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| << | < | > | >> |Pagina 5Puoi restare fermo, immobile e attendere che l'ombra diventi un sottile bordo nero e lentamente si sposti, ti giri attorno, si accorci, si nasconda sotto i tuoi piedi, quasi a scomparire, poi si riaffacci per allungarsi verso oriente fino a svanire stingendosi nel buio. Oppure muoverti, farla impazzire con cambi repentini, con passi zigzaganti, salendo e scendendo lungo i sentieri e le strade. Puoi lasciare la tua ombra al suo destino immutabile di satellite senza corpo oppure portarla con te, strofinandola sui terreni che ti passano sotto i piedi, sporca, infreddolita o schiantata dall'afa.Non è vero che i viaggi avvengono nella testa, che si può viaggiare rimanendo a casa, che si possono fare viaggi stupendi con la mente. No, non è vero. Il viaggio nasce nella testa, matura, ma per esistere ha bisogno di assorbire linfa attraverso i sensi, toccare, sentire, annusare, assaggiare. Quello mentale è un sogno, non un viaggio. Puoi deciderne i tempi, le condizioni, i ritmi, le pause. Non sollecita i sensi. Il viaggio, quello vero, ti fa sopportare caldi inebrianti e freddi carichi d'oblio, patire venti indiscreti, godere del primo tepore di un'alba. Non sempre decidi tu dove fermarti, dove dormire, quando dormire. Nel viaggio mentale non c'è neppure bisogno di riposare. Amo i viaggi. Anche se ogni volta, prima di partire, mi prende un'agitazione come se fosse la prima volta. Come prima di una gara. Per otto anni ho fatto atletica. Mezzofondo, e tutte le volte era uguale. Durante il riscaldamento, prima della partenza, sentivo le gambe rammollirsi e avrei voluto scappare via da quella pista, essere ovunque tranne che li. Il vuoto saliva fino a quando mettevo i piedi sulla linea di partenza, poi il colpo di pistola faceva svanire tutto. Come al check-in all'aeroporto. Il distacco della partenza, la partenza come morte, quante pagine sono state scritte su questi momenti spesso enfatizzati. Il partire di chi, come me, come molti di noi, viaggia per piacere o per curiosità, è un «partire per vedersi ritornare», come cantava Vecchioni. Un addio fasullo. Lungo qualche settimana, forse qualche mese, mai una vita. Eppure, ogni volta, ci scopriamo più attaccati alla nostre cose che abbiamo d'attorno, più di quanto vogliamo ammettere. Più abitudinari di quanto pensassimo. Il viaggio ti strappa dall'attesa, ti costringe, in qualche modo, a ricominciare. Dopo vent'anni di aerei e partenze, ancora non mi sono abituato. La notte prima, non riesco a dormire. Non è paura, nemmeno potrei definirla angoscia. No, ansia? Forse, o forse solo irragionevole agitazione. Forse è solo solitudine. Partire soli, attendere in un aeroporto, far passare il tempo tra una coincidenza e l'altra, distrarsi nel guardare vetrine inutili per non pensare al fatto che si è soli e si sta partendo. Crogiolandosi, quando si è giovani, in una dimensione eroica: l'eroe non solo è giovane e bello, ma anche solo. Tutto per non ammettere che si sta soffrendo. Ecco perché il viaggio mentale non è viaggio. Perché è solitario per natura e non per scelta o per mancanza di scelta, perché è fatto di nessun saluto, e il saluto ti avvicina a ciò che ti è caro, perché non ha attese negli aeroporti. A volte mi chiedo se sono fatto per viaggiare da solo. Eppure lo faccio da più di vent'anni.
Nonostante questo amo i viaggi.
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