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| << | < | > | >> |IndiceLINGUISTI E CREATORI DI LINGUE UNIVERSALI 11 Cetti, Carlo 19 Faccioli, Angelo 23 Galasso, Angiolo 25 Lucchetti, Pantaleone 30 Magli, Gai 36 Matraja, Giovanni Giuseppe ASTRONOMI, FISICI E SCIENZIATI IN GENERALE 43 Borredon, Giuseppe 47 Casazza, Giuseppe 50 Corradi, Silvio 57 Giordano, Michele 6o Giraud, Giuseppe 6z Mancini, Niccolò 64 Manzi, Emiddio 66 Tordelli, Emilio Angelo POETI, DRAMMATURGHI E ROMANZIERI 71 Bellini, Bernardo 76 Casati, Alfredo 78 Gargiuto, Gaetano 8z Gavazzi, Leonida 85 Jacopini, Alberto 87 Montalti, Pietro FILOSOFI E IDEALISTI 93 Boselli, Elia 98 Carnovale, Luigi 101 Cosentino, Antonio 106 D'Amato, Gennaro 108 Faggioli, Renato 114 Jovacchini, Alfonso 118 Sergi, Giuseppe 121 Ser-Giacomi, Giulio 125 Turcotti, Aurelio 131 Wahltuch, Marco LETTORI E TRASMETTITORI DEL PENSIERO 141 Caselli, Carlo 144 Corva, Alberto 148 Severa, T. V. QUADRATORI DEL CERCHIO 154 Dispenza, Illuminato 157 Giuseppe, Ambrogio 160 Gianotti, Onorato 165 Motti, Giovanni 168 Plebani, Benedetto 172 Spoltore, Nicola 174 Vanini, Ercolano PROFETI E IDEATORI DI NUOVE RELIGIONI 179 Bosisio, Francesco 185 Petri, Omero 189 Tummolo, Giovanni PSICOLOGI E SESSUOLOGI 197 Germano, Antonio 201 Lima Fulga, G. 295 Valenti, Giuseppe MEDICI, BIOLOGI E NATURALISTI 211 Bertossi, Ugo 216 Calligaris, Giuseppe 223 Casanova, Achille 228 Ferrero, Carl'Antonio 233 Gautieri, Giuseppe 237 Guerra, Carlo 241 Linati, Filippo 245 Malinconico, Achille 247 Salaghi, Napoleone 251 Volante, Alessandro ECONOMISTI E POLITICI 257 De Finis, Gaetano 263 Gialetti, Augusto 266 Lenzi, Arturo 271 Tavola, Giacomo ARCHITETTI 279 Canfora, Giovanni 284 Ferrara, Camillo 285 Mariani, Aristide 287 Montani, Pietro 290 Tezza, Giuseppe INVENTORI 297 Becherucci, Francesco 301 Cappellan, A. 303 Fusina, Vincenzo 306 Ogliotti, Quinto 315 Villa, Ignazio 321 Una nota metodologica 327 Bibliografia 333 Indice generale dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 11Carlo Cetti (1884-?)Carlo Cetti è l'ideatore di una teoria, il brevismo, esposta ne La lingua si perfeziona e progredisce tendendo a brevità (Teoria del brevismo) (1946), che individua nella brevità del linguaggio un mezzo per la perfezione dello stile. Nel libro, scritto in forma di dialoghi fra diversi personaggi indicati come Studente, Cugino, Ingegnere, Dottore, ecc., Cetti sostiene che la prima cosa cui, parlando o scrivendo, si deve badare, è la parsimonia sillabica, e che quindi alle parole o locuzioni lunghe si devono sempre preferire le brevi. Muovendo dall'assunto che più una lingua si libera del superfluo e più si fa perfetta, Cetti propone cinque norme per la sua teoria: 1. non usare la doppia consonante, dove basti la semplice, come ad esempio in imagine, patriota, sodisfare; 2. omettere la i, la u o altra vocale in parole come ceco, sufficente [suficente?], gioco, ecc. 3. usare senza prefisso parole che di solito lo conservano come bruciare per «abbruciare», malare per «ammalare»; 4. liberare del prefisso le parole che lo tengono incollato a sé dicendo lontanare per «allontanare», ricchire per «arricchire», bandonare per «abbandonare», e cercare altre semplificazioni di parole come ad esempio quella di sututto per «soprattutto», nostante per «nonostante»;
5. valersi il più possibile dell'apostrofo e dei troncamenti per risparmiare
sillabe e quindi migliorare lo stile.
La lingua italiana, che ha il pregio di essere armoniosa e di scriversi come si pronuncia, ha in più il dono della brevità. I dialetti, ad esempio il lombardo, sia nella grafia che nella pronuncia, sono più brevi dell'italiano e quindi sono lo strumento più perfetto d'espressione delle idee e dei sentimenti, anche se hanno il limite di essere compresi da poche persone. Il loro uso non può che favorire lo sviluppo dell'intelligenza e del carattere. Per bocca dei suoi personaggi, Cetti avanza la proposta di fondare una Società per il progresso e perfezionamento della lingua con il compito di bandire concorsi a premio consistenti nel: a) presentare saggi d'emendazione di brani di prosa di nostri illustri scrittori; b) fornire elenchi di vocaboli che si possono scrivere in due differenti modi, al fine di eleggere stabilmente il più breve; c) proporre la semplificazione sillabica di parole lunghe. Come il secolo scorso ha visto trionfare il purismo, Cetti si augura che quella in cui vive possa essere l'epoca del brevismo. A suo parere nuocciono alla brevità l'abuso della congiunzione e, l'uso del d eufonico che si aggiunge alla congiunzione e, dell' i messo in principio alle parole che iniziano per s impura, delle preposizioni articolate (meglio dire le città di Francia che «le città della Francia»), degli inutili partitivi (c'erano oggetti e non «c'erano degli oggetti»), l'eccesso di che, di, come se, degli avverbi in -mente, dei superlativi, ecc. Anche i segni d'interpunzione permettono di risparmiare parole, a vantaggio della rapidità e dello stile; invece che «i due amici discorrevan, mentre le note d'una canzone salivan dalla via» meglio dire i due amici discorrevan: le note d'una canzone salivan dalla via. Altre regole per valorizzare la brevità individuate dal Cetti sono: 6. omettere tutto ciò che l'uditore o il lettore possono facilmente sottintendere; 7. disporre le parole in modo accorto nelle frasi e nei periodi; «vidi un monte verdeggiante di pascoli, boscoso, altissimo» non va, devo dire vidi un monte altissimo, boscoso, verdeggiante di pascoli;
8. scrivere usando periodi in prevalenza brevi, ciascuno dei quali esprima
un concetto a sé, ben distinto dagli altri, andando spesso a capo.
Quando il brevismo avrà esaurita la sua funzione e la nostra lingua avrà raggiunto un grado di brevità oltre il quale non si può andare senza venire meno alla chiarezza, allora, sostiene Cetti, potrà sorgere un nuovo movimento: lo stacchismo, cioè il dare a ogni periodo il conveniente stacco concettuale da quello che lo precede. Il capolavoro del Cetti in quanto a brevismo è il Rifacimento dei Promessi Sposi (1965) dove offre una versione semplificata (196 pagine) dell'intero romanzo di Alessandro Manzoni. Già nel Saggio d'una terza edizione dei «Promessi sposi» (1959) aveva semplificato, riducendoli a circa la metà, i primi otto capitoli del romanzo manzoniano sfrondandoli del superfluo. L'incipit del romanzo manzoniano diventa nella versione cettiana:
Quel ramo del Lario [nome tradizionale del lago di Como, NDR] che,
tra due catene di monti e tutto seni e golfi, volge a sud, quasi a un tratto
si restringe e, tra un'ampia costiera a manca e un promontorio a destra,
prende corso di fiume; mutazione resa più evidente da un ponte che unisce le due
rive lì ove termina il lago e l'Adda ricomincia, per riprendere
poi nome di lago, ove esse riaprendosi, lasciano spaziare le acque in
nuovi golfi e seni.
Cetti è promotore di un sistema di filosofia morale, il Vitaismo, che, contro l'utilitarismo finalizzato all'obiettivo del massimo utile, propugna l'«amore alla vita» da conseguire mirando a un pieno sviluppo fisico, intellettuale e etico che faciliti la massima durata della vita, ottenibile se si rispettano le leggi del nostro corpo, cioè vivendo secondo i precetti dell'igiene, e quelle del corpo sociale di cui siamo parte, ossia le leggi scritte, e l'etica. [...] In un capitolo delle Pagine di critica letteraria Cetti rivendica la possibilità e il diritto di migliorare i libri di autori scomparsi, perfezionandoli con un lavoro di scelta e di ritocco. All'adorazione feticistica dei libri di scrittori da gran tempo scomparsi, Cetti oppone la vitalità di una collaborazione tra tali autori e le persone venute dopo di loro, così come si verifica in tutti gli altri campi, collaborazione da cui deriva ogni progresso. Nell' Autobiografia (1961) Cetti scrive che la sua mente, a differenza di quel che avviene per la maggior parte degli uomini, non accoglie le idee da altri, ma le produce. Per ciò che riguarda le idee espresse nei suoi libri, Cetti confessa di non aver mai nutrito dubbi sul loro valore.
Cetti nasce il 7 settembre 1884 a Laglio sulle sponde
del lago di Como, da Giuseppe e Giovanna Stampa.
Diplomato in ragioneria, di professione è stato commerciante: il primo commercio
fu quello delle palline da gioco, cui seguì quello di francobolli, poi di varie
spezie e dell'incenso provenienti dalla Somalia e dall'Eritrea.
Nel 1925 si ritira dagli affari per dedicarsi allo scrivere.
Autore eclettico e prolifico, la sua produzione comprende novelle, testi di
critica letteraria, libri di poesia, politica, economia, filosofia morale,
satira, storia, pedagogia, trattati di mnemonica.
| << | < | > | >> |Pagina 60Giuseppe Giraud (sec. XIX)In varie pubblicazioni, come ad esempio nel Linguaggio astronomico delle macchie solari (1885), Giuseppe Giraud vuole dimostrare, fra le altre cose, che: a) la potenza che fa muovere e rotolare la Terra nell'etere attorno al Sole non è la chimerica attrazione universale immaginata da Newton, bensì il moto rotatorio del Sole sul suo asse nell'etere, un fluido elastico composto sostanzialmente di ossigeno e azoto come la nostra atmosfera, condensantesi attorno alla Terra; b) la Terra dista dal Sole undici e un quarto circa diametri terrestri, ossia un diametro solare, come rimane provato da uno studio ben condotto sulle grandi macchie solari; c) la Luna dista un raggio terrestre dalla Terra; il diametro della Terra è pari a 2,7 diametri lunari, più 3/10 d'un diametro lunare; d) il tempo che i pianeti impiegano a circolare attorno al Sole cresce in ragione quadrupla di ogni aumento di un raggio solare della loro distanza dal Sole. Convinto di coronare l'edificio eretto dai grandi astronomi del passato come Copernico, Galileo e Keplero, Giraud vede nei suoi lavori uno strumento idoneo per insediare l'astronomia meccanica su una vera base scientifica.
Ne
La mia lanterna nella scienza, in medicina
(1879) Giraud parla della sua intuizione circa le potenze meccaniche che
generano le pulsazioni nel cuore e nelle arterie; tale
intuizione gli ha permesso di effettuare ulteriori scoperte
fisiologiche, quali ad esempio le cause del moto del sangue,
il modo in cui si compie la nutrizione e la denutrizione nei
tessuti, cose che finora erano sconosciute o tratteggiate con idee comuni.
| << | < | > | >> |Pagina 64Emiddio Manzi (sec. XIX)Ne La gigantologia (1852) il frate Emiddio Manzi sostiene che l'esistenza dei giganti è vera, e non favolosa o metaforica, e che coloro i quali vogliono negare i fatti circa il ritrovamento di scheletri umani giganteschi agiscono contro ragione; la sacra Scrittura nella narrazione dei giganti non dice che la pura verità, e senza velo. Il libro, dedicato all'Ornatissimo e reverendissimo padre P. M. Angelo Trullet de' minori conventuali che a Bologna seguì l'autore durante lo studio delle scienze sacre, dopo una breve descrizione del paese di Cisterna, situato nella parte settentrionale del monte Vesuvio, propriamente sulla via consolare che da Napoli porta a Nola, e dei suoi abitanti, si apre con un capitolo in cui si parla del ritrovamento di alcuni scheletri umani giganteschi. Da un sottoparroco di Cisterna Manzi ottiene una scatolina contenente il molare di un gigante e un pezzo di carta dove è scritto: «Questa mola gigantesca col dente è stata trovata col suo cranio e scheletro intero di lunghezza pal. [il palmo, antica unità di misura in diverse culture, a Napoli valeva circa 26,45 centimetri, NDR] c. 12 nello scavo di palmi circa 24 tra pietre e terra in Cisterna, Provincia di Terra di Lavoro, distretto di Nola nel circondario di Marigliano nel dì 5 aprile 1845». Da questo fatto, per rendere qualche servigio alla scienza, Manzi inizia a leggere tutte le dissertazioni e i trattati riguardanti i giganti, opere di scrittori di buona fama, e degni di fede, come ad esempio Plinio il Vecchio e Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, in particolare soffermandosi sui passi delle Sacre Scritture in cui si accenna all'esistenza dei giganti. Anche sant'Agostino, scrive Manzi, nel libro XV de La città di Dio dimostra l'esistenza dei giganti, facendola risalire a prima del diluvio. Il Santo dice di aver veduto a Biserta, città vicina a Tunisi, insieme con altri suoi compagni un molare umano cento volte più grande di uno di quelli che hanno comunemente gli uomini, e narra che in Roma, poco avanti che fosse espugnata dai Goti, furono esposti alla popolare curiosità una giovinetta con i suoi genitori, e che tutti e tre avevano una statura assai superiore a quella degli altri uomini.
A conclusione del suo libricciuolo Manzi invita i lettori che reputeranno
che lui ha sbagliato in qualcosa, a scrivergli e a cicalare senza problemi
contro di lui.
| << | < | > | >> |Pagina 157Ambrogio Giuseppe (sec. XIX)Nella Quadratura del circolo (1871), uno studio iniziato nel 1866 e presentato alle principali Accademie d'Europa, Ambrogio Giuseppe si augura che il proprio metodo di quadratura del circolo possa riuscire di qualche utilità tanto nelle evoluzioni militari che nelle applicazioni agrarie. Tutti gli scienziati da Archimede in poi, scrive Giuseppe, hanno ritenuto che la grande chimera della quadratura del circolo consistesse nel trovare, grazie a costruzioni geometriche, la lunghezza della circonferenza di cui si ha il raggio, ma questo problema è insolvibile, e solo dei pazzi o degli ignoranti possono ostinarsi a cercarne la soluzione. Fatta questa premessa Giuseppe espone i risultati della sua ricerca in forma di istruzioni per l'uso. Per trovare la quadratura di un circolo qualunque, o il circolo in quadratura, si tracci il suo diametro, e partendo dal centro si divida ciascuna sua metà in dieci parti eguali. Alla nona suddivisione sia dell'uno che dell'altro raggio si tiri una perpendicolare eguale a 18 parti del diametro stesso, e la si divida per metà, poi si uniscano i rispettivi estremi a angolo retto; il quadrato che si ottiene corrisponderà all'area del circolo, ossia le due dissimili figure saranno eguali in quantità, dimodoché i lati del quadrato escluderanno quattro eguali segmenti del circolo, e reciprocamente questo segherà il quadrato in modo che abbia quattro angoli eguali salienti la circonferenza. In altre parole, sui 18/20 del diametro di un circolo qualunque si elevi un quadrato e la sua area equivarrà a quella del rispettivo circolo. Volendo avere un circolo di doppia area si prolunghi il raggio di quattro ventesimi del diametro, e con tale apertura di compasso descritto il circolo, esso sarà perfettamente doppio del precedente, e il suo diametro, com'è evidente, sarà di 28/20 dello stesso. Dividasi nuovamente questo diametro in 20 parti, e sulle 18 eretto il quadrato, anch'esso sarà doppio del quadrato antecedente, e di un'area uguale al rispettivo circolo. Aprendo il compasso a 3,1/2. Si avrà un diametro di 35/20 e un circolo triplo del primo: diviso il diametro in 20 parti e sulla diciottesima elevato il quadrato esso pure risulterà equivalente a questo circolo, e triplo del primo quadrato. Allargando nuovamente il compasso di due ventesimi e mezzo del primo diametro si otterrà un diametro di 40 parti (che possiamo supporre di un centimetro ognuna), e un circolo quadruplo; e ridotto il diametro in parti venti (di due centimetri ognuna) sulla novesima parte di ambo i raggi, partendo dal centro, si costruirà un quadrato quadruplo del primo, avente per lato 36 quarantesimi del diametro, o 18/20, le cui parti avranno 2 centimetri di lunghezza; e la sua area sarà eguale a quella del circolo cui si riferisce. Con tutta facilità poi si otterrà un circolo doppio di un altro circoscrivendo a questo un quadrato e facendo passare una circonferenza sui quattro angoli di esso: il circolo risultante sarà doppio e conterrà il primo. Il circolo triplo si ottiene facendo passare una circonferenza sugli angoli del doppio quadrato ottenuto nel modo sopraccennato sul diametro del doppio circolo. Giuseppe si è ingegnato anche nella produzione di nuovi strumenti come per esempio un violino del tutto nuovo per la sua singolarità e un cronometro a alcol, il cui regolare movimento può camminare oltre cento anni senza bisogno di essere toccato o corretto, senza con ciò pretendere di aver raggiunto il moto perpetuo.
Nato a S. Alessandro, sobborgo di Brescia, orologiaio di professione,
Giuseppe è socio del Comizio Agrario italiano (un'istituzione creata
nell'ottocento in Italia a sostegno dell'agricoltura e per la diffusione di
tecniche e innovazioni in campo agricolo) e membro di diversi Istituti italiani
e stranieri.
| << | < | > | >> |Pagina 160Onorato Gianotti (sec. XIX)Nella Prefazione alle Prove incontestabili della vera quadratura del circolo (1856) Onorato Gianotti di Casal Monferrato argomenta che misurare qualunque cosa è definito dalla matematica essere lo stesso che confrontare l'oggetto da misurarsi con un'unità omogenea presa per termine di confronto. Dunque per accertare il vero valore di un oggetto c'è bisogno che l'unità di confronto sia tale da escludere ogni minimo dubbio intorno alla sua precisione. Ora fra tutte le superfici piane, quella del circolo, perché terminata da una curva, è stata la sola a occupare inutilmente per secoli la geometria elementare, mancando finora nella scienza questa unità di confronto per determinare con precisione la curva e al tempo stesso l'area chiusa nella curva stessa. Il circolo è considerato come un poligono regolare di un numero infinito di lati infinitamente piccoli, la cui superficie è eguale al perimetro nella metà dell'apotema. La curva che chiude la superficie circolare, sviluppata, non potendo eguagliare una retta, ha reso inutili finora gli esperimenti fatti sulla circonferenza da sommi ingegni matematici onde provare la sua quadratura. Non scoraggiato da queste premesse, Gianotti afferma che il famoso problema della quadratura del circolo può essere realmente solubile con un metodo diverso da quello seguito da tutti coloro che finora hanno stancato invano il loro ingegno, e avanza la sua dimostrazione. Data una serie qualunque di poligoni regolari, dal triangolo equilatero a un numero qualunque di lati all'infinito, calcolati sull'unità, si prova matematicamente che ciascun poligono, purché il numero dei lati oltrepassi il milione, consta di uno stesso apotema, di un medesimo perimetro, fattori di una medesima superficie = 1; uno stesso apotema, un medesimo perimetro essendo fattori di una stessa superficie, e ottenuti con numeri affatto diversi gli uni dagli altri, portano a tutt'evidenza che ciascun poligono è un vero circolo, e come tale può a ragione dirsi che ciascun poligono è una prova incontestabile della vera sua quadratura; la circonferenza espressa dal comune perimetro presenta tutti i caratteri della certezza e incontestabilità, e può a un tempo essere assunto a unità di misura di una curva qualunque, come la retta lo è per le rette: pertanto da questo calcolo si ottiene con precisione matematica il duplice scopo, quello cioè della vera quadratura del circolo, scopo primario, e una perfetta rettifica della sua circonferenza, scopo secondario di questa soluzione. Dopo la sua dimostrazione Gianotti riporta per più di settanta pagine (da pagina 9 a pagina 80) una serie di calcoli riguardanti «Quarantasei poligoni regolari col valore del lato, dell'apotema e del perimetro corrispondente alla superficie di ciascuno = 1», «Quaranta quadrati di varie estensioni ridotti a superficie circolare» e la descrizione di numerosi problemi geometrici con relativa soluzione. Convinto di avere abbondantemente provata la vera quadratura del circolo, la vera cubatura della sfera e somministrata alla scienza una quarta unità di confronto per misurare una curva qualunque e provare nello stesso tempo l' area chiusa nella stessa curva, Gianotti si dice pronto, qualora i Signori Matematici non ritenessero sufficienti le prove esposte, a rinnovare i medesimi calcoli sopra una serie di più di migliaia di poligoni regolari che gli venga inviata da qualsiasi Accademia, alle seguenti condizioni: 1. che gli sia dato il numero dei lati di ciascun poligono; 2. che sia fissata la superficie di ciascuno. A queste condizioni promette di dare il valore del lato, dell'apotema e del perimetro di ciascuno e di provare come ciascun poligono, che oltrepassi il milione, sia un vero circolo. In compenso chiede 4 lire per ciascun poligono, con le quali si obbliga a spedire un foglio di 16 facciate di stampa e di ribassare l'importo totale di due scudi per ogni soluzione che presenti una qualche contraddizione di calcolo. Sempre nella prefazione a Prove incontestabili della vera quadratura del circolo, cosciente che in matematica non si danno vie di mezzo, e che una verità può essere smentita solo con una verità opposta, e che dunque non pronunciarsi su una soluzione che mostra tutti i caratteri della verità è lo stesso che approvarla tacitamente nella sua estensione, Gianotti dice di sperare di avere protezione dai Governi ai quali intende spedire copia del libro, pronto a portarsi in qualsiasi punto d'Europa, davanti al consesso dei matematici di qualunque Accademia, per dimostrare la giustezza del suo metodo, purché gli siano rimborsate le spese di viaggio. Nella Grande scoperta matematica (1861?) Gianotti, rivolgendosi ai membri dell'Istituto di Brera, dice che lui non pretende titoli, cariche, impieghi; non cerca premi, ma essendo povero di fortuna e resosi più povero per aver coltivata questa necessaria, invocata e aspettata riforma, gli abbisognano i mezzi: 1. per pubblicarla in tutto il mondo, poiché deve servire di base per un nuovo insegnamento della scienza; 2. per restituire dieci volte a coloro che per sette anni lo hanno aiutato.
Con il titolo
Un individuo disprezzato nel paese della libertà per eccellenza in odio del suo
ingegno fatto curioso ed unico nella storia antica e moderna
(1858), Gianotti pubblica una lettera aperta datata 16 aprile 1858 a
Carlo Cadorna (1809-1891), Ministro della Pubblica
Istruzione nel governo presieduto
da Cavour. Nella lettera Gianotti
lamenta di essere vittima di un'ingiustizia, di cui non c'è esempio
negli annali della scienza, a opera
della Reale Accademia delle Scienze che ha ignorato le sue scoperte,
degne di lottare col primo matematico del mondo. Al riguardo racconta un
episodio increscioso che gli è capitato: presentatosi il giorno
15 febbraio 1857 alle ore 10 antimeridiane al Sig. Comm.
Carlo Ignazio Giulio (1803-1859), matematico della
Reale Accademia di Torino, questi, credendosi giunto
all'apice della scienza, si prese la libertà d'insultarlo in faccia con gli
epiteti di scemo, imbecille, testa riscaldata ecc.
| << | < | > | >> |Pagina 223Achille Casanova (1805?-?)Il cavaliere Achille Casanova è uno studioso dell'ibridismo razziale. Nella Dottrina delle razze (1861) elabora una nuova teoria delle razze il cui obiettivo è dimostrare la possibilità di ottenere anche al giorno d'oggi alcune specie perdute, come l'ippocentauro e simili ibridismi straordinari dei tempi passati. L'analisi di Casanova parte dall'osservazione degli ibridi relativi all'unione del lupo con la capra, del toro con l'asina, del cervo con la vacca e con la cavalla, del leone e dell'orso con la cagna, del gallo con il coniglio femmina, della rondine con il pipistrello. Fenomeni di ibridismo mostruoso esistono anche all'interno di una stessa razza (feto umano a due teste, ecc.) e fra stirpi diverse (feto bruto che somiglia al cervo e nello stesso tempo alla cavalla). Per uno studio approfondito su questo argomento, scrive Casanova, sarà utile riconsiderare i casi di feti umani consegnati alla luce da giumente, scimmie e semicani creati da donne bianche e ottentotte, esposti con autenticità da Paullin, Peyer, Rodio, ecc. e citati dall'erudito Martin Schurig (1656-1733), il primo medico che si è occupato dell'anatomia degli organi sessuali. Per quanto concerne gli ippocentauri e le ippocentauresse, Casanova ritiene probabile l'accoppiamento fecondo fra l'uomo e la giumenta, la vacca e la cerva di grossa taglia, e dice che non deve sorprendere se la cavalla coperta dall'atletico cavaliere si sgrava dell'ippocentauro o dell'ippocentauressa. Già in passato i congiungimenti dell'ippocentauro con la giumenta o dell'ippocentauressa con il cavallo poterono dar luogo alla proliferazione di questa nuova stirpe. È necessario al riguardo ampliare le sapienti sperimentazioni del medico francese Nicolas Lemery (1645-1715), del medico e chirurgo modenese Giuseppe Jacopi (1779-1813) e di Lazzaro Spallanzani (1729-1799), gesuita e naturalista considerato il padre scientifico della fecondazione artificiale, e mettere a punto un metodo per instillare sperma umano nella vagina di una vacca, cavalla, cerva, foca, ecc. o sperma di cane o cigno nella vagina di una donna, per passare a altre non meno sorprendenti generazioni artificiali a imitazione di quelle naturali. Sostenitore dell'ipotesi della generazione spontanea, secondo la quale la vita di mosche, scarabei, lumache, sanguisughe e anche di alcuni vertebrati di classi inferiori nascerebbe dall'azione del calore sulla materia in putrefazione, Casanova afferma che all'età pubere i figli maschi e femmine nascono per generazione spontanea, nei testicoli e nelle ovaie, sotto forma di embrioni vivi, detti zoospermici i paterni e ovarici i materni; per crescere e meglio progredire questi embrioni già nati hanno però bisogno di mutuo contatto fra loro. Nell' Ibridismo in ispecie fra l'uomo e parecchi animali (1878), Casanova si diffonde di nuovo con linguaggio libero e spregiudicato sugli argomenti comprovanti la possibilità di realizzare anche oggi, tramite la generazione artificiale, al posto della naturale, non solo ibridi come quelli fra il Piccione e la femmina Coniglio; l'Asino spagnolo e la Cerva di grossa taglia; i Tori e le Somare, le Bufale e le Renne; il Cane di grossa taglia tipo Mastino o Levriero e la Scrofa comune; ecc., ma anche altri più o men diversi, sempre che il naturalista s'invogli a iniettare lo sperma umano nella vagina della cavalla, della vacca, ecc., al momento del calore o frega; oppure quello del cigno, dell'ariete, del cane, del caprone, nella vagina anche di una donna. Molti ibridi, come quelli sgravati dall'asina coperta dall'uomo o da donne accoppiatesi con caproni domestici, cani, arieti e uccelli furono mano mano distrutti dalla gelosia umana, dal timore o dalla vergogna. Per diminuire il numero di scrofolosi, rachitici e tisici Casanova propone d'istituire dei premi comunali annui elargiti da un'apposita commissione in modo così da favorire gli sposalizi scevri di ogni discrasia morbosa. A proposito della Dottrina delle razze dice Giuseppe Amadei che il maggior disordine regna in tutto il libro; gli argomenti e le parti dei ragionamenti sono così poco organizzati che si direbbe che il manoscritto è caduto di mano all'autore, e i fogli scomposti sono andati a sua insaputa a mettersi insieme come il caso ha voluto.
Casanova è nato a Pavia, medico, veterinario pratico
e per venticinque anni medico condotto in un borgo
milanese, è stato socio corrispondente di varie Accademie Mediche e Agrarie.
| << | < | > | >> |Pagina 233Giuseppe Gautieri (1769-1833)Dottore in filosofia e medicina, membro del corpo legislativo del Regno d'Italia; delegato medico nel dipartimento dell'Agogna. Nello Slancio sulla genealogia della terra e sulla costruzione dinamica dell'organizzazione (1805), dedicato al «fondatore della filosofia della natura l'immortale Schelling [Friedrich Wilhelm von (1775-1854)]», Giuseppe Gautieri scrive che la fisionomia dell'uomo somiglia a quella di molti bipedi bruti e che l'appiattimento della sua faccia, e lo sporgimento del naso e del mento si devono ai suoi atti di serietà e di alterigia, non che al riso, il quale gli ha ritirato indietro il muso. Quanto più l'uomo giace orizzontale rispetto alla terra, argomenta Gautieri, tanto meno è intelligente, e tanto più si avvicina all'apoplessia; quanto più si lasciano i bambini nella culla, tanto più le loro facoltà intellettuali tardano a svilupparsi, e maggiore si fa in loro la tendenza all'apoplessia. All'uomo si accorciarono le mani perché seppe procurarsi il necessario con strumenti adatti, così come la necessità di cibarsi di alimenti posti rasente a terra, e di appiattarsi, tolse alle serpi i piedi, rendendo però liscio e pieghevolissimo il loro corpo; la rotondità e la pieghevolezza degli animali è infatti, secondo Gautieri, il simbolo del guatare, dell'appiattarsi e del rannicchiarsi. Gautieri è convinto che la forma del cranio e del cervello predisponga alle scienze e alle passioni, allo stesso modo in cui l'esercizio delle scienze e delle passioni modella il cervello e il cranio. Lo svolgimento dei testicoli e dell'utero eccita all'amore e l'uso del coito serve a sviluppare sempre più i testicoli e l'utero. Le idee si svolgono allo svolgersi degli organi, dice Gautieri. Qualcuno obietterà che se fossero i desideri a svolgere sommamente gli organi, noi avremmo forse degli esempi di uomini tutto verga, ma bisogna ricordare che la coesistenza di altri desideri, e perfino l'appagamento perfetto del desiderio stesso, diminuiscono, anzi arrestano talvolta lo sviluppo desiderato di alcuni organi. La natura mantiene l'equilibrio degli organi arrivando a imprimere perfino il pentimento e l'avversione, se non altro momentanea, dopo la soddisfazione del desiderio stesso. Quanto all'origine dell'uomo, Gautieri sostiene la tesi che all'inizio l'uomo era in stato di pesce, muto e coperto di squame. A un certo punto gli piacque la luce; avvicinatosi alle spiagge ammirò i prodotti della terra, che già in parte aveva gustato sull'onde; piano piano si espose all'aria, e imparò a soffrirla, e così le sue branchie si convertirono in polmoni, come accade nel girino che si trasforma in rana. Lo sforzo d'impadronirsi del cibo gli cambiò, come alla foca, le pinne in braccia e in mano; divenne anfibio; ben presto passò allo stato di quadrupede come il coccodrillo; il suo coraggio di sorprendere il nemico, gli fece protendere enormente il muso, e la lunghezza delle sue braccia e delle sue gambe, gli tolse la tendenza a un continuo appiattimento; la luce, il cielo, le piante e gli animali lo interessarono; alzò la testa, ammirò l'universo e si mise a sedere; poi il desiderio d'impadronirsi dei mezzi di vita insieme a quello di scorgere lontano i suoi nemici e di godere dello spettacolo della natura lo stimolò a camminare ritto. Nel tempo, quando il piede allargandosi gli offrì una base più sicura, le mani gli servirono a evitare la caduta, difendersi, e offendere; quindi subentrarono la congratulazione intima sullo svolgimento delle proprie forze, sulla felice riuscita dei suoi progetti, l'allegria e il riso. Le passioni, disponendo diversamente i muscoli del volto, gli accorciarono il muso, insieme alla compressione della testa fattagli dalla madre al proprio seno; le squame intanto svanirono e i peli, che nacquero al loro posto, valsero egualmente a difenderlo dalle ingiurie della stagione. Bipede, già passeggia, la sua mano afferra gli strumenti di morte, soggioga le fiere, si fabbrica ricoveri, vive in società, coltiva le arti e le scienze, e «signoreggia il mondo». Secondo Gautieri alcuni animali sono originati dalle piante, ma ciò non vale per tutti: la formazione dei polipi ad esempio pare indipendente da quella delle piante. Nell'ultima parte del libro Gautieri affronta il tema dell'origine dei vermi abitanti le interiora degli animali. Molti vermi sono gli stessi che si trovano nell'uomo, dove producono effetti particolari: ad esempio nell'uretra e nel glande possono ingenerare prurito che Gautieri ritiene sia frequentemente la causa dell'onanismo. Altro vantaggio che apportano i vermi è il pianto il quale serve pure a svolgere maggiormente le ramificazioni dell'aorta ascendente, quindi i sensi esterni e il cervello: i figli che non piangono sono meno sensibili e diventano grassi, pigri e flosci.
Gli uomini, al pari dei polli, le oche, i cani, le beccacce, i pappagalli,
le pernici, i pesci, gli insetti e i vermi
stessi vanno soggetti ai vermi quanto più fanno uso di
alimenti nutrienti, ragione per cui, afferma Gautieri, i
ricchi sono sottoposti ai vermi più dei poveri. I grassi
sono più spesso il bersaglio dei vermi, che non i magri.
In montagna, dove la forza di produzione è più viva che
non in pianura, i vermi sono frequentissimi. L'inedia,
cioè uno stato di lungo digiuno, è nemica dei vermi, perciò quando si verifica i
vermi sono obbligati a sloggiare,
mentre in presenza di un uso abbondante di cibi nutrienti, e quindi in un corpo
sano, i vermi amano stazionare.
I tisici, i rachitici, coloro che sono affetti da anemia e le
vittime della consunzione cagionata dall'ossido di arsenico e che si trovano in
uno stato di sovrossigenazione, sono raramente tormentati dai vermi, e se vi
soggiacciono, li espellono presto.
| << | < | > | >> |Pagina 276In questa sezione sono riuniti degli architetti sui generis. In realtà si tratta dei partecipanti al primo concorso bandito nel 1881 per un monumento a Vittorio Emanuele II di cui si occupò, su suggerimento di Cesare Lombroso, Carlo Dossi in I mattòidi al primo concorso pel Monumento in Roma a Vittorio-Emanuele II, pubblicato presso l'editore Sommaruga di Roma nel 1884 (ora anche in Opere, Adelphi, Milano, 2011, pp. 973-1025, da cui sono tratte le nostre citazioni). Molti degli autori dei bozzetti per il monumento a Vittorio Emanuele II sono chiamati da Dossi «mattoidi». I bozzetti di questi autori Dossi li definisce «mattoidi» perché sono, in generale, sovraccarichi di simboli e di allegorie, li accompagna una spropositata prolissità del commento, tanto che, in qualche caso, il bozzetto si riduce unicamente alla sua descrizione. La condizione o professione dell'autore è tutt'altra rispetto a quella che occorrerebbe per un lavoro scultorio o architettonico. Tra i progettisti, dei quali non sempre Dossi riporta il nome, troviamo maestri di grammatica e di matematica, dottori di medicina e di legge, militari, un impiegato telegrafico, un ragioniere, nonché altri che dichiarano di non aver mai maneggiato né scalpello né matita o compasso. Dei 296 progetti presentati, alcuni da stranieri, ben 39 pendono decisamente alla follia, ossia all'eccesso del disordine, mentre circa 35 sono frutto di menti «semplicemente cretine». Le frontiere tra la mediocrità e il cretinismo, come pure tra quest'ultimo e la follia e tra la follia e il genio, afferma Dossi, non sono così precise e distinte da scongiurare il pericolo di sconfinamento a chi voglia occuparsi dell'uno o dell'altro tema. È quindi probabile che, tra i bozzetti sommariamente citati, qualcuno non appartenga veramente alla classe in cui è stato inserito, com'è possibile invece che ne sia sfuggito qualcuno i cui caratteri pazzeschi, sebbene meno appariscenti di altri, sarebbero stati forse più degni di nota. A conclusione del suo scritto Dossi afferma che, definendo «mattoidi» gli autori dei progetti, non intende dire che sono interamente pazzi e chiarisce il suo pensiero con questa bella metafora: l'intelligenza dell'uomo è da paragonarsi, generalmente parlando, a un appartamento composto di molte stanze, non a un unico camerone. Più aumenta il patrimonio delle idee, più si moltiplicano le diverse cellette destinate a accoglierle: nulla quindi di strano se la mobilia di qualche nostro locale si trovi tutta sossopra, pur mantenendosi il resto dell'appartamento in perfetto ordine. | << | < | > | >> |Pagina 284Camillo Ferrara (sec. XIX)Ex-ufficiale in ritiro, Camillo Ferrara propone, tramite un bozzetto che porta il numero 22, non un monumento di bronzo o di marmo, ma un opificio dove poter impiegare molti lavoranti, munito di una fontana con una statua a mezzo busto del Re posta su pilastro. Ferrara chiama se stesso, a torto, dice Dossi, un matto che non sragiona. | << | < | > | >> |Pagina 285Aristide Mariani (sec. XIX)Ciò che propone Aristide Mariani, nel bozzetto numero 197, è rivestire di creta una farraginosa pignoccata, dolce siciliano a forma di pigna.
Mariani distingue fra lavori obiettivi e soggettivi, dice
Dossi, disserta sui quattro sensi in cui si devono intendere
le scritture dei nostri antichi poeti, fa una passeggiata tra i
Volsci, i Rutuli, i Greci, i Latini, gli Etruschi, e alla fine,
invocando compatimento per
le deboli leve del suo ingegno
che non gli hanno permesso di
elevarsi quanto avrebbe meritato la natura dell'argomento,
nonché sperando che gli sarà riconosciuta la schietta e calorosa manifestazione
dell'animo suo, addita come monumento appropriato – sono
parole sue — un tessuto unico e complesso, intricatissimo, un
vero intreccio dinamico di linee quale soltanto potrebbe riscontrarsi nella
volta celeste, un intreccio insomma da formare ciò che dicesi una epopea, il
quale cumulo è il vero monumento da erigersi al padre della patria. Perché
risalti maggiormente la ragionevolezza della sua proposta,
Mariani osserva che archi, templi, colonne, tutto si sfascia
e perisce: non resta quindi altro mezzo, per salvare nella
perennità il grande monumento, che fabbricare una colossale rovina.
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