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| << | < | > | >> |Pagina 13Le uscite di Victoria Station erano bloccate dal flusso dei pendolari che si riversavano dai treni e spingevano compatti verso l'esterno. Schiacciata contro il muro dell'arco d'ingresso, Pat inalava profondamente per evitare un attacco di panico. Rimpiangeva ancora una volta di aver accettato, d'impulso, il suggerimento dell'agenzia di lavorare in uno studio legale della periferia. Anziché prendere l'autobus 11 che in venti minuti la portava allo Strand, il quartiere degli avvocati, ora avrebbe dovuto contendere con i pendolari della mattina per raggiungere il binario del treno per Brixton. Poi si sovvenne delle sagge parole di Ron. La sera prima le aveva ricordato che il nuovo lavoro era ben pagato e che probabilmente sarebbe stato meno stressante di quello a cui era abituata; l'aveva rassicurata dicendole che le prossime due settimane sarebbero volate e poi lei sarebbe ritornata agli studi legali della City dove, dopo aver conseguito il diploma, aveva lavorato ininterrottamente come segretaria volante. Pat si fece coraggio e prese a farsi strada contro corrente. Il fiume di viaggiatori taciturni si apriva per poi richiudersi alle sue spalle. Non senza fatica, riuscì a raggiungere il suo treno e a saltarvi su prima che partisse. Seduta accanto al finestrino, Pat arricciò il naso, disgustata: lo scompartimento era disseminato di rifiuti e i sedili erano ingombri di bottiglie, lattine, giornali e sacchetti di carta appallottolati. Il treno costeggiava la Battersea Power Station — sbudellata, un'immensa cattedrale di mattoni rossi con quattro minareti bianchi e altissimi, uno a ogni angolo; poi serpeggiava lento sulla strada ferrata sfiorando gli edifici ai lati, silenziosi obelischi del passato industriale di Londra. Per lo più abbandonati, erano in vari stadi di degrado: su tetti e davanzali, erbacce e piante selvatiche; le finestre, con le intelaiature marce e i vetri rotti; le mura annerite e l'intonaco scrostato. Spericolati artisti anonimi avevano scalato le mura più alte per coprirle di graffiti dai colori sgargianti.
Il treno attraversava una zona residenziale – una distesa di giardini
inselvatichiti e cortili trascurati. Più in alto, la linea dei tetti era
irregolare. Quelli delle casette a schiera, bassi, aguzzi, di ardesia, si
alternavano a quelli piatti dei tozzi palazzoni delle case popolari. Pat
si chiese ancora una volta perché mai avesse accettato un lavoro a Brixton.
Ignaro degli altri, e dagli altri ignorato, un uomo pisciava fuori dalla stazione contro un lampione di ghisa. Pat distolse lo sguardo e attraversò svelta il mercato. I macellai halal lavavano il marciapiede davanti al negozio; sui banconi, mazzi di polli con le zampe legate, appesi a grossi ganci, le creste penzoloni e la pelle ruvida cosparsa di penne rotte come stoppie. A fianco, i macellai giamaicani allestivano un'orgogliosa mostra di zampe di maiale accanto a una montagna di ricciute code rosa. La gente camminava senza fretta. Una donna con un soprabito blu elettrico e tacchi alti si trascinava dietro un valigione che ondeggiava sul selciato irregolare. Incespicava e inciampava, e più di una volta sembrò sul punto di cadere. Anche lei, come Pat, si era fermata al semaforo su Brixton Road. Pat poi l'aveva superata e ora camminava svelta verso lo studio legale Wizens. L'altra la seguiva sbuffando e borbottando. Pat suonò il campanello e rimase ad aspettare davanti alla porta. La donna la raggiunse, anche lei era diretta lì. Nonostante la lunga cicatrice sbiadita che la sfigurava da guancia a collo, rimanevano in lei vestigia di una lontana bellezza. "Sono io, Mrs Ansell!" strillò alla voce che usciva dal citofono, e spinse Pat di lato, bloccando l'ingresso con la valigia. "Fammi entrare, ho bisogno di un'ingiunzione!" Aveva lividi attorno alla bocca e le labbra gonfie. "Deve aspettare l'orario di apertura, non sono ancora le nove e mezzo," rispose la voce. "Fammi entrare, ho detto! Mi ha quasi ammazzato, ieri notte!" La donna ora urlava. "Fammi entrare, Sharon! Fammi entrare!" E riprese fiato. Pat ne approfittò per bisbigliare il proprio nome nel citofono, e la porta si aprì con uno scatto.
Senza lamentarsi, ma in malo modo, Mrs Ansell spostò la valigia per
liberarle il passaggio. Prima di varcare la soglia, Pat le diede uno sguardo di
sfuggita. Accasciata contro il muro, Mrs Ansell
sembrava essersi arresa e guardava lontano, le mani di nuovo aggrappate al
manico della valigia.
Una giovane alta e nera, dai grandi occhi scuri, si era presentata come Sharon Steen – "Sono l'altra segretaria dell'avvocato Booth" – e l'aveva portata nella cucina al primo piano. Mentre prendevano il caffè, Sharon spiegò a Pat che avrebbero diviso la stanza dell'avvocato, che era ostile all'informatica e per questo aveva bisogno di due segretarie. Sharon si occupava dei clienti dalla A alla L, il resto dell'alfabeto sarebbe toccato a lei. Sharon intanto si controllava a una a una le lunghe unghie smaltate rasta. Poi guardò Pat: "Steve è specializzato in cinque campi," e alzò un dito per volta mentre li enumerava, "violenza domestica, diritti di visita, sottrazione di minore, adozioni e procedimenti di tutela – in pratica, quando ti tolgono i figli. La maggior parte dei clienti riceve il gratuito patrocinio, il Legal Aid – ci paga lo stato. Alcuni sono difficili, come Mrs Ansell. Ma in genere sono a posto". Sharon tacque, si era accorta che Pat sembrava stordita. Poi cominciò a darsi dei colpetti sull'indice per controllare che l'unghia finta tenesse e schiuse le labbra carnose in un sorriso luminoso: "Qui si lavora molto, ma non ci si annoia mai. Spero che ti piacerà". "Chi è Mrs Ansell?" Pat moriva dalla curiosità.
"Una donna maltrattata, come tante. Una delle mie clienti. Ma
è una cliente privata, e povera non è! Anche se qui li trattiamo tutti allo
stesso modo, ricchi o poveri. Mrs Ansell ha fatto un sacco di
soldi vendendo abbigliamento per corrispondenza. Poi ha incontrato uno più
giovane di lei, a Kingston, e se l'è sposato: lui si fa
mantenere e la pesta regolarmente. Lei viene qua e pretende un'ingiunzione, come
se fosse la padrona, ma l'indomani sono di nuovo insieme: uno spreco, del nostro
tempo e del suo denaro." E agitò le dita lunghe e magre sotto gli occhi di Pat:
"Ti piacciono le mie unghie nuove?".
L'ufficio era una spaziosa stanza quadrata al pianterreno con una grande finestra sulla strada e una porta comunicante con la sala d'attesa. Sopra gli schedari allineati contro le pareti, lunghi scaffali arcuati sotto il peso di libri e scatole di cartone, ognuna contrassegnata da un'etichetta con il nome del cliente scritto a pennarello; nel centro della stanza, tre scrivanie: quelle delle segretarie una di fronte all'altra, perpendicolari a quella, più grande, di Steve. Il davanzale era pieno di felci. "Steve se le porta da casa e solo lui deve badare alle sue piante. Non innaffiarle mai, nemmeno quando sembrano secche: è l'unica cosa che lo manda in bestia!" Proprio allora entrò Steve: un uomo di età indefinibile, rotondo e dalla calvizie incipiente, in abito scuro e cravatta viola. Era di fretta – aveva un'udienza -, e dunque passò subito a istruire Pat, che prendeva appunti e ogni tanto alzava gli occhi a guardarlo. Le parlava in un modo chiaro e autorevole che la rassicurava. Non aveva chiuso la porta sulla sala d'attesa e controllava cosa succedeva lì dentro. C'era un continuo viavai di giovani avvocati diretti al tribunale e clienti; alcuni aspettavano pazientemente, altri erano nervosi. Un bambino piagnucolava nel passeggino. Mrs Ansell, seduta impettita di fronte alla porta, fissava implorante Steve, che la ignorava e continuava a parlare con Pat. Ogni tanto Mrs Ansell cambiava posizione, accavallava e scavallava le gambe e lo trafiggeva con uno sguardo sprezzante, per poi riassumere l'espressione pietosa. Steve aveva dato a Pat un nastro da sbobinare per il pomeriggio e si era messo a scorrere la corrispondenza. A un tratto si alzò e andò a prendere Mrs Ansell. Sharon diede un'occhiata e riprese subito a lavorare, Pat ascoltò tutta la conversazione. Con poche domande mirate, Steve era riuscito a cogliere il nocciolo della questione. Alla fine aveva comunicato lentamente la sua opinione alla cliente: "Abbiamo abbastanza prove per chiedere un'ingiunzione d'urgenza". E le elencò a una a una: un passato di violenza, un'aggressione recente, lividi ben evidenti, graffi e lacerazioni a sangue, la possibilità di un domicilio alternativo per l'aggressore. Poi guardò Mrs Ansell dritto negli occhi: "È proprio sicura di voler portare suo marito in tribunale?". Lei fece di sì con la testa e allora Steve le disse che doveva andare immediatamente dal medico, farsi rilasciare un certificato e ritornare da lui alle due e mezzo. "Può lasciare la valigia all'ingresso, nessuno gliela ruberà," le disse mentre l'accompagnava alla porta. Poi Steve prese lo zaino e, dopo un saluto frettoloso, uscì anche lui diretto al tribunale. | << | < | > | >> |Pagina 102La squadra di accoglienza era in piena attività. Alcuni assistenti sociali erano alle loro scrivanie – caffè caldo e bottiglia d'acqua a lato –, altri uscivano per far fronte alle prime emergenze della mattinata. Lucretia Barnes li sorvegliava dal suo ufficio, un cubicolo con le pareti di plexiglas in fondo allo stanzone. Leggeva le carte dei Pitt ricevute via fax e teneva d'occhio l'ingresso, ma Fiona McDougall si faceva aspettare.
Aveva in mano la dichiarazione di Lady Annabel Snowball. Nel
primo paragrafo declinava le sue qualifiche: giudice di pace, membro del
consiglio d'amministrazione di vari istituti e opere di beneficenza. I Pitt
erano ricorsi al potere delle classi alte per impressionare il giudice e fare
pressione sui servizi sociali. Miss Barnes non lesse oltre.
All'età di nove anni, Lucretia Barnes aveva lasciato la Giamaica per raggiungere la madre a Londra. Soltanto allora aveva conosciuto il patrigno e le due sorellastre più giovani. La madre lavorava come infermiera in ospedale, il patrigno faceva il portiere di notte in un condominio di lusso a Chelsea e durante il giorno badava alle bambine. Non si curava di Lucretia, se non per costringerla a conformarsi ai modi di fare e alle aspirazioni della borghesia bianca per la quale lavorava, che condivideva con entusiasmo. Lucretia era isolata in casa e a scuola, dove gli studenti bianchi la prendevano in giro per il suo accento giamaicano e la sua diversità. Alle superiori aveva incontrato altri studenti caraibici e aveva fatto amicizia con i più ribelli. Spesso saltava le lezioni e fumava erba. Aveva lasciato la scuola a sedici anni con un giudizio negativo degli insegnanti sulle sue capacità. La situazione a casa era diventata insostenibile, lei si era trovata un lavoretto ed era andata a vivere con un'amica. Era piena di risorse. Mamma all'età di vent'anni, era ricorsa con successo al sistema assistenziale. Era anche ambiziosa e frequentava la scuola serale. Si iscrisse a un'università che aveva fama di incoraggiare le studentesse nere, pur sapendo che conciliare famiglia e studi sarebbe stato difficile. Dopo la laurea aveva cominciato a lavorare come assistente sociale, ma trovava anche il tempo per occuparsi di battaglie femministe e minoranze etniche. Aveva rifiutato il coinvolgimento con i partiti politici, cosa della quale si era pentita dopo aver seguito l'affermarsi dei suoi colleghi sulla scena pubblica. Il padre di suo figlio e non la sua famiglia l'avevano aiutata a badare al bambino, anche se non avevano mai messo su casa insieme. All'inizio perché lei temeva di perdere i sussidi statali riservati alle ragazze madri, e poi perché lui aveva altre donne. Benché si sentisse ingiustamente privata dell'aiuto dei suoi, non aveva interrotto i rapporti. Li chiamava "noci di cocco", ma erano pur sempre la sua famiglia. Una sorella aveva fatto carriera come funzionaria statale, l'altra aveva studiato giurisprudenza ed esercitava la libera professione; ambedue avevano una casa di proprietà e Lucretia voleva dimostrare alla madre che anche lei poteva farcela. Così aveva accettato un'offerta di lavoro presso un comune di periferia, in modo da permutare il suo appartamento con una casa che poi avrebbe potuto acquistare dal comune con un mutuo agevolato. Avrebbe dovuto essere l'inizio della sua ascesa, ma si era rivelato un disastro. Sradicato dal centro di Londra e lontano dal padre, il figlio non si era inserito bene nella nuova scuola, dove i bambini neri erano una minoranza. In casa girava poco denaro perché c'era il mutuo da pagare e lui era diventato un adolescente ribelle ed esigente: rubava e aveva evitato la prigione per un pelo. Allora Lucretia era diventata severa come era stato il suo patrigno, ma troppo tardi. Il figlio aveva lasciato la scuola e si era trovato un lavoro senza prospettive. Il rapporto tra loro si era gradualmente indebolito. Lei conduceva una vita solitaria; manteneva i contatti soltanto con organizzazioni di donne e le attività del sindacato. Non le piaceva più avere a che fare con gli utenti, era insoddisfatta – al tempo stesso aveva bisogno dello stipendio per pagare il mutuo. Si era concentrata per ottenere una promozione a livello manageriale, ma non c'era riuscita perché c'erano tante altre assistenti sociali, anche della sua stessa etnia. Non essendo riuscita a fare carriera aveva cercato l'opportunità di promozione altrove. Era diventata la responsabile della squadra di accoglienza di un dipartimento dei servizi sociali noto per il budget insufficiente e la scarsità di personale. Si era ritrovata in prima linea, costantemente sotto pressione. Oberata da responsabilità, doveva ottemperare alle procedure che si appesantivano continuamente e raggiungere gli obiettivi che le venivano imposti. Quando i suoi superiori avevano deciso di completare l'organico con assistenti sociali stranieri, Lucretia si era offerta di andare a esaminare i candidati in Giamaica e negli Stati Uniti. Ma non l'avevano scelta. Era stato un boccone amaro da mandare giù. Una di quelle nuove reclute, Fiona McDougall, una newyorkese istruita e di buona famiglia, le ricordava le sorellastre e le era stata antipatica dal primo momento. All'età di quarantaquattro anni, Miss Barnes viveva in periferia e passava i fine settimana da sola giocando a poker su Internet. Dava la colpa delle sue sventure all'establishment bianco e non faceva che rimuginare sulla sua personale visione della realtà politica e sociale. Ai suoi occhi, i Pitt incarnavano tutto il marcio del nemico. | << | < | > | >> |Pagina 166Quando aveva iniziato a lavorare per Steve, Pat non riusciva a comprendere la sua insistenza nel lasciare aperta la porta sulla sala d'aspetto; poi aveva capito e si era adattata di buon grado al rumore che proveniva da lì, paragonandolo alla musica pop che rimbombava tutto il giorno nei saloni dei parrucchieri. Lo trattava come musica di sottofondo, ma non sempre riusciva a ignorare quanto avveniva nella reception. Quel martedì aveva captato la voce rauca di Mrs Ansell che chiedeva ripetutamente di vedere Steve. Sharon si alzò per riceverla. "È questo il modo di trattare i clienti privati?" Senza dire buongiorno, Mrs Ansell aveva marciato nell'ufficio seguita da una giovane donna e si era lanciata in una tirata contro Steve, che il giorno prima non l'aveva rappresentata in tribunale. Non le interessava che il suo collega avesse ottenuto per lei tutto ciò che voleva. Lei, Mrs Ansell, non era abituata a essere piantata dal suo avvocato; ne aveva avuti tanti, e tutti l'avevano sempre trattata con gran rispetto. Era un fiume in piena, e ora pretendeva che Steve si tenesse in ufficio la roba del marito, fino a quando non si fosse degnato di andarsela a prendere. Tanto da lei non avrebbe avuto altro, aveva già cambiato testamento e senza dirgli niente aveva fatto togliere il suo nome dall'atto di proprietà dell'abitazione coniugale. A quel punto Steve l'aveva fermata. "Aspetti. Prima di tutto, chieda scusa per essere entrata nel mio ufficio senza presentare la sua accompagnatrice. È una scortesia nei riguardi miei e delle mie colleghe." E con un gesto del braccio indicò Sharon e Pat. Di malavoglia, Mrs Ansell presentò la figlia: spiegò a Steve che si erano allontanate a causa del marito, ma ora erano di nuovo unite e tutto ciò che possedeva sarebbe andato a lei. "Non può cambiare l'intestazione della casa senza darne notifica formale all'altro proprietario, che è suo marito," la ammonì Steve. "A me non interessa, perché avrà i suoi legali, ma è mio dovere dirglielo." Mrs Ansell sghignazzò. "Quell'avvocato non fa tante domande, è per questo che sono andata da lui. Ero stata io a mettere la firma di mio marito sull'atto di acquisto e farò così anche ora."
"Non dica altro," la interruppe Steve. "Deve trovare lei il modo per far
prendere le sue cose a suo marito, non conti su di noi.
Il mio collega potrebbe essere in tribunale anche venerdì, se io non
posso. Sharon le farà sapere." E si alzò per farle capire che doveva andarsene –
aveva appena visto Mavis Clarke entrare nella sala
d'aspetto insieme a un uomo molto più anziano.
"Mio nonno baderà a Stephanie," disse Mavis, e poi presentò timidamente John Turle, un uomo minuscolo che indossava una camicia troppo larga infilata nei jeans e un voluminoso berretto rasta che lo faceva sembrare un grosso fungo. Mr Turle annuiva. "Non mi avevi detto che avevi una famiglia!" esclamò Sharon, e si alzò per squadrarli, alla ricerca di una somiglianza. Mavis ridacchiava. "È stata una sorpresa anche per me. Vai, diglielo, nonno." Mr Turle aveva perso i contatti con la figlia maggiore, la madre di Mavis, quando la nipotina aveva l'età di Stephanie. "Ieri sono andato al Quality Cafe e ho visto quella bambina, era una copia sputata della mia Mavis: stessa faccia monella, stessi occhioni. Le ho chiesto come si chiamava e lei mi ha detto: 'Stephanie'. 'Stephanie come?' le ho chiesto io. 'Clarke. Stephanie Clarke,' ha detto sua madre. Proprio così: davanti a me c'era Mavis, la mia prima nipotina!" Steve voleva saperne di più, e Mr Turle gli raccontò la sua vita. Aveva sprecato la gioventù tra droga e furti, e a trentotto anni era stato in prigione quattro anni: "Quando sono uscito ero un uomo diverso: volevo vivere del mio lavoro e basta. Ho avuto due vite. Una prima e l'altra dopo la prigione". Si era sposato e aveva avuto quattro bambini. Nella vita "di prima" aveva avuto tante donne che gli avevano dato in tutto nove figli. Non aveva più visto la nonna di Mavis e la loro figlia. Mentre era in prigione aveva saputo che gli assistenti sociali si prendevano cura di Mavis, e poi che la madre era morta di overdose: allora aveva dato per scontato che la bambina fosse stata data in adozione. "Il nonno mi ha portato a casa sua, ho conosciuto sua moglie e i bambini. Stephanie va d'accordissimo con Wayne, il più piccolo. Poi sono venute due sorelle di mia madre a conoscerci, ed erano molto gentili. Sarà bello per Stephanie andare a vivere col nonno. Crede che gli assistenti sociali saranno d'accordo?" E Mavis guardò Steve. "Ieri sera mia moglie e io abbiamo parlato a lungo di Stephanie: possiamo prenderla questa piccina, un bambino in più non fa differenza per noi," disse Mr Turle, e aggiunse che sapeva della causa in corso, e che sua moglie – che era stata una madre affidataria – era pronta a prendersi la responsabilità di badare a Stephanie, per sempre. Non c'era tempo da perdere. Era un tentativo in extremis perché l'udienza finale era stata fissata per il lunedì successivo. Steve doveva parlarne con i servizi sociali e chiese a Mavis e al nonno di aspettare nella sala d'attesa. "Bingo!" esclamò Sharon. "Non cantare vittoria troppo presto. Gli altri potrebbero non essere d'accordo," la ammonì Steve, e così dicendo se ne uscì. "Dov'è andato?" Pat si era aspettata che si buttasse nel lavoro. "Non preoccuparti, sta pensando. Tu continua con i Pitt. Io finirò quel che devo fare e poi lavoreremo insieme per Mavis." Sharon aveva un sorriso che le andava da un orecchio all'altro. Steve ritornò con una caraffa piena d'acqua e si mise a innaffiare le piante, soffermandosi su ogni vaso. Poi chiamò l'avvocato di Stephanie, quindi quello dei servizi sociali. Ricevette da ambedue un secco rifiuto di rinviare l'udienza finale: la famiglia adottiva di Stephanie era pronta e non aspettava altro che il consenso del tribunale. Nessuno, inclusa Mavis, sapeva niente su questo bisnonno di Stephanie.
"C'è tanto lavoro da fare," disse Steve a Mavis e a Mr Turle:
avrebbe dovuto persuadere il giudice a imporre ai servizi sociali di
fare i debiti accertamenti su Mr e Mrs Turle, e bisognava preparare le loro
deposizioni e quelle di altri membri della famiglia. Quanto a lui, era disposto
ad andare subito da Mrs Turle.
Pat e Sharon si aspettavano di ricevere da Steve una quantità di nastri che le avrebbero tenute in ufficio fino a tardi. Avevano deciso di finire il loro lavoro il prima possibile e di anticipare il pranzo: avrebbero preso fish and chips al Quality Cafe; i panini che si erano portate da casa li avrebbero riservati per la serata. Lavoravano di buona lena, tutte e due avevano un debole per Mavis. Pat venne più volte interrotta. Jenny Pitt si lamentava delle ragazze alla pari: avevano bisticciato su cosa scrivere, e come scriverlo, nei moduli preparati da Steve per i resoconti delle visite di Mike. Jenny non ne poteva più di tutte e tre, e voleva che Pat andasse lì a spiegare cosa dovevano fare. Poi aveva telefonato Mrs Oboe, apparentemente per verificare l'orario dell'appuntamento con l'insegnante di sostegno di Ali. In realtà, Mrs Oboe aveva una vita solitaria e per lei le loro conversazioni giornaliere erano più una chiacchierata fra amiche che un dovere. Quella mattina era stata al mercato e si lamentava di un verduraio che aveva cercato di venderle dei pomodori marci. Sharon, che aspettava Pat per andare al Quality Cafe, le aveva scritto una mail: Mandala al diavolo!
Per fortuna Mrs Oboe era di buon umore e non si offese quando Pat le disse
che c'era qualcuno in attesa sull'altra linea.
Pat e Sharon se la presero comoda a pranzo. "Da come li guardavi, tu non credevi che Mr Turle fosse il nonno di Mavis. Perché?" chiese Pat. "È successo un'altra volta, con un altro cliente." Sharon spremette sul piatto una più che generosa dose di ketchup, poi cominciò a intingervi le patatine a una a una e mentre le sgranocchiava raccontava: una cliente, dopo un'udienza disastrosa, era andata in un bar di fronte alla High Court e lì era scoppiata a piangere. Un giovane che si era spacciato per un libraio di Chancery Lane le si era accostato per confortarla e si erano messi a parlare. Lui le aveva proposto di indicarlo come padre del suo bimbo; avevano perso i contatti, ma adesso era pronto ad accollarsi le sue responsabilità. Era un ragazzo dall'aria molto per bene e aveva messo nel sacco perfino Steve, che aveva creduto di notare una forte somiglianza con il figlio. Ma qualche settimana dopo il giovane era scomparso e la cliente era stata costretta a dire la verità. Sharon aveva pensato che Mr Turle avrebbe potuto essere un altro di questi buoni samaritani, o un grullo che si era fatto gabbare da Mavis ed era convinto di aver ritrovato la nipotina perduta. Ma ora era sicura che fosse davvero il nonno, anche se sospendeva il giudizio riguardo alla sua sanità mentale nell'offrire di accollarsi Stephanie. Tamburellò con le unghie finte sul tavolo e disse: "Lo smalto si sta scrostando. Che sia davvero il nonno oppure no, con gli straordinari mi farò le unghie nuove". | << | < | > | >> |Pagina 307Kahin aveva telefonato a Steve all'ora di colazione. Avrebbe incontrato la nuova assistente sociale dopo la scuola e poi desiderava parlare con lui, nel suo ufficio. Steve, che aveva già un appuntamento serale con Mike Pitt, accettò, ma non prima di aver chiesto a Pat di restare fino a quando Kahin non se ne fosse andata. Camicia bianca con cravatta, blazer e gonna blu a pieghe, Kahin portava l'uniforme senza alcuna civetteria. Dopo esserle stata presentata, Pat aveva ripreso a battere sulla tastiera. Con un orecchio seguiva il dettato del nastro di Steve, l'altro lo teneva teso a carpire il colloquio – ormai si era abituata ad ascoltare le conversazioni di Steve con i clienti, che non facevano caso alla sua presenza e la ignoravano, come se lei fosse parte della mobilia. "Volevo chiederle scusa per l'altra sera. La madre affidataria mi ha rimproverato e ha detto che non avrei dovuto disturbarla a quell'ora in ufficio. Mi sento in colpa: e poi non ce n'era bisogno, gli amici della madre affidataria sembrano brave persone." Poi Kahin si fermò e disse tutto d'un fiato: "La nuova assistente sociale non mi piace" e tacque. Steve si protese sulla scrivania e aspettò che riprendesse a parlare. Da quando, tre settimane prima, Kahin era stata accolta dai servizi, aveva già cambiato due assistenti sociali. Le avevano spiegato che la prima si occupava soltanto dell'accoglienza di emergenza, la seconda invece l'avrebbe seguita nei successivi tre mesi fino al compimento dei sedici anni, in agosto; poi ne avrebbe avuto una terza, che si sarebbe occupata di lei fino ai diciotto anni. Entrambe le assistenti sociali le avevano posto le stesse domande sulla sua famiglia, sulla scuola e avevano insistito per avere un resoconto dettagliato su quello che era successo, e ognuna aveva voluto sapere i nomi dei suoi genitori, degli otto fratelli e sorelle e dei posti in cui la famiglia era vissuta in Iraq, in Turchia e in Inghilterra. "Ogni volta ci vuole un sacco di tempo per rispondere alle loro domande e per scrivere i nostri nomi, che sono difficili. Quest'ultima avrebbe potuto risparmiarmelo, li aveva già scritti l'altra!" E Kahin sospirò. Aveva detto alla prima assistente sociale che non voleva aver nulla a che fare con i genitori; lei l'aveva rassicurata. Invece ora la seconda insisteva per organizzare un incontro con la madre. Kahin aveva visto anche la tutrice, che le aveva fatto esattamente le stesse domande e aveva voluto sapere pure lei perché si rifiutava di incontrare la madre. "Per favore, gli dica di smetterla! Cercano di forzarmi a vedere mia madre e a tornare a casa. Anche la madre affidataria non fa altro che ripetermelo." La voce di Kahin si era spezzata, adesso aveva alzato la testa e guardava Steve con gli occhi cerchiati di scuro nel viso esangue. "Fanno il loro lavoro," le spiegò lui. "Gli assistenti sociali devono essere sicuri di aver capito i desideri dei giovani. Ti garantisco che non ti obbligheranno a tornare a casa, e neppure a vedere la tua famiglia." "Ma la tutrice era molto insistente," ribatté Kahin. "Io mi fido di lei, perché mi ha detto che se non andiamo d'accordo posso scegliermi un altro avvocato. Posso cambiare tutrice?" "No, il tutore del minore è nominato dal tribunale. Potrei chiedere che venga sostituito un assistente sociale, ma in questo caso dovrebbero esserci motivi molto validi, e non ce ne sono." Steve parlava come se fosse davanti al giudice. "Per favore, dica a tutti quanti che io non tornerò mai a casa, e che non c'è motivo di incontrare mia madre – del resto nemmeno lei vuole vedermi. La smetteranno, se glielo dice lei?" "Il ruolo degli assistenti sociali e anche dei tutori è innanzitutto di riunire le famiglie, non di romperle. Molti giovani che sono stati maltrattati tornano in famiglia quando i genitori riconoscono i propri errori. È meglio vivere a casa anziché con una famiglia affidataria o in comunità. I tuoi genitori potrebbero cambiare. Sono sicuro che ti toglierebbero molti dei compiti che ti avevano imposto; in ogni caso, non lavoreresti più al take-away, è illegale." "Io a casa non ci tornerò mai più. Non mi vogliono, perché ho disonorato la mia famiglia due volte: la prima perché ho parlato con la professoressa, e ora perché vivo con una madre affidataria. Mia madre non ha mai voluto bene né a me né alle mie sorelle, lei c'è soltanto per i maschi." E Kahin abbassò di nuovo la testa. "Ai suoi occhi loro non possono comportarsi male." Tacque. "Ma i tuoi fratelli si sono comportati male con te," osservò Steve. "I tuoi fratelli si sono comportati male," ripeté a voce più bassa, "molto male; dimmi cosa hanno fatto, e poi non avrai più da preoccuparti – glielo spiegherò io ai servizi sociali e alla tutrice." Era una giornata incerta e ventosa. In quel momento i cumuli che avevano coperto il sole vennero spazzati via, e i raggi irruppero nella stanza colpendo i capelli neri di Kahin e facendoli splendere.
Poi, un flusso di parole – precise, pacate e prive di emotività –
senza pause e con tono monocorde, accompagnato soltanto dallo scricchiolio della
penna di Steve e dal suono secco delle pagine voltate.
La famiglia Sivan era arrivata in Inghilterra dieci anni prima. Kahin allora aveva sei anni ed era la settima e penultima figlia: dopo di lei c'era una sorellina. Erano commercianti curdi che, perseguitati dagli iracheni, avevano perduto tutto, e si erano accampati a Diyarbakir, in Turchia; poi erano stati accolti come rifugiati in Inghilterra. Dopo essere stati sballottati per due anni da un centro di accoglienza all'altro, avevano ottenuto la residenza. Le tre sorelle maggiori dovettero occuparsi delle faccende di casa e dei fratelli minori, per consentire ai genitori di lavorare. Il padre importava vestiti che poi vendeva ai grossisti e attraverso una bancarella gestita dalla madre, che in seguito aveva messo su una sartoria dove altre emigrate cucivano capi di abbigliamento etnico adattato al gusto occidentale. Quando l'ultima sorella maggiore aveva preso marito, Kahin, appena dodicenne, aveva dovuto accollarsi la responsabilità della casa e di badare alla sorellina e al fratellino più piccolo, nato in Inghilterra e allora di cinque anni. "Era un lavoro pesante, mia madre non lo capiva perché non lo aveva mai fatto, nel nostro paese aveva dei domestici. I piccoli, che sono cresciuti qui, erano discoli e richiedevano più attenzione di noi figli maggiori, alla loro età." Pat era rimasta ad ascoltare, le dita rattrappite sulla tastiera. Si accorse che Kahin aveva la gola secca, scivolò fuori senza farsi notare e tornò con un bicchiere d'acqua. Glielo mise vicino. Kahin sussultò: aveva dimenticato che lei e l'avvocato non erano soli. Pat si rimise le cuffie e pigiò il pedale. Kahin bevve l'acqua ma aveva smesso di parlare. Le dita di Pat presero a correre più veloci sulla tastiera e solo allora il racconto ricominciò. In quel periodo i due fratelli maggiori vivevano in un appartamento vicino al take-away che il padre aveva aperto per loro. Il terzo fratello, diciassettenne, viveva in casa, ma anche lui lavorava nel locale. Tornava tardi, dopo la chiusura. Voleva cenare e svegliava Kahin perché gli cucinasse, e poi, mentre lei riordinava, rimaneva a guardarla. "Dopo faceva sesso con me," disse Kahin. Qualche volta la prendeva sul pavimento della cucina, altre volte nella stanza che divideva col fratellino. Lei rigovernava piano piano, perché sperava che gli venisse sonno. Ma il fratello le diceva di far presto e le dava spintoni se non si sbrigava. Kahin alzò gli occhi verso Steve: "Mio padre dormiva, ma mia madre certe volte sentiva la mia voce e i suoi rumori. L'indomani mi diceva di starci attenta e non parlare, e di fare come voleva lui. Mi disse pure che lui era giovane e lavorava tanto: ne aveva bisogno". Alla scuola superiore Kahin aveva molti compiti e non aveva il tempo di farli tutti perché quando aveva compiuto quattordici anni i genitori le avevano dato un altro incarico: pulire la cucina del take-away, ogni sera. Kahin doveva correre a prendere la sorella e il fratello a scuola, portarli a casa, fare le pulizie, cucinare per loro e poi per i genitori. Dopo cena il padre la portava in macchina al take-away e a notte fonda uno dei fratelli l'accompagnava a casa. Kahin era sempre in ritardo con i compiti e gli insegnanti la rimproveravano. Poi il padre aveva preso un altro take-away in centro, con sopra un grande appartamento; i tre fratelli vi si erano trasferiti, e avevano chiesto alla madre di mandare Kahin a dormire lì dal venerdì al lunedì, per fare le pulizie e per aiutarli a tenere la contabilità dato che lei era brava in matematica. La sera, a turno, i fratelli facevano sesso con lei. Il lunedì mattina si alzava alle sei, mentre loro dormivano, e prendeva l'autobus per tornare a casa in tempo per preparare la colazione ai piccoli. Kahin era esaurita e aveva detto alla madre che era troppo stanca per studiare. La madre l'aveva picchiata per essersi lamentata, però poi aveva parlato con i fratelli, che le avevano cambiato il lavoro durante i giorni di scuola: stava alla cassa e non puliva più la cucina – un gran miglioramento, perché quando non c'erano clienti lei poteva fare i compiti. Ma era durato poco. Il fratello maggiore aveva aperto un altro take-away e lei, oltre a tutto il resto, era dovuta tornare ad aiutare in cucina i due fratelli rimasti. Non si reggeva in piedi, non riusciva a concentrarsi, e una volta si era bruciata con l'olio bollente. A quel punto si era fatta coraggio e aveva detto ai fratelli che aveva bisogno di tempo per prepararsi agli esami – loro la presero a botte, e poi dissero alla madre che era ribelle, e anche lei la prese a botte. Da allora, i fratelli la picchiavano ogni qual volta non completava quanto ordinato o non lo faceva abbastanza velocemente. E continuavano ad avere rapporti con lei, a turno. Gli esami di Kahin si avvicinavano: studiava di notte e dormiva soltanto due o tre ore, poi si addormentava in classe. L'insegnante volle sapere cosa le stava succedendo, e lei era crollata: lavorava troppo e i fratelli e la madre la picchiavano. La professoressa, visti i lividi e la bruciatura, aveva chiamato i servizi sociali. Kahin però non aveva rivelato l'abuso – aveva paura che il padre e i fratelli l'ammazzassero o la costringessero a sposare qualcuno che voleva venire a vivere in Inghilterra. "Tua madre sapeva cosa ti facevano i tuoi fratelli?" "Gliel'ho detto. Uno di loro non faceva attenzione e io avevo paura di restare incinta. Lei mi disse che le avevo già dato tante seccature e da allora in poi ogni volta che avevo le mestruazioni dovevo dirglielo." "Ne hai parlato con le tue sorelle?" "Con una: il fratello maggiore aveva fatto lo stesso con lei e per questo lei si è presa per marito il primo che mio padre le ha proposto. Mi ha consigliato di rassegnarmi, ma lei non doveva lavorare al take-away, e non le piaceva studiare. Io invece voglio diventare professoressa di matematica."
Kahin aveva un'ultima cosa da dire a Steve: era preoccupata
per i due piccoli. La sorella adesso aveva undici anni e i genitori
le avevano vietato di parlarle, ma loro si incontravano in segreto
a scuola. Le aveva detto che la sorella maggiore era andata a vivere con loro,
ma che presto sarebbe tornata dal marito. Kahin
temeva che la sorellina potesse essere messa a fare i lavori di casa al suo
posto.
Steve aveva chiesto a Pat di accompagnare Kahin alla porta.
Mike Pitt aspettava da tempo, e andava su e giù nella sala d'aspetto, come un
leone in gabbia. "Buonasera, signore," lo salutò Kahin.
Pat riordinava la scrivania. Aveva scritto pagine e pagine a casaccio e
dovette cancellarle tutte. Prima di andare, ricordò a Steve
che Mr Pitt lo aspettava, ma lui non le diede ascolto. In piedi davanti alla
finestra toglieva le foglie morte dalle piante. Uno stanco
raggio di sole colpiva i radi capelli sulla sua testa.
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