Copertina
Autore Lucilla Albano
Titolo Il secolo della regia
SottotitoloLa figura e il ruolo del regista nel cinema
EdizioneMarsilio, Venezia, 2004 [1999], Tascabili 197 , pag. 314, cop.fle., dim. 124x189x20 mm , Isbn 978-88-317-8479-5
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe cinema
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Indice

 11 Introduzione

 21 La nozione di regia

 21   Che cos'è un regista?
 28   Che cosa fa un regista?
 34   La tecnica
 48   La collaborazione
 61   L'improvvisazione

 77 Le origini della regia (1896-1914)

 77   All'inizio era l'immagine
 87   L'operatore faceva tutto
 89   Il primo movie director
 95   Liberarsi dal teatro
102   Il regista come pioniere
108   L'Italia e il «direttore»
124   «To make the public see»: D.W. Griffith

135 Affermazione e indipendenza (1914-1928)

135   Il supervisore e il regista puro
142   Un nuovo sistema produttivo
145   Le riprese in esterni
148   In Europa
152   Il regno dei registi
155   Una nuova terminologia

159 Lo Studio System: declino e asservimento (1929-1949)

159   La rivoluzione del sonoro
163   Director e Studio System
178   Da Broadway a Hollywood
180   Director e Screenwriter
188   Lo salveremo al montaggio
193   La grande migrazione
204   La ricerca di uno stile
211   La fine di un'era

213 La questione dell'autore

213   La funzione-regista
222   L'écraniste e il cinéaste
226   La «questione dell'autore»
242   «Questa non è casa sua, mio caro»

245 L'Europa e la concezione moderna della regia (1945-1969)

245   Il Neorealismo e gli anni cinquanta in Italia
262   Il «cinéma de papa»
272   La politique des auteurs
284   La rivoluzione della Nouvelle Vague
290   Nuovi cinema e nuovi autori

295 Conclusioni. Oltre le «nouvelles vagues» (1970-1995)


305 Indice dei nomi
 

 

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Pagina 11

INTRODUZIONE



Nella storia del Novecento uno dei maggiori eventi dell'arte in generale e dello spettacolo in particolare è stata la nascita della pratica e del lavoro della regia e quindi di una nuova figura e di un nuovo ruolo di artista e di creatore.

La figura del regista però non nasce con la nascita del cinema. Al cinema infatti non può esistere il regista finché vi è una semplice riproduzione della realtà, esiste solo la figura di un tecnico, l'operatore, che proviene dai ranghi della fotografia. La regia è una pratica, una nozione, una nuova professione artistica, che si farà strada nel momento in cui si avranno i primi film a soggetto, si inizieranno a raccontare delle storie, siano esse realistiche, fantastiche o comiche, e si inizieranno ad usare gli attori - non più intesi come semplici «figuranti», ma come «personaggi e interpreti» - cioè quando dalla fotografia animata e dalla riproduzione della realtà in movimento si passerà alla concezione di una narrazione attraverso il cinema. E soprattutto quando ci saranno l'intenzione e la consapevolezza di fare dell'arte e di inventare un nuovo linguaggio. Allora si avranno dei registi, dei «soggetti dell'enunciazione», anche se non sempre, nel cinema, l'«istanza narrante» coincide con la figura di un autore.

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È indubbio che il lavoro della regia è poco conosciuto: se la sua complessità e varietà sono difficilmente esemplificabili nel lato più importante, quello creativo, sono invece più facilmente descrivibili dal punto di vista tecnico e organizzativo, provocando l'equivoco e l'illusione di identificare la regia solo con questo secondo aspetto. Ma, come ho già detto, qui non si intende parlare né dell'uno né dell'altro, ma delle condizioni di esistenza, delle linee di tendenza, del livello di consapevolezza e di riflessione sui problemi e sulla qualità di una pratica creativa, così come sono stati affrontati nel corso della storia del cinema e da alcuni modi di produzione. Nel tentativo di analizzare ed approfondire le caratteristiche di una figura che continua a sfuggire ad una precisa catalogazione.

Dal punto di vista organizzativo e del ruolo che ricopre, il regista è spesso paragonato a un direttore d'orchestra o al capitano di una nave. E sono sicuramente dei paragoni calzanti, ma bisognerebbe chiarire che, soprattutto nel cinema europeo, il regista è spesso anche il compositore delle musiche e il costruttore della nave. È insomma il direttore d'orchestra di una musica da lui composta e il capitano di una nave da lui progettata, anche se non ha scritto né il soggetto né la sceneggiatura del film di cui è il regista, come ben dimostreranno i giovani critici della futura Nouvelle Vague sostenendo che il «soggetto è la regia». Oppure, con un altro paragone caro a John Ford e a Claude Chabrol, sono gli architetti delle case che costruiscono, avvicinando così la figura del regista a quella di un professionista - architetto, ingegnere, medico, avvocato - professioni che si sono sviluppate con precisi statuti, albi e ruoli.

Due facce quindi quelle del regista, due aspetti di una stessa medaglia, l'artista da una parte, il professionista dall'altra (come amava autodefinirsi Rossellini). Per un verso l'artista moderno, consapevole dei mezzi e delle tecniche della propria arte, capace di utilizzare al meglio macchine e congegni sofisticatissimi e possessore di quel talento e di quell'individualità necessari alla realizzazione di un'opera d'arte. Dall'altro, una figura partecipe di uno statuto professionale, di una competenza, di una specializzazione, sebbene privo, proprio dal lato artistico e creativo, di un potere universalmente riconosciuto, ingabbiato e imprigionato, soprattutto a Hollywood, dentro «competenze» specifiche e limitate, dentro contraddizioni ed aporie che riguardano, insieme, la natura e l'essenza del cinema e della regia.

Gilles Deleuze ha scritto che «i grandi autori di cinema potevano essere paragonati non soltanto a pittori, architetti, musicisti, ma anche a pensatori. Essi pensano con immagini-movimento, e con immagini-tempo, invece che con concetti». E a partire da queste considerazioni - dal fatto che il cinema rappresenta una nuova forma di pensiero e un nuovo sistema di rappresentazione del mondo e che quindi i registi, i creatori dei film, sono i pensatori per eccellenza di questo secolo - che ho intitolato il libro Il secolo della regia.

Che cosa significa pensare la regia di un film? Che immagine ha il regista del proprio lavoro? Quali intenzionalità creative e artistiche pone nel dirigere un film? Che posizione occupa nella catena delle varie figure di artista della storia dell'arte e della cultura? E ancora, in che modo riesce a operare soggettivamente e liberamente in una realtà industriale e di mercato? Quali difficoltà incontra nell'essere al centro di un lavoro collettivo e responsabile di tanti collaboratori? Come si addestra, come si prepara al suo lavoro? Quali sono il suo potere e la sua autorità? E infine in che modo è, o può essere, un autore?

Domande che, insieme a tante altre, questo libro si propone di affrontare, cercando di ricostruire, sinteticamente e brevemente, una «storia della regia» e del concetto di autore nel cinema attraverso il punto di vista di chi, questa storia, ha contribuito a creare - il regista prima di tutto, e poi i suoi più stretti collaboratori - ma anche tentando di delineare l'evoluzione del pensiero del regista nei confronti della sua arte e del suo mezzo di espressione.

Le autobiografie, le interviste e gli scritti in genere dei registi, ma anche dei produttori, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia ecc., seppure materiali parziali e a volte storicamente inattendibili o faziosi, rappresentano pur tuttavia un patrimonio di ricostruzione storica e di riflessione critica sul cinema di grande interesse e finora poco utilizzati e valorizzati. Ed è proprio con l'intenzione di mettere in risalto questo materiale composito e con l'ambizione di raccontare la «storia della regia» attraverso le parole stesse dei registi, che ho costruito un itinerario di lettura servendomi di un uso piuttosto ampio della citazione; essendo spesso i cineasti scrittori o conversatori intelligenti e gradevoli, credo che la piacevolezza e la chiarezza di questo libro ne abbiano tratto giovamento.

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4. LIBERARSI DAL TEATRO


Abbiamo già accennato che la figura moderna del regista di teatro viene convenzionalmente fatta nascere a Parigi nel 1887 con le regie di André Antoine al Théatre Libre (ma anche con la compagnia stabile dei «Meininger» in Germania tra il 1870 e il 1890), ed è a partire dalla fine del XIX secolo che la figura del regista teatrale si definirà via via sempre meglio. Per il cinema è quindi gioco forza fare riferimento, per quanto riguarda la messa in scena e i movimenti e la recitazione degli attori, all'esperienza teatrale. Ma il rapporto tra il regista teatrale e il regista di cinema è uno dei punti più controversi e importanti su cui far luce perché è proprio da lì che sono nati, per il cinema, equivoci e ritardi, ma anche non pochi vantaggi.

Il teatro e la messa in scena teatrale è, insieme alla fotografia, il modello a cui fanno riferimento, per tutti gli anni dieci, operatori e registi di cinema, non solo in Francia. Ancora nel 1914 Porter scriveva:

Dobbiamo tener presente il fatto che lo sviluppo del teatro ha grandemente favorito il progresso del cinema perché fin dagli inizi dell'industria cinematografica si riconobbe comunemente che l'introduzione dei principi generali dello spettacolo drammatico nella produzione di film era desiderabile e necessaria.

E Louis Delluc, in Photogénie, del 1920, osserva invece, giudicando negativamente l'origine teatrale dei registi:

Il guaio è che molti dei nostri cinegrafisti vengono dal teatro. Il Conservatorio, l'Odéon, la Comédie Française li hanno contaminati in anticipo. Quando gli fate un rimprovero, se la prendono con i loro operatori, con i loro macchinari, con i loro décors... Ah! se fossero attrezzati come gli Americani!...

Da una parte quindi il riconoscimento che «i principi generali dello spettacolo drammatico» hanno favorito il progresso del cinema, dall'altra invece la denuncia di una sorta di arresto, di contaminazione, di «regresso» del cinema, da parte di chi concepisce la regia in modo teatrale o non la concepisce affatto, dato che per molti spettacoli teatrali, soprattutto i più popolari, non si poteva parlare né di regia né di regista.

Il giurista Ascoli, in un testo del 1913 sostiene, parlando del cinema, che «l'opera del direttore di scena è molto modesta, perché la sua funzione principale consiste nel dare consigli pratici all'operatore e agli artisti. Egli fa né più né meno di quello del direttore di scena dei teatri ordinari, per cui si comprende facilmente che l'opera sua non può ritenersi lavoro intellettuale; sarà senza dubbio necessario un uomo intelligente, che conosca bene la tecnica dell'arte, ma non si può dire che costui crei qualcosa...». Al contrario, nei primi anni venti Ricciotto Canudo che, da uomo di teatro si era trasformato in un apostolo e propagandista della «settima arte», parla di «insufficienza» del termine «metteur en scène», proveniente dal teatro, per indicare la nuova figura di creatore del cinema.

Jean Giraud, nel suo Lexique français du cinéma, riprende in qualche modo la concezione del teatro e del cinema sottese in Canudo e in altri critici e cineasti francesi e alla voce Metteur en scène nota che questa espressione «molto controversa» ha designato e designa ancora il realizzatore di un film e che «all'inizio del cinema, essendo i problemi tecnici relativamente semplici, l'autore e l'operatore (preneur de vues) facevano tutt'uno; cinématographiste era sufficiente. Poi l'operatore fu subordinato al responsabile della recitazione, delle riprese (filmage) e della composizione filmica. Metteur en scène designò questo personaggio nello stesso tempo, sembra, per comodità (o per pigrizia creativa) e in ragione della parentela che esisteva allora tra il teatro e il cinema. Tuttavia la denominazione non è parsa soddisfacente a tutti, perché se n'è cercate e saggiate molte altre [...]. Quello che è certo è che il termine è inadeguato. Il "metteur en scène" di teatro, caricato dei preparativi e delle prove che esige la rappresentazione, non è che il collaboratore tecnico dell'autore. Senza il "metteur en scène" di cinema, il film non avrebbe forma scritta, cioè non esisterebbe».

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Riassumendo, le ragioni dello sviluppo rallentato e contraddittorio della figura del regista in Italia, sono, oltre al ritardo della nascita di una regia teatrale moderna, sostanzialmente due, l'una dipendente dall'altra. La prima è la mancanza di «grandi» figure di registi, mancanza sottolineata anche dagli articoli e dalle recensioni d'epoca - si parla spesso di direttori «improvvisati», di «dilettanti sprovvisti di gusto sicuro» o in preda a meccanismi puramente commerciali - con l'aggravante dell'atteggiamento «antiregistico» del maggiore tra di essi, Giovanni Pastrone. La seconda ragione è la debolezza congenita e poi il crollo definitivo dell'industria cinematografica italiana, proprio nel momento in cui la figura del regista poteva maggiormente imporsi.

Se Griffith e DeMille, dall'altra parte dell'oceano, già negli anni dieci si battono perché il loro nome diventi il nome dell'autore del film, in Italia non solo non c'è nessuna battaglia di questo tipo, ma addirittura il regista più importante fa di tutto per mantenere l'anonimato e nascondersi dietro maschere fittizie e nomi fasulli, come quelli di D'Annunzio e di Piero Fosco.

Se vogliamo continuare a seguire l'evoluzione della regia e quindi del cinema non possiamo più rimanere in Italia, dove la produzione cinematografica cesserà, tranne rare eccezioni - come i film di Genina e quelli del giovane Camerini - quasi del tutto tra il 1926 e il 1930. Dobbiamo trasferirci altrove, in Francia, in Germania, in Unione Sovietica e soprattutto negli Stati Uniti, dove brilla l'astro di Griffith, il primo nome di regista che al pubblico «sia apparso vivo davanti allo sguardo».


7. «TO MAKE THE PUBLIC SEE»: D.W. GRIFFITH

David Wark Griffith ha rappresentato nella storia della regia e nella messa a punto del nuovo ruolo del regista una posizione e una funzione così importanti e costitutive, che non si può non dedicargli uno spazio particolare, cercando di ricostruire la sua vicenda non solo con le sue parole, ma anche con quelle dei registi che vennero dopo di lui e che a lui pagano un tributo e offrono un posto d'onore unico tra quello di tutti i registi.

Se infatti Edison e Lumière sono considerati gli inventori del cinema da un punto di vista tecnico e meccanico, si ritiene che Griffith abbia inventato il cinema in quanto nuovo linguaggio e nuova forma artistica e narrativa. Nello stesso modo in cui però lo sono stati Edison e Lumière, cioè essendo il momento di sintesi e di codificazione di precedenti scoperte e di innumerevoli altre forze e individualità. I loro nomi rappresentano convenzionalmente - e non senza ragione, ovviamente - gli uni l'invenzione del cinematografo e l'altro l'invenzione del cinema e della regia.

A partire dalla fine degli anni settanta, in cui studiosi e ricercatori di tutto il mondo poterono cominciare a visionare e studiare centinaia di film realizzati prima del 1907, mettendo per la prima volta in relazione i risultati della «scuola di Brighton» con i film coevi di altri paesi, si capì che alcune figure fondamentali del nuovo linguaggio, come i movimenti di macchina, il primo piano o il montaggio alternato, avevano già fatto la loro apparizione prima di Griffith. Quello però che continua ad essere significativo rilevare è il fatto che bisognerà aspettare Griffith e con Griffith altri registi della sua generazione e, insieme, una certa «naturale» maturazione dell'espressione filmica, perché queste «figure fondamentali» del linguaggio acquisiscano un senso all'interno della narrazione filmica, così che il primo piano non costituisca una semplice «attrazione» e il montaggio alternato una pura «aggregazione» di piani.

Possiamo anche chiederci quanto la conclamata «grandezza» di Griffith sia dipesa dall'affermazione di criteri e di scelte culturali che si sono imposte su altre (con la conseguenza, ad esempio, che i suoi film sono stati conservati e restaurati più di quelli di altri registi), oppure quanto sia stata determinata dal fatto che fu «l'uomo giusto al posto giusto» ed ebbe la capacità, la possibilità e la fortuna (al contrario di altri, ad esempio scomparsi immaturamente, licenziati o incompresi dalle produzioni, falliti o particolarmente sfortunati) di lavorare ininterrottamente e con sempre maggiore potere e successo per più di vent'anni. Per quante domande però ci si possa fare sul motivo per cui Griffith appare, a un certo punto della storia del cinema, a torto o a ragione, al di sopra di tutti, non toglie l'evidenza che The Birth of a Nation, il suo grande film realizzato in modo indipendente nel 1915, sia stato un successo senza precedenti sia di pubblico che di critica in tutto il mondo, trasformando ed elevando la visione collettiva e il «senso comune» che in quel momento si aveva del cinema. Inoltre c'è forse anche da considerare un aspetto personale e psicologico - che a volte negli studi un po' asettici, anche se fondamentali, sul «modo di produzione» non vengono presi in considerazione - il fatto che più di altri grandi registi Griffith ebbe una tenacia e una fede incrollabili in quello che stava facendo e nel nuovo mezzo di espressione, sebbene questo non abbia impedito che, dopo l'avvento del sonoro, il suo cinema si dimostrasse superato e l'industria cinematografica gli rendesse impossibile continuare a realizzare dei film, costringendolo all'inattività dal 1931 al 1948, anno della sua morte.

Non vi è dubbio comunque che per la storia del cinema americano il primo vero nome di regista, che ha inventato e imposto tale figura, certo con grandi difficoltà e incomprensioni, sia stato proprio quello di Griffith e che sia nelle recensioni e testimonianze dell'epoca, sia nelle memorie dei registi che lo hanno conosciuto, Griffith appare una stella assoluta e, per alcuni anni, quasi solitaria, tanto che Ejzenstejn dirà di lui: «... È Dio Padre. Egli ha tutto creato, tutto inventato...». Apparteneva infatti «a una nuova generazione di cineasti», le cui origini e il cui «orizzonte culturale si distaccavano nettamente da quelli di un Porter o di un Bitzer. La sua formazione, soprattutto, era di tipo più "artistico" che tecnico».

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Pagina 159

4.
LO STUDIO SYSTEM: DECLINO E ASSERVIMENTO
(1929-1949)



1. LA RIVOLUZIONE DEL SONORO


L'avvento del sonoro verso la fine degli anni venti segnerà una cesura e una ferita - e per diversi cineasti anche una «regressione» e una «limitazione» - delle sorti magnifiche e progressive e della evoluzione lineare della nuova arte. È una rivoluzione che sconvolge il cinema a livello mondiale e che coincide con la nascita del cosiddetto Studio System, intorno al 1929, fatto che riguardò essenzialmente il cinema hollywoodiano ma che non fu senza conseguenze anche per quello europeo.

Sulle trasformazioni e le «complicazioni» che l'avvento del sonoro portò nella pratica e nella teoria della regia e del linguaggio ciematografico vi sono da parte dei registi numerosissime testimomanze.

Nelle parole di Frank Capra, ad esempio, emerge in modo evidente il caos in cui Hollywood fu gettata da quel piccolo e imperfettissimo film «sonoro», il cui titolo era già tutto un programma, The Jazz Singer:

Nella storica notte del 23 ottobre 1927 l'ombra di Al Jolson cantò dallo schermo. Le onde sonore di Mammy scatenarono un terremoto, un terremoto che sconvolse il mondo del cinema dalle fondamenta. Lo schermo, muto sino ad allora, aveva una voce! Hollywood tremò. Fu come se i pazzi avessero occupato il manicomio. [...] ed Harry Cohn, come reagì al sonoro? Come tutti ad Hollywood, fu terrorizzato dall'ignoto. [...]

Girare il primo film sonoro fu un'avventura. Prima di tutto, nessuno era abituato al fatto che si dovesse fare silenzio. Era normale per noi girare mentre nella stanza vicina gli operai lavoravano con seghe e martelli, così come era normale per il regista urlare dal megafono agli attori, o per gli operatori gridare frasi come «Abbassate le luci», o semplicemente scoppiare a ridere mentre si girava una scena comica. [...]

E poi c'era il problema delle macchine da presa, che ronzavano come vecchie seghe elettriche; sembrava il rumore che fanno le biciclette quando i ragazzini mettono una molletta fra i raggi delle ruote. Per eliminare quel rumore fummo costretti a rinchiudere le nostre splendide macchine da presa dentro cabine tagliate su misura, con un vetro a prova di suono di fronte, e una porta rivestita di dietro.

E Sternberg con il suo solito tono insieme lucido e apocalittico:

Quando il microfono venne ad aggiungersi agli strumenti del nostro mestiere, rovesciò la tirannia della macchina da presa. Jolson cantò e Garbo parlò e le folle corsero ad ascoltarli; la macchina da presa venne dimenticata. Nessuno, salvo poche persone, accordò più la minima attenzione alla grossa scatola nera munita del suo occhio di vetro, se non per coprirla con una coperta e un materasso in modo da far tacere i suoi rumorosi ingranaggi. Era diventata un nemico dato che il suo meccanismo poteva essere sentito dal microfono. Tutti tirarono un sospiro di sollievo quando la si chiuse dentro una specie di cuccia per cani, da dove non poteva vedere che attraverso dei pesanti pannelli di vetro. Respirare si poteva, ma non troppo forte; schiarirsi la gola, tossire o starnutire non era senza conseguenze. Un aereo che passava di lontano terrorizzava il set come se si fosse trattato di un attacco aereo.

Leggendo Capra e Sternberg - e in genere tutti i cineasti che parlano di questo evento - si ha veramente la sensazione di assistere ad una rivoluzione che ebbe probabilmente, nei primi tempi, i toni parodistici, confusionari e caotici così splendidamente raccontati da un musical del 1951, Singin' in the Rain (Cantando sotto la pioggia, di G. Kelly e S. Donen). King Vidor, a Parigi al momento dell'invenzione del sonoro, ricorda la sfida che rappresentò il «dragone» del suono per molti registi:

Un giorno mentre ero seduto al caffè vicino alla Place de l'Opéra, una copia di «Variety» attirò la mia attenzione. Il titolo, a caratteri cubitali in prima pagina, proclamava: L'industria del cinema diventa al 100% sonora.

Avevo lasciato Hollywood solo da due mesi, ma era stato sufficiente perché un'enorme trasformazione si compisse nell'industria cinematografica.

Ero eccitato ma nello stesso tempo molto triste. Mi rendevo conto che una certa magia sarebbe per sempre sparita dallo schermo. Realizzai anche che delle nuove tecniche sarebbero state inventate, adottate e realizzate. Sapevo di non poter più attardarmi tranquillamente nei caffè. Bisognava ormai far fronte al «dragone» sonoro e conquistarlo.

I registi che in questo periodo lavorano a Hollywood devono superare una sorta di «prova» di adattabilità e duttilità a un mezzo molto diverso da quello che avevano contribuito a creare nel periodo del muto. E non tutti riescono a superare queste nuove «forche caudine» che esigevano una buona formazione tecnico-scientifica, un'équipe di eccellenti collaboratori e un fiuto istintivo per la recitazione cinematografica.

La suprema adattabilità e una certa dose di coraggio e di determinazione di fronte alle circostanze più difficili è un dato che emerge con forza proprio in questa svolta epocale e il regista che lavora a Hollywood nei Golden Days può vantarsi di essere proprio quel «self made man» di cui il cinema americano ha fatto il suo protagonista preferito. E al coraggio e all'iniziativa di Raoul Walsh, ad esempio, che la Fox si affida per superare la crisi del sonoro. Walsh infatti, dopo aver «sentito» la nuova meraviglia, decide di affrontare il mostro tanto temuto e con la sceneggiatura di un buon western e un camion Movietone del suono per le attualità, riuscirà a realizzare il primo lungometraggio sonoro girato in esterni.

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Pagina 213

5.
LA QUESTIONE DELL'AUTORE



1. LA FUNZIONE-REGISTA


Dal momento in cui si è iniziato a chiedersi quanto sia utile e produttivo continuare a studiare il cinema e i film dal punto di vista della nozione d'autore e la storia del cinema privilegiando la storia degli autori, è diventata nello stesso tempo più pressante l'esigenza di ricostruire la difficile, controversa e labile esistenza di tale nozione. Nell'ambito del cinema si è infatti trattato di garantire e affermare qualcosa che nelle altre arti, soprattutto nella letteratura, esisteva da diversi secoli e che solo a partire dagli anni sessanta cominciava, in un certo senso, ad essere messo in discussione.

Con quali modalità e caratteristiche o con quali differenze il regista è l' autore del film, così come lo scrittore è l'autore del romanzo o il pittore del quadro? il concetto di autore nel cinema è un punto cruciale, una questione «aperta» che pone problemi di una certa rilevanza sia nel campo della teoria che in quelli della storia e della pratica cinematografiche.

Così come la figura del regista non nasce con la nascita del cinema, ma si configura poco a poco nel corso degli anni, la figura dell'autore, del regista come autore, non nasce con la politique des auteurs e l'affermazione della Nouvelle Vague, che del cinema d'autore ha fatto la sua bandiera. Oltre ad esserci state delle importantissime figure di «autori» fin dalle origini del cinema, la teoria dell'autore, o the auteur theory, come dicono gli americani, ha preso forma lentamente, iniziando a delinearsi a partire dagli interventi di Ricciotto Canudo nei primi anni venti, si è poi sviluppata, sempre in Francia, con i registi-teorici dell' avant-garde, Abel Gance, Germaine Dulac, Marcel L'Herbier, Louis Delluc e Jean Epstein. Parallelamente, nello stesso periodo, in Unione Sovietica, in Germania e in Italia - in modo sporadico e frammentario - si possono trovare tracce sparse e più o meno ampie di un discorso che individua nel regista l'unico possibile «artista», «creatore», «genio» o infine autore che il cinema possa esprimere. Tra gli anni trenta e cinquanta si è poi sviluppato in Italia un dibattito sulla «questione dell'autore» - così venne chiamato dal titolo di un articolo dello sceneggiatore Fabrizio Onofri apparso sulla rivista «Cinema» nel 1940 - il cui percorso storico e teorico non è ancora stato ricostruito, anche a causa della sua dispersione in innumerevoli articoli e interventi di vario tipo.

Una vera e propria teoria dell'autore nel cinema - la famosa e ripetutamente citata politique des auteurs - è stata poi fondata negli anni cinquanta in Francia, attraverso saggi, articoli, interviste, tavole rotonde e prese di posizione avvenuti in gran parte sulla rivista «Cahiers du Cinéma» e portati avanti da un gruppo di giovani critici, Rohmer, Rivette, Truffaut, Godard e Chabrol, i quali di lì a poco esordiranno come registi e praticheranno un nuovo modo di fare cinema che proprio, e anche, sulla politique des auteurs poggia le sue basi.

Ridefinendosi come Theories of Authorship, tale teoria, ridiscussa e rivisitata, ha poi continuato a sopravvivere negli anni sessanta e in parte settanta, negli Stati Uniti, soprattutto grazie al critico Andrew Sarris.

C'è infine un ultimo aspetto da rilevare e riguarda la vera e propria battaglia giuridica che, soprattutto in Francia, i registi hanno condotto per far riconoscere i propri diritti e il proprio statuto d'autore nella realizzazione di un film. Questa battaglia, per quanto riguarda il cinema francese, è stata recentemente ricostruita da alcuni studiosi in un libro, L'auteur du film.

L'idea e la nozione di autore sono un dato storico e teorico che è stato soggetto a notevoli cambiamenti e che, all'interno della storia del cinema e della regia possiamo individuare ancora oggi attraverso quattro concezioni. Cercheremo di sintetizzarle secondo una successione non soltanto diacronica, perché tutte sono ancora attualmente riscontrabili, sia negli atteggiamenti comuni, del pubblico in generale, come nelle posizioni critiche più raffinate.

La concezione forse più diffusa è quella secondo la quale l'identificazione dell'autore, rispetto a un film, è un problema storico, critico e teorico che necessita ogni volta di una chiave di lettura diversa, a seconda del film in questione, del periodo, della nazionalità, del genere, del modo di produzione ecc. Per ogni film si devono stabilire le eventuali quote di responsabilità, che possono riguardare più figure. Oltre al regista, lo sceneggiatore (e, soprattutto nel periodo del muto, lo scrittore o il drammaturgo dalla cui opera è tratto il film), il produttore e l'attore. Ma c'è anche chi ha parlato a favore del direttore della fotografia o dello scenografo. E così che ad esempio in Italia negli anni dieci si parlerà di «coautore» e di «comunione d'autore».

Il secondo criterio è quello che pone l'accento sul carattere collettivo, sulla pluralità delle istanze e delle competenze e che di principio nega quindi una singolarità autoriale al film e lo interpreta ed analizza come il prodotto di un'istanza che non si identifica con un'unica figura ma con un'équipe, un collettivo. In questo caso la funzione-autore - come direbbe Foucault - si identifica con una pluralità di figure.

La terza concezione è quella che si collega alla politique des auteurs degli anni cinquanta e in particolare alla posizione espressa a più riprese da François Truffaut per cui l'autore di un film è, in ogni caso, nel bene o nel male, sempre e solo il regista. Per Truffaut infatti e per la politique des auteurs la funzione-autore si identifica con la funzione-regista.

Il quarto ed ultimo criterio, anche cronologicamente (se ne comincia a parlare alla fine degli anni sessanta), è quello legato al poststrutturalismo e al decostruzionismo ed è un trasferimento in sede cinematografica di un'attitudine teorica che proviene da altri campi (letteratura, semiotica, narratologia, filosofia), secondo la quale la figura dell'autore si ridimensiona e perde la propria rilevanza. L'autore non è più considerato la fonte unica e unitaria della creazione, ma è un soggetto debole, frammentato e decentrato, condizionato da spinte inconsce, predeterminato dal linguaggio, dipendente da sistemi discorsivi e dinamiche produttive (che nel cinema hanno una forte operatività) e infine governato dal contesto storico, sociale e culturale.

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