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| << | < | > | >> |Pagina 11Mi hanno vestito con le mie cose migliori. Il doppio corteo funebre si snoda lungo le strade di Pezzino e rallenta davanti alla chiesa del Purgatorio. Lì, quarant'anni fa, sono state celebrate le tue nozze con Tommaso, nella stessa chiesa in cui lui aveva sposato tua sorella Mariangela. Io non c'ero; Tommaso mi aveva consigliato di non farmi vedere a Pezzino, dove ancora si parlava del "fattaccio" a causa del quale ero andato a vivere con la sua famiglia. Ma dopo i tuoi racconti era come se ci fossi stato anch'io alle vostre nozze: Giulia, cinque anni, seduta nel primo banco con i Belmonte, la tua famiglia, lontana dalla sorella maggiore, Mara, seduta anche lei in prima fila ma dal lato opposto, insieme alla nonna da cui aveva preso il nome, donna Mara Carpinteri. Quando Giulia vide suo padre infilarti la fede al dito lasciò il suo posto e avanzò dritta dritta verso di voi: anche lei voleva un anello. Tommaso era imbarazzato, allora Giulia si rivolse al sacerdote, che lo dicesse lui al suo papà di darle l'altro anello, e lo indicava con la mano sul cuscinetto di velluto. Tu, svelta, ti sfilasti la fede e la mettesti al pollice di Giulia; poi lei te la restituì e ritornò al suo posto tutta contenta. La tua salma è in testa, austera; sulla bara, un cuscino di gigli e violette. L'altra salma, la mia, è coperta da una profusione di corone e mazzi di fiori offerti dai miei parenti. Sul portale barocco, le figure discinte dei purganti contrastano con la sobria facciata catalana. Una vecchia che stava per entrare in chiesa si ferma sul sagrato, interdetta, e osserva la colonna di vetture nere dai vetri scuri. Il corteo prende la via principale del paese. Sul marciapiede davanti al bar del Centro – quello dove ho lavorato da ragazzo – i clienti posano i bicchieri di vino e i boccali di birra sui tavolini, in segno di rispetto. "Tosti, 'sti Lo Mondo," fa uno. "Non si fermarono davanti a niente!" sussurra un altro al vicino, con la mano a conchiglia sulla bocca. "Per difendere la famiglia e vendicare l'onore!" risponde quello in un bisbiglio. "Ricchi sono diventati..." "Vero è, ma sono scantusi. Dai 'fatti' non si sono più visti in paese." "Ti sbagli, ai ricevimenti del sindaco si fanno vedere. Solo con la gente povera come noi non vogliono stare."
"Non hanno paura di nessuno, altrimenti non avrebbero voluto il funerale in
paese." E poi, a bassa voce: "Arrivò un forestiero troppo curioso sui fatti
antichi... E i Lo Mondo lo sanno".
Mi hanno voluto bene, i miei fratelli. Un ragazzo già brillo dice ad alta voce: "Dicono che lui si ammazzò per il dolore della morte della Carpinteri", e subito viene tacitato. Da un tavolo si leva una voce: "No, no, a quello le donne non ci piacevano tanto". "E non poteva essere sotto soggezione della Carpinteri. Vecchia era, gli poteva venire madre..." riprende il ragazzo. Un altro: "Si sentono dire storie di anziane ricche che seducono uomini più giovani...". "Seducono? Accattano, dovreste dire! Se c'è denaro sotto, tutto è possibile. Le fimmine addiventarono come i masculi," commenta il ragazzo, e poi si scola il bicchiere di vino. "E più strano ancora è che l'arciprete officia al crematorio. Persone importanti dovevano essere, questi due. E noi niente ne sappiamo!" sospira una ragazza molto giovane con una grossa croce d'argento al collo. Il suo vicino ha sollevato un boccale di birra. "Il crematorio!" esclama sarcastico prima di portarsi il boccale alle labbra. "Ne sentivamo la mancanza a Pezzino, con le fognature da rifare, i tubi dell'acqua che perdono e le strade piene di buche. Se quelli della Comunità europea che ci hanno dato i denari sapessero che succede di notte al crematorio..." "Perché? Che succede di notte al crematorio?" chiede un giovanotto baffuto e ben vestito.
"Niente, niente succede," l'uomo del boccale di birra si
è accorto che il gestore del bar, appoggiato alla porta, lo sta
fissando, "scavano pirtusi per piantare le rose 'della Rimembranza' e potano gli
arbuli e abbruciano i rami nel crematorio, così, per non lasciarlo arrugginire.
Cca i cristiani vogliono andare sotto terra, insieme alla loro famiglia."
"Tu si' nuddu ammiscatu cu nenti," mi disse lui, sprezzante, e, rivolto a lei: "E tu pure, anche tu si' nuddu ammiscatu cu nenti". "A cu apparteni la morta?" chiede un giovane; aspetta insieme ad altri che passi il corteo, per attraversare la strada.
"Nenti, a una famiglia di Zafferana ca finì. Suo padre era
un medico, mezzo parente della madre dell'ambasciatore,"
risponde un vecchio distinto con il cappello in mano.
È la mia fine. La fine di Bede Lo Mondo. Niente. Nessuno. Nuddu. E così anche di Anna. Lo sapevamo che saremmo morti nello stesso momento. Un presentimento di sempre. Presto saremo polvere. Dall'alto, vedo tra i tetti di tegole a cannolo la cupola del crematorio e le nostre famiglie in corteo, come se già noi fossimo estranei. Nella prima vettura Luigi, unico figlio di Anna, cinge la vita della giovanissima moglie Natascia. Dal sedile di dietro, Giulia rivolge lo sguardo opaco alla facciata della chiesa; Pasquale Romano, il suo compagno, le siede accanto, a gambe larghe – la coscia incollata alla sua. Una seconda vettura ospita Mara, la primogenita: guarda fuori dal finestrino, pallida; accanto a lei siedono compunti Alberto, il suo ex marito, e Ada, la prima moglie di Luigi. In coda, quattro vetture strapiene seguono quelle dei Carpinteri; a bordo ci sono i miei parenti stretti – fratelli, cognate, nipoti e pronipoti. Il corteo si avvicina alla chiesa madre. A differenza della chiesa del Purgatorio, il portale monumentale è decorato con festoni di frutta polposa come un albero della cuccagna. Il grande cortile a scacchiera di pietra lavica e marmo bianco brilla lucido sotto il sole. I passanti sono allineati lungo il marciapiede. Alcuni fedeli si fermano sul sagrato e accennano un segno di croce. "La ricordavo dissestata, la pavimentazione," dice Luigi. Giulia sorride saccente. "Piazza, sagrato e facciata sono stati restaurati con fondi della Comunità europea, per la maggior parte finiti in tasca a politici che conosciamo bene..." "Chi sono questi politici?" pigola Natascia.
Luigi le prende la mano e le bacia le dita, a una a una: "Ne
vedrai uno al crematorio, amore. Non ti piacerà".
Manca poco. La fine. Nell'automobile di mio fratello Gaetano, suo nipote Tanino chiede a mia cognata Assunta: "Nonna, oggi mangiamo la pasta con il ragù, vero è?". Lei scuote la testa: ha dimenticato di prepararlo, il ragù di carne. Tanino sbraita: "Me lo avevi promesso!". "Avresti potuto cucinarlo stamattina, Assu'," dice Gaetano, severo, alla moglie. "Come ti viene di dirlo?!, con tuo fratello morto..." sibila lei. "Che c'entra!" esclama lui esasperato. Bede è morto, e 'u picciriddu deve mangiare!" Nella vettura non si parla d'altro che del ragù, fin quando arrivano al crematorio.
Fa un caldo asfissiante. Il cielo è quasi bianco, non un uccello
lo attraversa. La luce di mezzogiorno abbaglia. Le bare
fanno il loro ingresso nella cappella funebre seguite dai
Carpinteri, dai miei parenti e poi dalle famiglie Gurriero e
Pulvirenti, che aspettavano davanti al crematorio.
"Nuddu ammiscatu cu nenti," ripeteva lei quando parlavamo della nostra morte. "Mi sta bene, essere il Nenti del tuo Nuddu. Una volta polvere, mi piacerebbe se fossimo trasportati da una spirale di vento a Pedrara. Così ammiscati, il Nuddu di te e il Nenti di me cadranno come pioggia sugli oleandri che costeggiano il fiume, quelli dai tronchi attorcigliati e piegati dalle fiumare, con i grappoli di fiori che lambiscono l'acqua." I figli di Gaetano chiudono la porta e si appoggiano contro le ante.
"Siamo qui per celebrare i funerali di Anna Belmonte,
vedova dell'ambasciatore Tommaso Carpinteri, e di Bede Lo
Mondo," dice l'arciprete, e dà inizio alla cerimonia.
È il mio momento finale. Il catafalco scivola sul nastro, passo sotto la tenda di raso bordata di una frangia dorata e lì aspetto il mio turno, dopo la cremazione di Anna.
L'inserviente – mani forzute, impeccabile uniforme grigia
profilata di raso nero e scarpe da ginnastica nere decorate
con frecce bianche – apre la porticina di fronte all'ingresso,
quella che dà sul Giardino della Rimembranza, e prende posizione contro l'anta
come se fosse una cariatide, lo sguardo fisso sulla bara.
Il nastro si muove e le mie spoglie entrano nel forno. Con gesto misurato, l'uomo invita tutti a uscire, puntando il dito sui Carpinteri. Mara, Giulia e Luigi formano la prima fila, equidistanti uno dall'altro, passi in sincrono. Poi, un attimo di confusione: prostrata sull'inginocchiatoio e in lagrime, Natascia non sembra intenzionata a lasciare il banco. Pasquale da dietro la osserva e, spedito, si alza per formare un duo con lei. Ma Natascia non si scolla dall'inginocchiatoio, e lui, inglobato dalla fila seguente, con Ada e Alberto, si ritrova suo malgrado a camminare con gli ex dei Carpinteri. Chi andrà dopo di loro, i miei parenti o i notabili del paese? Il notaio Pulvirenti risolve l'incertezza e lascia il banco con il figlio Pietro, sindaco di Pezzino, e la nuora Mariella, seguito dal dottor Gurriero, medico di famiglia, e sua moglie. Dietro di loro, volti rossi e occhi pieni di lagrime, Gaetano e i suoi tre figli maschi. Poi l'altro mio fratello, Giacomo, con le figlie Nora e Pina. Dopo di loro, a come gghiè, mogli, nuore, generi, nipoti e pronipoti. Uscendo rallentano e osservano stupiti Natascia, singhiozzante sull'inginocchiatoio – i ricci dorati si sollevano ritmicamente sulle spalle. "I familiari del defunto possono scegliere una rosa in memoria del loro caro." L'inserviente scandisce in perfetto italiano la frase che gli hanno insegnato, e poi: "La chiantu e l'abbevero io". Indica il roseto di giovani piante rigogliose, ciascuna con la propria conca. I miei parenti, alla loro prima cremazione, strascicano i piedi imbarazzati. Poi qualcuno bussa alla porta della cappella. Uno scambio di occhiate; i figli di Gaetano rientrano e si dispongono in fila, spalle all'ingresso. L'inserviente sta per seguirli, per vedere chi bussa; si ferma, fulminato dallo sguardo di mio fratello. "Pago io le rose per il Giardino della Rimembranza," gli dice Gaetano scandendo le parole e battendosi enfaticamente la mano sul petto. "Che rose volete?" chiede l'inserviente, e lo ripete: "Che rose volete?". Nessuno gli dà conto. Natascia intanto è apparsa nel giardino, l'abito sudato appiccicato al corpo morbido, tremante; sembra sul punto di svenire: "Luigi, Luigi...". Il marito accorre, lei cerca le sue labbra e si scioglie in un lungo bacio. Davanti a tutti. | << | < | > | >> |Pagina 23La mia era una bella famiglia. Povera.
Mia madre faceva la sarta; aveva una buona clientela e sapeva cucire anche
abiti e pantaloni per bambini. Mio padre
era scarparo; lavorava in un bugigattolo attaccato alla nostra
cucina. Negli anni della guerra, mentre lui era al fronte, mia
madre aveva mantenuto Gaetano e Giacomo con il suo lavoro
e continuò a mandare avanti la famiglia anche dopo che lui
era tornato. Lei sosteneva che la prigionia lo aveva cambiato, la malinconia lo
mangiava vivo, ed era sverso: risuolava le
scarpe svogliatamente, come se il suo mestiere non gli piacesse più. Aveva paura
di un'altra guerra e si era preso il porto
d'armi. Ogni settimana andava nella campagna di zu' Tano,
suo cugino primo e proprietario del bar del Centro, per raccogliere verdura e
stanare conigli; ci rimaneva per delle ore:
sparava alle boatte di concentrato di pomodoro, per tenersi
in allenamento, e si portava a sparare anche i miei fratelli.
Pure io, da grandetto, andavo con loro. Gaetano e Giacomo
erano bravi: sotto il loro tiro, in quattro e quattr'otto la boatta sul muretto
di pietra finiva a terra maciullata. E per invogliare anche me al tiro a segno,
mio padre mi aveva regalato una pistolina di plastica, di quelle che si vendono
nelle bancarelle delle fiere. Ma nulla fece quel regalo. Sparare non
mi piaceva. "Tu sei speciale. Si vede anche da questo," mi diceva lui. Poi
aggiungeva: "Non devi preoccuparti, i tuoi fratelli ti proteggeranno, 'nsamadio
ce ne fosse di bisogno". Lo
vedevo che era pensieroso; ma poi per consolarsi diceva che,
a differenza di Giacomo e Gaetano, che erano scontrosi di
natura, io andavo d'accordo con vecchi giovani ricchi poveri
fimmine e masculi. E perfino con gli animali.
A mia madre piaceva raccontarmi come fu che io, terzo figlio in una famiglia che faticava a tirare avanti, venni a nascere a casa loro. Lei cuciva fino a notte tarda e di giorno faceva i servizi, badava alla famiglia e vedeva le clienti; era già sulla quarantina e si stancava assai: desiderava una figlia femmina per aiutarla e avere compagnia, ma mio padre non ne voleva sapere. Alla fine si rivolse a una magara, e quella preparò delle pozioni da dare a mio padre di nascosto e fece gli scongiuri giusti. "Masculo eri, e non me l'aspettavo," mi diceva mia madre, "ma bellissimo e bianco di pelle come 'u Signuruzzu. Allora capii che era speciale 'stu figlio mio, e buono come un angelo mi doveva crescere. Così fu: bello e buono vinisti. Tuo padre voleva chiamarti Bede – dice che ne conobbe uno nel campo di concentramento –, ma al municipio ti scrissero Benedetto." "A scuola devi chiamarti Del Mondo Benedetto," mi disse, quando andai in prima elementare. Da allora accettai di avere due "io", Bede e Benedetto, e ci stavo bene. Per me si sarebbero tolti il pane dalla bocca, i miei genitori e i miei fratelli. Alla fiera di Pezzino, mio padre trovava sempre i denari per comprarmi i giocattolini di plastica che mi piacevano; i fratelli mi portavano i primi fichi d'india maturi e bastava che io esprimessi il desiderio di una verdura – gli zarchi, la burrania – che quelli andavano a raccogliermela nella campagna di zu' Tano. Mia madre era più severa, ma anche lei cercava di accontentarmi quando poteva. Io ero la sua ombra. Faceva i lavori di casa in silenzio e io, zitto zitto, l'aiutavo – stendevamo la lavata sui fili nell'orto, stricavamo insieme le pentole di rame con la sabbia del fiume, spazzavamo il pavimento e passavamo lo straccio con il bastone, lucidavamo le basole degli scalini. Mentre cuciva, mia madre era tutta un cicalio. Raccontava cose che le avevano insegnato a scuola e storie di famiglia e delle clienti, che lei avrebbe desiderato frequentare. Erano povere anche loro, ma a paragone di noi benestanti e lei non osava fare il primo passo. Mia madre era gelosa e protettiva con me – "perché sei speciale," diceva. Non mi permetteva di giocare per strada, ma gli altri bambini erano benvenuti a casa nostra. Imparai presto a togliere imbastiture, appattare bottoni, allisciare la stoffa con le mani prima di piegarla e riporla nel cassetto, mettere in ordine gli scampoli per colore e qualità, esaminare tutti i ritagli per trovare quelli adatti per fare le impugne, rettangolari per le pentole e quadrate, più piccole, per le caffettiere. Mi piaceva preparare gli strati di feltro che poi lei avrebbe tagliato per imbottire le spalline, rinforzare i reggiseni con la tela messa di traverso, cucire automatici e gancetti: tutti lavori di precisione. Era una goduria toccare le tele ruvide, le cotonine soffici, i feltri morbidi, il popeline incerato e il raso scivoloso, e poi passare il naso a cercare l'odore di ciascuno. Annusavo anche i corpi delle clienti: il profumo del borotalco applicato con il piumino sulle spalle, sotto i seni e le ascelle, l'odore acre delle cosce e dei piedi sudaticci. Quando invece mia madre voleva stare sola con loro, andavo a sedermi accanto al banchetto di mio padre. Lui lavorava in silenzio. Respiravo il profumo intossicante della colla, gialla come l'oro e densa come il miele, quello pungente della pelle di vacca conciata, quello maschio del cuoio. E ascoltavo il picchiettio del martello sui chiodini, i colpi forti sulle tomaie, il rumore secco delle sforbiciate sulla pelle di capra, lo stridere della lama da affilare sulla striscia di cuoio. A volte lui raccontava storie di guerra. Non le finiva mai; a un certo punto non parlava più. Gli seccava la gola, e lasciava la frase a metà. Allora, ognuno pensava alle cose sue. Ma a me piaceva soprattutto assistere alle prove delle clienti. Le ragazze prosperose in sottoveste erano una meraviglia. Mia madre appuntava sulla pettorina, con gli spilli, la stoffa per il corpetto già tagliata, drappeggiava sui fianchi quella per la gonna, formava le pieghe e le fissava in vita. Tutto occhi per le loro carni, rosate, tonde e soffici, io porgevo gli spilli. Avrei desiderato essere come loro. Una volta cercai di accarezzare il braccio ben tornito di una ragazza. "Garrusu pari Bede, ma 'un c'è!" disse quella, e rideva insieme alle altre, e ridendo mostrava i bei denti bianchi.
Mia madre mi carezzava i capelli, dolcissima. Lei sapeva già.
Ora vengo da te, mammuzza mia, e mi porto Anna. | << | < | > | >> |Pagina 71Il lavoro di mio padre ci portava periodicamente all'estero; quando la missione finiva e lui doveva rientrare in Italia vivevamo a Roma, in affitto. Dovunque fossimo, per le vacanze estive si tornava a Pedrara. Sempre. Lui, che della famiglia si curava poco, mi invitava ad accompagnarlo nelle sue passeggiate e raccontava. La cava, abitata da migliaia di anni, godeva di un terreno molto fertile e di acqua abbondante; in un remotissimo passato era stata usata come nascondiglio per sfuggire agli invasori d'oltremare e come luogo sacro di sepoltura — le tombe che guardavano la villa dall'alto testimoniavano un misterioso e potente desiderio di immortalità. "È un posto di vita e di morte," diceva lui, "e dunque d'amore. Lo scoprirai crescendo."
Pedrara era il mio solo punto fermo nel mondo e lo rimase
fino all'improvvisa morte di mio padre, quando avevo sedici
anni. Ci lasciò in una situazione economica disastrosa: Bede,
più uno di famiglia che un amico, si offrì di occuparsi della
tenuta e grazie a lui il nostro tenore di vita non cambiò. Ma
da allora non andammo più a Pedrara per le vacanze estive.
Del resto, l'alternativa offerta dalla zia — vacanze al mare,
che significavano vita di comitiva e discoteche — era molto
attraente. Con il passare del tempo, però, cominciai a sentire la mancanza di
Pedrara: proposi alla zia, che vi andava
spesso per affari, di accompagnarla e passarvi qualche settimana. Lei mi disse
che non era opportuno: Pedrara non era
più un luogo di villeggiatura ma un'azienda agricola molto
attiva, con affittuari. Da allora le mie visite erano state brevi, e non tutti
gli anni.
Le ultime ventiquattr'ore erano state intense. Come uno sciame di api, i ricordi mi avevano assaltata e stordita; volevo riprendere possesso di Pedrara presto, prima che la zia morisse, volevo uscire e percorrerla in lungo e in largo, ritrovare i miei posti preferiti. Mi diressi verso l'incavo di un masso, in una radura che si apriva nella fitta boscaglia tra i confini del giardino e la parete a strapiombo. Lì mi rincantucciavo a leggere, a pensare, o semplicemente a guardare il panorama. Il complesso di villa, torre e giardino, poggiava sui gradoni che dai piedi della cava scendevano e si allargavano al fondo valle. Il fiume che dava il nome alla cava sbucava lontano, a occidente. Il suo corso sotterraneo era segnato da un folto filare di oleandri, quasi un boschetto, che qualche centinaio di metri dopo si apriva per accogliere e poi fiancheggiare un antico affluente del Pedrara – il Tenulo, un torrente che scendeva con irruenza a valle da un'altra cava. Non appena entrava nel suo vecchio letto si placava, come un parassita. Le sue acque verdi serpeggiavano nel fondovalle carezzate dai rami penduli degli oleandri. Mi guardai intorno, sentivo un odore sgradevole, come di letamaio. Da una macchia di oleandri veniva una voce sofferente. Mi feci largo fino a uno spazio angusto, in cui era stato creato uno spesso giaciglio di fronde di oleandro e grappoli di fiori. Anche il terriccio era coperto di fronde di oleandro appena tagliate. Un giovane nero seminudo era accucciato appena fuori dal giaciglio, le caviglie legate e le ginocchia piegate quasi a toccare il mento, i polsi immobilizzati dietro la schiena. Soltanto i piedi poggiavano a terra. Mugugnava in un francese grave, oscuro. Le gambe erano lorde di feci fresche, e dallo sporco lasciato sugli oleandri capii che si era rotolato fuori dal giaciglio. Mi avvicinai. Sembrava aver paura di me, ma quando gli parlai in francese si quietò. Mi permise di sollevargli il capo: mento e petto erano incrostati di vomito. Puzzava: le sue gambe erano imbrattate di escrementi. Il giovane aveva lineamenti sub-sahariani – naso e fronte dritti, volto rettangolare – e un casco di treccine chiuse al fondo da una perlina. Gli offrii la mia acqua minerale. Disse che era un clandestino, arrivato con una nave dalla Libia; in attesa di essere mandati altrove, lui e i suoi compagni di viaggio curavano le piantine, "dans les serres, avec les panneaux de verre," specificò. Durante il giorno non si mangiava e per andare di corpo dovevano contenersi e aspettare la sera. "Le chef est très méchant", il capo era molto cattivo. Quella mattina il capo aveva litigato con un bianco e sorprendentemente non aveva reagito alla provocazione. Lui e i suoi compagni avevano assistito alla scena e allora avevano pensato di approfittare della debolezza del capo per ottenere il permesso di andare in bagno durante l'orario di lavoro: era stato scelto lui per fare la richiesta. Ma il capo aveva detto di no e si era messo a gambe larghe davanti alla porta. Con una spinta lui gli era passato davanti ed era corso alla latrina. Lì lo avevano raggiunto due guardiani, neri – "come me," disse con amarezza. Lo avevano picchiato e portato lì, dove lo avevano spogliato, legato e messo sul letto di oleandri. Il giovane tremava. Le ferite erano sporche e brulicavano di insetti.
Ero impotente, eppure mi sentivo responsabile. Abbassai lo sguardo, piena di
vergogna. Sul terriccio, non lontano
da dove erano stati gettati pantaloni e maglietta del giovane,
una fila di formiche trascinavano una piuma di merlo nera,
gialla e bianca dieci volte più lunga di loro; salivano imperterrite sulle zolle
e sulle foglie di oleandro per mantenere la
direzione, scansando accuratamente le perline dei capelli del
giovane, cadute sotto le percosse. Lo guardai. "Vado a chiedere aiuto." Lui si
rabbuiò. "Fidati di me."
Corsi a casa, chiamai Luigi e Pasquale. Raccogliemmo insieme salviette detergenti, disinfettante e due bottiglie d'acqua, poi li guidai alla macchia di oleandri dove giaceva il nero. Ma lui non c'era più, e i suoi vestiti erano scomparsi. "Sei sicura che sia questo il posto giusto?" chiese Pasquale. Annuii, avvilita. "Vedi cose che non esistono," disse Luigi severo. "Tu leggi troppi romanzi," concluse Pasquale. Non risposi. Guardavo le perline sul terriccio umido. La piuma gialla e bianca era sul punto di sparire dietro una felce. | << | < | > | >> |Pagina 121Giulia vagava dalla sala da pranzo all'anticucina e poi alla cucina, e di nuovo a ritroso anticucina, sala da pranzo, anticucina, cucina. Muta. Io la seguivo e le spiegavo cosa era successo a Pasquale, ma era come se non mi sentisse. Continuai a seguirla nel suo circuito chiuso e intanto mi guardavo intorno. Non ero mai entrata nell'anticucina e nella sala da pranzo; e in cucina non ero mai sola, c'era sempre lei o Pasquale, come se volessero controllarmi. Nei tre mesi passati a Pedrara, avevano trasformato quelle stanze in un deposito: tronchi d'albero, radici, fogliame, bacche, spine e frutta secca, pietre, ciottoli, parti di attrezzi abbandonati nei campi, perfino un alveare, che Pasquale aveva raccattato nelle sue passeggiate. Nell'anticucina, libri presi dagli scaffali dello studio di mio padre erano accatastati accanto a tre cesti traboccanti uno di roba sporca, l'altro di roba che sembrava lavata e da stirare e il terzo di una marea di scarpe. Poco più in là, su un foglio di giornale, le ciotole del gatto.Vivevano in uno squallore assoluto. Come la loro vita. Eravamo nella sala da pranzo, in cui dormivano; le lagrime scorrevano sul viso di Giulia. Riconobbi la "sua" mattonella, all'angolo del riquadro centrale. "Vi ho visto," mormorai indicandola col dito, "dal buco della serratura." Lo sguardo di mia sorella vagava dal mio volto al mio dito, alla "sua" mattonella, e di nuovo al mio volto. Poi si gettò sul letto. Tra i singhiozzi protestava di amarlo, e che anche Pasquale l'amava. Lo ripeté molte volte. "Mi ama!" E quando trovò spazio dentro il suo disordine, e forse dentro la rabbia della vergogna, trovò anche altre parole. Disse che era stato abusato da ambedue i genitori e non voleva altri figli perché temeva di ripetere i loro errori: aveva una natura buona, amava il bello. "Sai perché mi ha fatto abortire tante volte? Aveva paura di essere un cattivo padre! Come è successo con quello nato quando lui aveva appena vent'anni e che ora è in comunità." Giulia spiegava che a volte Pasquale non riusciva a trattenersi dal picchiarla, ma poi se ne pentiva amaramente. "Ha tentato di suicidarsi!" Adesso stava migliorando. E lei lo amava come non aveva mai amato nessuno. "Perdonalo anche tu," mi implorò, "abbi compassione di lui." E poi: "Se cerchi di separarci mi ammazzo. Ho soltanto lui!". Le credevo: a Roma, Pasquale l'aveva allontanata sistematicamente da tutte le sue amicizie; e la sua influenza su di lei era cresciuta ancora, nei mesi di isolamento a Pedrara. Giulia, legatissima alla zia, era e si sentiva sola. Emotivamente dipendeva da lui. Promisi di accettare il loro rapporto a una condizione: lei non gli avrebbe più permesso di essere violento. Se mi fossi accorta che lui la picchiava ancora, lo avrei denunciato alla polizia. Era un patto, e come quando eravamo bambine lo suggellammo con un: "Parola d'onore". Giulia mi permise di palparle i bernoccoli sotto i capelli ricci. La persuasi a prendere un calmante e a farmi vedere il resto: lividi, ematomi, abrasioni, ferite. Era il corpo di mia sorella. Un corpo che conoscevo ma che ora dichiarava una sua estraneità. Quello scempio mi spaventava, ma il suo "Mi ama" smorzava lo scatto del mio sentimento. Dove abbiamo giocato? Come ci siamo fatte male? Hai corso? Chi ti ha conciata così? Non eravamo più bambine. Esplorai con le dita, timorosa di farle male, e la mia esplorazione era scandita dai suoi "mi ama". Ciechi e morbosi. Disinfettai le ferite di Giulia e spalmai la pomata sulle contusioni. Poi lei, finalmente esausta, si assopì. Rimasi a guardarla sgomenta. Che altro avrei potuto fare per aiutarla? E meccanicamente mi misi a scattare con l'iPhone fotografie del suo corpo maltrattato. Non avevo nessuna voglia di ricominciare a cercare i gioielli di nonna Mara e andai a prendere una boccata d'aria accanto al gazebo. Lì c'era un gioco d'acqua che mi piaceva molto: fiancheggiata da vasi di lavanda, una vasca di marmo rettangolare stretta e bassa era divisa in due canalette che nascevano da una conca di marmo con un alto zampillo, in stile moresco. Un'estate, Giulia e io avevamo ricevuto in regalo due motoscafi che andavano a pile – una novità per quei tempi. In quel periodo Giulia, gelosissima di Luigi neonato, non si staccava dalla zia ed era mio padre che si divertiva a gareggiare con me. Si toglieva il panama, la giacca di lino e i mocassini. Ci rimboccavamo i pantaloni e, a piedi nudi, entravamo nelle canalette, seguendo e incoraggiando i nostri minuscoli natanti, ognuno nella sua corsia. Papà giocava come un bambino: "Via!", "Corri!", "Sorpassala!". Quel giorno il suo motoscafo stava per raggiungere il traguardo, alla conca circolare lui era pronto a prenderlo prima che battesse contro il marmo. E così aveva fatto, ma troppo tardi: lo spruzzo della fontanella gli era arrivato in testa. "Papà, come sei conciato!" Ero scoppiata a ridere. I suoi bei capelli dorati, solitamente tenuti in ordine dalla brillantina, adesso gli cadevano dietro le orecchie in due ciocche bagnate, rivelando la calvizie accuratamente celata. "Hai la testa pelata come quella dei monaci!" Poi mi ero zittita, aspettando l'inevitabile rimprovero. Invece lui aveva riso con me. "Monaco non è, tuo padre, Mara, ricordatelo. Sta invecchiando, ma non tanto da non riuscire a batterti al gioco." E mi diede il primo e unico bacio al di fuori di quelli rituali, obbligati. Lo amai. Mi sembrò ancora più bello, ora che sapevo.
Sapere, conoscere, condividere, questo mancava a tutti noi.
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