di rimpiangere la quiete del chiostro. E la agognò, disperatamente, quando, durante una visita della zia Orsola, la madre le comunicò il programma del cugino principe.

"Michele e Ortensia daranno un gran ricevimento per un duca inglese di sangue reale, venuto espressamente per presenziare alla cerimonia della tua professione semplice," le disse mentre prendevano il gelato.

"E come lo sa, questo inglese, della mia professione semplice?" Agata era sospettosa.

"Suvvia, non fare quella faccia! I principi di Opiri hanno relazioni con reali stranieri, ne vengono tanti a Napoli. Michele avrà parlato di te con loro." Gesuela cercava l'aiuto della cognata, che non le fu offerto. Poi, vedendo la figlia ansiosa, aggiunse: "È un onore, per noi tutti. Mi aspetto che tu mi faccia fare bella figura". Intervenne il generale Cecconi; con la sua voce poderosa spiegò ad Agata che la recente ripresa dei contatti diplomatici con l'Inghilterra e altre nazioni europee aveva aumentato numero e qualità dei viaggiatori stranieri a Napoli e anche a Palermo – panfili di reali erano frequenti ospiti dei porti del regno e molti visitatori di riguardo svernavano nei nuovi grandi alberghi o erano ospitati nei palazzi dei nobili e di commercianti e imprenditori arricchiti. Il generale si guardò intorno con prosopopea e finse di non notare il comportamento di Tommaso: da quando lui aveva preso la parola, quello aveva girato la testa verso la finestra e sembrava fissare i tetti del palazzo di fronte.

Ruppe il silenzio la zia Orsola, fino ad allora in disparte: si offrì di regalare ad Agata un abito da sera castigato, per il ricevimento, ed espresse il desiderio di prestarle una parure di ametista e filigrana d'oro. Chiese anche se la nipote poteva dormire da lei, la notte del ricevimento.

Agata non poteva indossare alcun gioiello, doveva portare l'abito scuro da postulante, il velo corto sui capelli e ai piedi le scarpe moniali di pelle nera, le rispose Gesuela, piccata. Il marito intervenne di nuovo, e la persuase a soddisfare la cognata sull'ultima richiesta: per quella notte, Agata avrebbe dormito dalla zia.

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