|
|
| << | < | > | >> |IndicePremessa di Marc Augé 7 Il dito sporco di Dragan 9 Alla ricerca delle introvabili razze umane: tredici domande e qualche risposta di Guido Barbujani 91 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Lo so che non capisci, Dragan. Non puoi capire. Guardi il tuo ditino nero e non riesci a spiegarti perché e cosa vuole dire quella macchia sul foglio. Sarebbe stato bello, se fosse stato per gioco. Quante volte ti sei sporcato le mani con l'inchiostro, per caso o perché era divertente farlo. Ma questa volta non c'è stato niente di bello. Anche se quei poliziotti cercavano di sorriderti, non ti sembrava proprio di giocare. Sorridevano, forse anche loro hanno dei bambini e forse capivano, ma non basta. Non basta, Dragan.Non puoi capire e, credimi, anche per noi è difficile comprendere cosa e come siamo diventati. Vuoti, inariditi, deprivati di ogni coscienza, «uomini vuoti, impagliati, le cui voci secche sono senza senso, come vento nell'erba rinsecchita, figura senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto». Così cantava il poeta della Terra desolata, devastata, decomposta. Teste di paglia, attraversate dal vento polveroso del momento. Teste rasate, dentro e fuori. Una volta, Dragan, di noi italiani si diceva che eravamo disorganizzati, pasticcioni, imprecisi, chiassosi, un po' casinisti, però simpatici. Ora no. Non siamo nemmeno più simpatici. Abbiamo perso ogni ironia, quella risata cialtrona alla Alberto Sordi, che cancellava, o meglio copriva, le nostre mancanze. Che ci rendeva più tollerabili agli occhi degli altri e più sopportabile il nostro vivere. Forse si è davvero conclusa quella «mutazione antropologica» che Pier Paolo Pasolini aveva saputo leggere nelle pieghe della modernità. Di questa modernità. E da cui aveva cercato di metterci in guardia. Eppure noi abbiamo sempre pensato di essere «brava gente». Ce lo hanno ripetuto, ce lo siamo ripetuti per anni, Dragan. Non per molti, a dire il vero. E dalla fine della guerra che abbiamo cominciato a pensarci così. Forse per rendere meno insopportabile il ricordo di avere condiviso con i nazisti un folle ideale di disuguaglianza e di morte. Per dimenticare di avere fatto la guerra a gente che nulla aveva contro di noi. Per avere esaltato il mito della razza e avere scritto e accettato leggi che discriminavano e uccidevano in suo nome. Piano piano ci siamo convinti che noi non eravamo come gli altri. Noi, eravamo buoni, Dragan. Noi, quando siamo andati a occupare la Libia, la Somalia, l'Etiopia, è stato per fare del bene alla gente. Non come gli inglesi o i francesi, che andavano a colonizzare l'Africa e l'Asia solo per sfruttare e depredare. Noi andavamo per costruire strade, scuole, per istruire, per civilizzare. Ci hanno nascosto tutto, Dragan, chi sapeva non ha parlato. Chi ha parlato è stato messo a tacere, in un angolo, come un traditore. Sui libri che studiamo a scuola, c'è poco spazio, quasi niente, dedicato ai massacri che noi, brava gente, abbiamo fatto in quelle terre, quando cercavamo un posto al sole. Nessun individuo, nessun popolo può sopportare di pensarsi cattivo troppo a lungo. Ti racconto un episodio. Un pomeriggio a Mantova di alcuni anni fa una scrittrice sudafricana presentava il suo libro. Si parlava di riconciliazione, della fine dell'apartheid. Dal pubblico venivano domande sulla politica, sulla storia. Poi una vocina, una donna minuta: «Sono una madre» dice, «come lei e sono israeliana. I nostri paesi hanno molte cose in comune. Mi chiedo tutti i giorni e le chiedo, come fa ogni sera a spiegare ai suoi figli che i cattivi siamo noi, che noi siamo il male». Silenzio. Più nessun discorso intellettuale sul ruolo della letteratura, più nessun proclama politico ottimista. Silenzio, Dragan, silenzio. Aveva ragione Thomas Eliot a dire che «il genere umano non può sopportare troppa realtà». Dobbiamo fingere di essere diversi da quello che siamo, dimenticare, Dragan, dimenticare. E mentire. Dimenticare significa perdere traccia del proprio passato, non portarne nessun segno addosso, non udire più le voci di chi ci ha preceduto. Non sentire il peso del lavoro e della fatica dei nostri avi. Non sopportare le rughe della storia. Poggiamo i piedi sui frutti di quelle fatiche, ma alziamo gli occhi al cielo per non vederle. Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine. Nulla. Solo un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio. Dimenticare significa anche non avere niente davanti. Tutto finisce allo specchio, che rimanda indietro ciò che vede. Non c'è futuro. Il futuro è modifica del passato, in meglio o in peggio, ma è un cambiamento. A volte è rottura, è virata secca, ma per cambiare occorre un punto di riferimento. Devo sapere cosa voglio cambiare, per decidere come. Dimenticare significa assottigliarsi, fino a diventare velo inutile. E già sarebbe triste, ma mentire, Dragan, mentire è ancora peggio. Vuol dire colorare quello sfondo nero di arcobaleno, dipingerlo di ciò che vorremmo essere. Truccare il nostro viso, come si fa con il computer, cancellarne i difetti, inventarci una storia, un volto, chiamare le cose con il nome di cose diverse. Dare spessore a ciò che non ne ha. Sì, Dragan, tutti vogliamo essere buoni e per esserlo mentiamo due volte. La prima, quando diciamo di essere ciò che non siamo. La seconda, quando diciamo che gli altri sono come invece non sono. Perché, per sembrare buoni a noi stessi, abbiamo bisogno dei cattivi. Sono i buoni a decidere chi è cattivo e sono i più forti a credere di essere buoni, solo perché possono decidere chi non lo è. Noi buoni, noi brava gente abbiamo bisogno di specchiarci negli occhi dei malvagi. E tu, Dragan, sei uno di loro. Abbiamo bisogno di te. Come quei greci che avevano bisogno dei barbari per sentirsi civili. «Erano una soluzione quella gente» ha scritto Costantino Kavafis. Non importa se poi tu sei solo un bambino di undici anni, che abita in una roulotte, che va a scuola, magari non sempre, ma ci va. Sei una soluzione, Dragan. | << | < | > | >> |Pagina 51«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina, ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere, ma soprattutto non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali». No, Dragan, no non si parla di voi, né dei rumeni e nemmeno degli albanesi. Sono parole tratte da una relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso americano. È dell'ottobre 1912 e parla degli italiani. La relazione prosegue così: «Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione». Una volta eravamo noi a disturbare, ora siete voi a darci fastidio e, ci dicono, a farci paura. Il fastidio è una cosa, la paura è un'altra. Il fastidio lo si sopporta, si brontola, si inveisce, ci si lamenta, ma poi si va avanti. Ci si abitua, Dragan, gli esseri umani si abituano a tutto, se vogliono. Alla paura no. Quella ti prende alla pancia, ti strozza la gola, non la controlli, ti fa diventare cattivo. Ecco cos'hanno fatto, ci hanno messo paura. Una paura che non sappiamo da dove viene e per questo ci spaventa ancora di più. Una volta erano i nemici, i tiranni, a fare paura, ma erano minacce visibili, ne conoscevi il volto, il nome. Ora quei nomi e quei volti sono stati sostituiti da categorie informi: gli immigrati, gli extracomunitari, gli stranieri. La paura non ha più un responsabile, è indistinta così come le risposte lo sono. Hanno detto che lo fanno per il tuo bene Dragan, per evitare che tu venga sfruttato, ma sono loro che ti stanno sfruttando. Per creare la paura, per convincerci che abbiamo bisogno di loro e dei loro metodi. È un affare la paura, un business politico per chi sa vendere un antidoto, fatto di parole vuote, frasi generiche, provvedimenti impraticabili. C'è un mercato della paura. Prima eravate brutti e sporchi, ora siete diventati anche cattivi. La paura è stata mediatizzata, amplificata, resa tangibile, per venderci quella merce politica e mediatica che si chiama sicurezza. Perché quando la gente ha paura, la controlli meglio, le puoi imporre qualunque cosa in nome della sicurezza. Non importa se le cause sono complesse, le puoi proporre soluzioni facili e false. Slogan. Così possiamo dormire sonni tranquilli. Ora sappiamo che a minacciare la nostra esistenza non è la precarietà del lavoro, non sono le banche che ci incentivano ad acquistare partecipazioni di aziende fallite e neppure le multinazionali che fanno cartello per far salire i prezzi, non le guerre che alimentiamo nel mondo. Chi promette sicurezza non ci dice che la paura, il disagio, nascono da un capitalismo selvaggio, dalla mancanza di regole, da una finanza feroce. Non lo dicono e noi non vogliamo vederlo. La vera minaccia sono i lavavetri, i mendicanti e le prostitute, loro i veri «criminali»: gli stranieri. | << | < | > | >> |Pagina 91Cos'è una razza?
Un grande evoluzionista,
Ernst Mayr
, distingue fra due tipi di specie: quelle in cui le caratteristiche biologiche
cambiano gradualmente e senza sbalzi nello
spazio geografico, e quelle in cui invece popolazioni
con caratteristiche diverse sono separate da confini.
Nelle specie del secondo tipo, le entità separate da
confini sono chiamate razze o sottospecie. In maniera
analoga, molti testi di antropologia e genetica umana
definiscono le razze come gruppi diversi di individui,
localizzati geograficamente, ciascuno dei quali discende da antenati comuni e
quindi può essere distinto da altre razze perché tutti i suoi membri condividono
un insieme di varianti genetiche altrove rare o assenti.
Non è un concetto un po' vago?
Sì, e non potrebbe essere diversamente. Da un po'
di tempo in qua, infatti, è diventato vago anche il concetto di specie, quello
su cui da sempre si basa la tassonomia, cioè la scienza che classifica animali e
piante.
I naturalisti del Settecento erano creazionisti, cioè
pensavano che le diverse specie fossero state fissate
ab aeterno,
dal momento della creazione; perciò il loro
compito era semplicemente quello di collocare ogni
pianta o animale nella casella giusta. Ma con i grandi
evoluzionisti, prima Lamarck, e poi
Darwin
, le specie smettono di essere realtà fisse e diventano entità dinamiche, che
cambiano nel tempo. In effetti, è Lamarck il primo a scrivere che specie diverse
discendono, con modifiche, da antenati comuni. Quindi,
quella che in un certo momento è una singola specie,
più tardi può suddividersi in due gruppi (due razze)
che alla fine formeranno due specie diverse. Perciò
oggi dobbiamo definire le razze come popolazioni
della stessa specie, avviate sulla strada che potrebbe
portarle a diventare specie diverse, ma non ancora arrivate a destinazione.
Ovviamente, stando così le cose,
spesso non è facile decidere in quali casi due popolazioni o due individui
facciano o meno parte della
stessa razza. Come se non bastasse, i criteri per decidere se la diversità
geografica sia continua o discontinua sono inevitabilmente soggettivi.
Forse è un concetto vago in linea teorica, ma funziona in pratica?
Sì, in certe specie. Nelle lumache, nei gorilla, per
non parlare di molte piante, è possibile classificare i
diversi individui in razze, sulla base del loro aspetto e
del loro DNA. Lumache e abeti sono creature molto
diverse, ma le accomuna la scarsa mobilità dei loro individui. Al contrario,
specie molto mobili, come quasi tutti gli uccelli e i pesci marini, non mostrano
gruppi geografici di individui che possano essere distinti in
base all'aspetto o al DNA. Gli esempi potrebbero essere molti, ma tutti
concordano nell'indicare che perché si formino delle razze è indispensabile
qualche barriera che impedisca, o almeno renda molto difficile, l'incrocio fra
individui di gruppi diversi.
E l'uomo, allora?
Esistono ovviamente anche posizioni intermedie,
ma le opinioni sono molto diverse e molto polarizzate, anche fra gli esperti.
Alcuni credono non solo che nell'uomo ci siano vere razze biologiche, ma che
differenze ereditarie fra le razze determinino differenze
in moltissime nostre capacità, comprese le capacità
cognitive. Al contrario, altri pensano che la razza sia
una convenzione sociale, senza alcun rapporto con la
diversità biologica interna alla nostra specie.
Ma se il tema è così controverso, come mai il concetto di razza è così diffuso?
L'idea che le razze siano una caratteristica naturale
della nostra specie ha radici antiche. Nell'Atene del V
secolo a.C. si divideva l'umanità in «quelli come noi»
e «quelli diversi da noi», greci e barbari, ed è ancora
così in moltissime culture contemporanee. In realtà,
già nell'impero romano appartenere a una certa razza
non era una condanna inappellabile. Chi accettava di
radersi, di vestirsi con la toga e non con le pelli, e soprattutto accettava le
leggi dello Stato poteva abbandonare la condizione di barbaro e diventare
cittadino romano. È nel Settecento che si radica l'idea che la
razza stia nel sangue, come si diceva allora, o, come si
direbbe oggi, nel DNA. Per secoli, questa concezione è
rimasta indiscussa anche fra gli scienziati, nonostante
i risultati degli studi scientifici non la confermassero.
In effetti, dal Settecento a oggi, sono stati decine i tentativi di compilare il
catalogo delle razze umane, accomunati solo dal fatto che ogni catalogo
smentisce tutti gli altri, con numeri di razze compresi fra due e
duecento. Con il tempo, queste incongruenze hanno
portato a rimettere in discussione il senso stesso della
classificazione razziale, finché, nel 1963, un antropologo americano, Frank
Livingstone, ha scritto: «Non
ci sono razze, ci sono solo gradienti». Nel suo articolo,
Livingstone sottolineava come la sua posizione non
implicasse che siamo tutti biologicamente uguali, ma
semplicemente che le nostre differenze non si conformano ai «pacchetti distinti
chiamati razze». Da quel momento è diventato possibile interpretare la
biodiversità umana in termini diversi, ma non tutti gli
scienziati hanno accettato la proposta di Livingstone.
Negli anni Settanta, un grande genetista, Theodosius
Dobzhansky, nel riaffermare che i diritti umani universali derivano non dal
nostro essere tutti uguali, ma
dal nostro essere tutti umani, ribadisce la sua convinzione che l'umanità sia
effettivamente suddivisa in razze. Dobzhansky ammette che la scienza non è
ancora riuscita a descriverle in modo soddisfacente, ma
prevede che in futuro riuscirà a farlo.
E c'è riuscita?
Pare proprio di no. Oggi che il futuro è arrivato
sappiamo tantissime cose che Dobzhansky e Livingstone avrebbero voluto sapere, e
non c'è dubbio che si debba dar ragione al secondo. Intanto, con una popolazione
di oltre sette miliardi di individui, ci si
aspetterebbe che la nostra specie fosse molto variabile.
Così non è: siamo molto più omogenei di gorilla e
scimpanzé, i nostri parenti più prossimi: le differenze
fra i DNA di due gorilla della stessa foresta tropicale
sono più grandi di quelle fra i DNA di persone di continenti diversi. I
genetisti interpretano questi dati
come una chiara evidenza del fatto che la nostra specie è stata a lungo composta
da pochissimi individui,
e solo di recente, diciamo negli ultimi diecimila anni,
siamo cresciuti di numero (e tanto). I fossili dimostrano senza ombra di dubbio
che l'umanità ha avuto
origine in Africa; mettendo insieme dati anatomici e
dati genetici, vediamo che le differenze fra popolazioni sono massime in Africa
e si riducono man mano che ci si allontana da lì. Questo risultato può solo
voler dire che i nostri antenati sono usciti dall'Africa
in piccoli gruppi, ogni volta perdendo un po' della
loro diversità, ma colonizzando nel giro di cinquanta-sessantamila anni tutto il
pianeta. Per effetto di queste grandi migrazioni, molte caratteristiche umane —
gruppi sanguigni, tendenza a sviluppare certe malattie
o a percepire certi sapori — hanno una distribuzione
cosmopolita, cioè sono diffuse, a frequenze diverse, in tutti i continenti.
Cosa ci dice tutto questo sull'esistenza delle razze?
Che gente con caratteristiche genetiche simili si
trova in posti anche molto lontani, e che ciascuna popolazione umana contiene
una grande varietà di persone con caratteristiche genetiche anche molto diverse
(e per questo è stato così difficile, anzi impossibile,
definire il catalogo delle razze umane). Si stima che
circa l'85% della biodiversità umana globale sia presente, in media, in ogni
popolazione. Questo numero
vuol dire che se si estinguesse tutta l'umanità tranne
una sola popolazione, andrebbe perso solo il 15%
delle nostre varianti genetiche, mentre l'85% si conserverebbe. O, per metterla
diversamente, significa che i DNA di due persone di continenti diversi sono sì,
in media, più diversi di quelli di due persone della
stessa comunità, ma solo del 15%. In concreto, un
confronto utile ci viene dallo studio dei genomi completi, cioè dell'intero
contenuto di DNA delle nostre
cellule. Possiamo pensare al DNA come a un testo costituito da molecole
chimiche, nel quale sono contenute le istruzioni biologiche per fare di noi
quello che siamo. Si tratta di un testo molto vasto, sei miliardi e
mezzo di caratteri, ma da qualche anno siamo in
grado di leggerlo nella sua interezza. Fra i primi a cui
è stato letto il genoma completo ci sono due famosi
genetisti americani, Craig Venter e
James Watson
(lo scopritore, insieme a
Francis Crick
e Rosalind Franklin, della struttura a doppia elica del DNA) e un meno
famoso scienziato coreano, Seong-Jin Kim. Venter e
Watson sono entrambi di origine europea, ma i loro
genomi sono, nel complesso, meno simili fra loro di
quanto ciascuno lo sia con quello di Kim. In altre parole, l'asiatico è
geneticamente intermedio fra i due
europei. Questo non vuol dire che ogni europeo è più
simile ai coreani che ai suoi vicini di casa, ma indica
chiaramente come le classificazioni razziali siano grossolane e non spieghino
molti aspetti della nostra diversità biologica. In media, popolazioni vicine si
assomigliano più di popolazioni lontane, ma ognuna
contiene individui molto diversi, per esempio Venter e Watson. In sostanza, se,
secondo la definizione di Mayr, le razze sono sottospecie, nell'umanità non le
troviamo, e se non lo sono, bisogna che qualcuno ci
dica allora che cosa sono.
Insomma, il mio cane ha una razza e io no?
Sì, e bisognerà farsene una ragione. Le popolazioni
umane sono anche più simili fra loro di quanto lo
siano le razze canine, o equine, o bovine, ma il confronto ha poco senso, perché
in queste specie le razze non si sono evolute naturalmente: sono state
selezionate dall'uomo, attraverso generazioni di incroci controllati che invece,
nella nostra specie come in tutte le
altre specie non domestiche, non ci sono stati.
Ma allora siamo tutti uguali?
No. Siamo tutti diversi, con la sola eccezione dei
gemelli monoovulari. Dei sei miliardi di caratteri (chimicamente li chiamiamo
basi) che costituiscono il nostro genoma, parecchi milioni sono variabili
nell'umanità. Però le differenze che ne derivano sono
minori di quelle che osserviamo nei nostri parenti più
prossimi, gorilla e scimpanzé.
Ma non è più semplice lasciar perdere il DNA e basarsi sul colore della pelle?
No, non funziona. Ci sono tantissime sfumature
nel colore della pelle, e tracciare limiti non arbitrari fra
pelli chiare e pelli scure si è rivelato impossibile. Tanto
per dirne una, nella Repubblica sudafricana, ai tempi
dell'apartheid, i giapponesi erano considerati bianchi
e i cinesi mulatti, anche se entrambe le popolazioni
comprendono persone di pelle chiarissima, chiara e
abbastanza scura. Oggi sappiamo perché: il colore
della nostra pelle (e dei capelli, e degli occhi) non dipende da uno o due geni,
come il gruppo sanguigno,
ma da almeno settanta geni differenti, che interagiscono in maniera complessa.
Inoltre, la pigmentazione
si è evoluta in risposta all'esposizione solare, e perciò
popolazioni che vivono intorno ai tropici, nell'Africa
sub sahariana, nell'India del sud, in Australia e Melanesia, hanno pelli di
colori simili, anche se sono molto
diverse per quanto riguarda il resto del DNA. Lo stesso
vale per le popolazioni del nord e del sud del mondo,
che hanno in comune pelli chiare ma poco altro. Il
colore della pelle, dunque, non ci dice molto sulle nostre origini e parentele
evolutive.
Non potremmo semplicemente dire che le razze sono popolazioni fra cui si osservano delle differenze?
Qualcuno l'ha proposto, ma siccome ogni popolazione differisce in qualche
modo dalle altre, ognuna
dovrebbe essere chiamata razza (la razza di Brescia, la
razza di Verona, la razza di Vicenza...), il che contrasta con la prassi
tassonomica seguita nello studio delle
altre specie animali e vegetali. Ma c'è di più. Tutti i
gruppi umani, definiti in base a criteri geografici (per
esempio, europei e africani, o veronesi e vicentini), o
sociali (idraulici e dentisti), o arbitrari (quelli che portavano scarpe nere il
26 febbraio 2002 e quelli che le
portavano di un altro colore), differiscono nella media
di molte caratteristiche biologiche, come velocità nella
corsa, peso corporeo, o capacità di digerire il latte.
Questo però non vuol dire che, conoscendo il peso o
la capacità di digerire il latte di una persona, potremmo indovinare se sia un
idraulico o un dentista.
La questione non è se siamo identici (non lo siamo e
lo sappiamo benissimo), ma se siamo diversi come lo
sono i telefoni cellulari, che se sono Nokia non sono
Samsung né Motorola, senza sfumature intermedie.
Se così fosse, le diverse marche umane avrebbero ogni
diritto di essere chiamate razze: ma così non è.
Ma non sarà più un problema di linguaggio, magari di buone maniere, che di sostanza?
No. È noto che il razzismo ha avuto e continua ad
avere conseguenze catastrofiche, dallo schiavismo al genocidio di armeni ed
ebrei, ma qui stiamo parlando di
un tema diverso, anche se ovviamente collegato: se
abbia senso continuare a pensare l'umanità come un
insieme di gruppi omogenei al loro interno e diversi
fra loro. E allora, in primo luogo, bisogna dire che,
continuando a pensare in termini di razza, non riusciremo mai a comprendere la
nostra diversità biologica,
e quindi la nostra storia evolutiva: le vicende attraverso
cui, nel corso di centomila anni, un piccolo gruppo di
nomadi africani che non sapevano procurarsi il cibo
se non cacciando e raccogliendo frutti e radici è arrivato a colonizzare
l'intero pianeta, a mandare sonde
nello spazio, a costruire metropoli, a scrivere romanzi
e sinfonie, a inventare lo Stato sociale e la parità fra i
sessi. E poi, in secondo luogo, il persistere del paradigma razziale porta a
progetti scientifici scadenti o demenziali. Un esempio difficilmente confutabile
viene dalla scienza che studia le nostre risposte ai farmaci, la
farmacogenomica. Come tutti sanno, ci sono persone
a cui l'aspirina fa bene, altre a cui non fa niente, e altre
ancora a cui provoca effetti secondari negativi. Vale per
tutti i farmaci, e negli ultimi anni abbiamo capito che
dipende dal nostro DNA, cioè dalle nostre diverse tendenze ereditarie a
eliminare (il termine tecnico è metabolizzare) i diversi farmaci più o meno
rapidamente.
Quelli che eliminano certi farmaci più rapidamente
della media non traggono beneficio dal trattamento, e
quelli più lenti soffrono invece di effetti secondari dovuti all'eccessiva
permanenza del farmaco nell'organismo. Le case farmaceutiche hanno investito
somme enormi per individuare dosaggi specifici per il mercato
europeo e il mercato asiatico. Attenzione, però, qui
mercato vuol dire razza: l'idea funzionerebbe se tutti (o
quasi) gli asiatici metabolizzassero certi farmaci alla
stessa velocità, e tutti (o quasi) gli europei li metabolizzassero a una
velocità diversa. Ma non è così. In un
famoso studio degli anni Novanta, farmacologi svedesi
hanno misurato la velocità di metabolizzazione di due
sostanze chimiche, debrisochina e codeina, fra gli svedesi e i cinesi.
L'esperimento è semplice: si somministra
una quantità fissa della sostanza a tutti i pazienti e, a distanza di un certo
numero di ore, si va a misurare
quanta se ne trova nelle urine. Se è tanta, il soggetto
l'ha metabolizzata velocemente, se è poca vuol dire che
il suo metabolismo è più lento. Il risultato è che svedesi
e cinesi differiscono nella loro velocità metabolica
media, e i cinesi sono, mediamente, più rapidi degli
europei. Ma il dato più importante è che in entrambe
le popolazioni è presente una grande varietà di casi, da
individui a metabolismo lentissimo a individui a metabolismo rapidissimo, con
tutte le possibilità intermedie. Dunque, cercare il dosaggio che vada bene ai
cinesi o agli svedesi non ha senso, perché, esattamente
come nel caso di Venter, Watson e Kim, certi cinesi assomigliano a certi svedesi
più di quanto non assomiglino ai loro connazionali, e lo stesso vale per gli
svedesi. Ha invece senso cercare di prevedere i dosaggi migliori per ognuno di
noi, cinese o svedese che sia.
Insomma, la medicina razziale è una bufala; mentre,
anche se ci vorranno ancora anni e molte ricerche per
poterla realizzare appieno, l'alternativa c'è, ed è la medicina personalizzata.
Ma insomma, cosa c'è di male se uso la parola razza?
Finché c'è libertà di parola, ognuno può dire quello
che vuole. Per comunicare efficacemente, però, bisogna disporre di un linguaggio
privo, per quanto possibile, di ambiguità: e razza è una parola estremamente
ambigua. Abbiamo visto come non ci siano dati scientifici che ci permettano di
suddividere in razze l'umanità; sappiamo bene che la razza è un formidabile
fattore di disgregazione sociale e fonte di insensate
discriminazioni. A questo punto, il problema non è la
parola. Comunque le chiamiamo, razze, tribù, etnie o
gruppi etnici, se pensiamo che a queste parole corrisponda un insieme di
individui biologicamente omogeneo, siamo fuori strada. Bisogna rinunciare al
concetto, non censurare la parola che tradizionalmente lo
esprime. Ma naturalmente abbiamo bisogno di parole
per definire il mondo che ci sta intorno, anche se lo
definiscono in maniera approssimativa. E allora un
termine migliore è popolazione: la popolazione di
Lecce è costituita da tutti quelli che stanno a Lecce,
punto. Si può essere più precisi, parlare della popolazione di Lecce di età
inferiore ai trentaquattro anni, o
di religione ortodossa (qualcuno ce ne sarà), o di lingua greca (qualcuno ce
n'è). In ogni caso, almeno la
parola popolazione non implica nessun giudizio su
quanto simili siano fra loro i suoi membri, e quindi è
priva dell'ambiguità che razza e altri termini consimili
si portano dietro.
|