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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 di Salvo Vaccaro Introduzione 15 I. L'economia partecipativa 19 II. La politica 44 III. Le relazioni di parentela 62 IV. Comunità etniche e culturali 75 V. L'internazionalismo 88 VI. L'ecologia 100 VII. Scienza e tecnologia 113 VIII. L'educazione 133 IX. L'arte 141 X. Il giornalismo 152 XI. Lo sport 162 XII. La criminalità 171 XIII. Problematiche da investigare 183 XIV. Strategie 191 XV. Il marxismo 200 XVI. L'anarchismo 232 XVII. Aspirazioni 246 XVIII. Dissenso 250 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Il celebre e assai influente economista inglese John Maynard Keynes ha scritto: «[Il capitalismo] non è un granché. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso... e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace, e cominciamo anche a disprezzarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi». Supponiamo di aver superato la perplessità di Keynes e di aver raggiunto un'economia post-capitalista desiderabile. Quali cambiamenti dovrebbero verificarsi parallelamente a questa nuova economia? Quali caratteristiche dovrebbe avere in sé la nuova economia per collegarsi efficacemente alle innovazioni extra-economiche? E in che modo l'idea generale che abbiamo del futuro condiziona le attuali strategie di cambiamento? Le società devono risolvere i conflitti, affrontare la criminalità, stabilire norme e regole condivise, implementare finalità collettive. Quale sarebbe l'impatto di una nuova economia partecipativa sulle funzioni politiche? Quali nuove strutture politiche potrebbero generare un'economia desiderabile? Nelle società, donne e uomini nascono, diventano adulti, invecchiano e muoiono. Quale sarebbe l'impatto di un'economia partecipativa (parecon, per brevità) sulle relazioni tra i sessi, il modo di vivere, i metodi di procreazione, le abitudini alimentari, i contenuti e la messa in pratica di una socializzazione delle nuove generazioni? Cosa dovrebbe chiedere all'economia partecipativa un miglioramento dei rapporti umani? Le persone, durante la loro esistenza, passano attraverso gruppi di età diversi. Quali implicazioni avrebbe un'economia partecipativa per le relazioni intergenerazionali, e come potrebbe favorire relazioni intergenerazionali corrette? Ci sono diversità culturali tra le persone, che formano comunità razziali, etniche e religiose. Quali ricadute avrebbe un'economia partecipativa su queste comunità? E quali effetti avrebbero sulle strutture economiche nuove relazioni tra le comunità culturali? Ogni società ha contatti con altre società. Un'economia partecipativa che cosa favorirà: la pace o la guerra, il conflitto o la cooperazione, l'equità internazionale o la diffusione della disuguaglianza? E per converso, in quale modo nuove relazioni internazionali potrebbero influenzare le strutture economiche? L'economia riguarda anche la natura. Una parecon porterebbe a disastri ambientali o invece porterebbe a un saggio ambientalismo? Che ne sarebbe delle altre specie, dalle piccolissime creature unicellulari ai grandi elefanti e alle balene, dagli insetti nocivi a quelli utili, dalle piante infestanti a quelle commestibili, dagli animali di casa cui vogliamo tanto bene ai predatori di cui abbiamo paura? Quali implicazioni avrebbe una parecon per le specie diverse dagli umani, e quali implicazioni avrebbe per una parecon attribuire importanza a una sana politica di protezione ambientale e conservazione biologica? Gli scienziati hanno a lungo studiato il mondo, dai più minuscoli sentieri subatomici ai più giganteschi scenari extragalattici. Che effetto avrebbe l'economia partecipativa sulle conoscenze e le attività scientifiche? E cosa significherebbe per una parecon una pratica scientifica virtuosa? L'umanità utilizza la conoscenza scientifica e l'abilità sperimentale al fine di creare tecnologie per la produzione, l'abitabilità, gli spostamenti, la salute, l'intrattenimento, eccetera. Le realizzazioni tecnologiche in una parecon sarebbero accelerate o rallentate? Quale direzione, contenuti, utilizzazione, avrebbe la tecnologia? Una innovazione tecnologica desiderabile, cosa richiederebbe a un'economia partecipativa? La salute è importante. L'economia ha effetti diretti e indiretti sul nostro corpo e la nostra mente. In che modo una parecon influenzerebbe la medicina e le cure mediche, e cosa dovrebbe garantire una parecon per una società in buona salute? È necessaria anche l'istruzione. Un'economia partecipativa sosterrebbe la migliore pedagogia immaginabile o al contrario limiterebbe la nostra immaginazione pedagogica? Cosa servirebbe, da una parecon, per una pedagogia desiderabile? Una parecon garantirebbe l'accesso all'istruzione e la richiesta di scolarizzazione? Che dire dell'informazione? Quali implicazioni avrebbe una parecon per i contenuti e la pratica del giornalismo? E cosa chiederebbe a una parecon un giornalismo desiderabile? Gli esseri umani si dedicano alle arti visive, musicali, letterarie... La parecon favorirebbe la creatività artistica o ne ridurrebbe la qualità? Cosa chiederebbe una parecon agli artisti? E cosa chiederebbe a una parecon la creatività artistica? Le attività sportive verrebbero ridotte o stimolate dalla parecon? Quale sarebbe la sorte delle competizioni di tipo non-economico in un'economia cooperativa e non competitiva? Cosa dovrebbe fornire una parecon, per uno sport desiderabile? Infine, cosa ci dice l'economia partecipativa sugli agenti dei cambiamenti sociali e sui probabili oppositori di tali cambiamenti? Cosa ci dice circa le richieste, le polemiche, gli sforzi e l'ispirazione necessari a creare una opposizione durevole al capitalismo? Cosa ci dice circa le caratteristiche che le nostre organizzazioni dovrebbero avere per ottenere i risultati voluti, e non risultati che in seguito dobbiamo disconoscere? Qual è la connessione tra l'economia partecipativa e altri approcci al cambiamento economico e sociale (marxista, anarchico, o altri)? Come vede l'economia partecipativa la sua stessa fallibilità? Come interagirà con i suoi fautori e i suoi critici? La parecon gradirà la critica, l'innovazione, il rinnovamento, oppure tenderà a un atteggiamento di difesa, rigidità, settarismo? Il primo obiettivo di La vita oltre il capitalismo è indicare i meriti sociali dell'economia partecipativa e incoraggiare i lettori a ulteriori esplorazioni delle interconnessioni tra l'economia e le altre sfere della vita sociale. Un secondo obiettivo è contribuire, sia pur modestamente, a informare sulle proposte avanzate per una visione e una strategia valide per ciascuna delle tematiche qui affrontate. | << | < | > | >> |Pagina 19Le economie hanno in sé una varietà di componenti pressoché infinita. Due società diverse, ad esempio la Francia e il Messico, oppure gli USA e il Sud Africa, anche se il modello economico è lo stesso presentano una miriade di differenze: entità e istruzione della popolazione, qualità di risorse e infrastrutture, tipo di industrie, approcci organizzativi, modelli di proprietà e di istituzioni economiche secondarie, storie e relazioni di classe, articolazioni operative.
Lo stesso vale per i modelli economici diversi dal capitalismo.
Società diverse, con una nuova economia partecipativa, diciamo
l'Italia del futuro, o il Messico del futuro, o gli USA, la Malesia, il
Venezuela, la Polonia, la Turchia, il Sud Africa del futuro, avranno
molte caratteristiche diverse oltre ad alcune in comune che
definiscono il tipo di economia. L'economia partecipativa - che
d'ora in poi chiamerò sinteticamente
parecon — è una proposta che mette insieme caratteristiche atte a definire
un'economia post-capitalista.
La prima caratteristica tipica del capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione. Una modesta percentuale della popolazione possiede praticamente tutte le industrie, i macchinari, le risorse e il terreno agricolo. Questa percentuale controlla la disponibilità e l'uso di tale proprietà e ricava profitti dalla produttività di ciò che possiede. Il capitalismo è anche caratterizzato dalla divisione organizzata del lavoro e da un processo decisionale autoritario. Circa il 20 per cento del personale delle strutture produttive capitaliste svolge esclusivamente attività intellettuale e dirigenziale, mentre il restante 80 per cento ha compiti per lo più pratici ed esecutivi. Il 20 per cento prende molte decisioni e determina le scelte sociali. L'80 per cento prende poche decisioni e si limita soprattutto a obbedire agli ordini. Il reddito delle persone nelle economie capitaliste deriva principalmente dal loro potere contrattuale. Otteniamo dalla produzione economica ciò che siamo in grado di prendere. È la proprietà dei beni che dà diritto al profitto. Anche il controllo delle risorse o delle competenze necessarie, il valore del prodotto che viene generato, le attribuzioni sociali come il genere e la razza, l'affiliazione a organizzazioni come il sindacato, determinano la maggiore o minore capacità di reddito. Un'altra caratteristica che identifica il capitalismo è il mercato. I mercati mediano la quantità dei beni o servizi che vengono prodotti, il valore relativo dei diversi oggetti e la loro distribuzione tra gli attori coinvolti. Venditori e acquirenti fanno il proprio interesse, senza preoccuparsi delle conseguenze sugli altri. Io vendo i beni al prezzo più alto che posso spuntare e cerco di avere i costi più bassi possibile. Tu acquisti beni del maggior valore reperibile al prezzo più basso che puoi pagare. E ci tosiamo a vicenda. È la competizione a indirizzare lo sviluppo e a determinare le valutazioni relative. Le preferenze e il potere contrattuale di compratori e venditori determinano il prezzo. Però le preferenze di quanti sono interessati ma non sono coinvolti direttamente in transazioni specifiche non hanno alcun peso. Se tu desideri un'automobile e vuoi comprarla, questo influenza il prezzo. Ma se a me non piace l'inquinamento che quell'auto produrrà, ciò non ha influenza sul prezzo. Negli scambi mercantili, chi ha più potere fa fortuna e «i buoni restano ultimi». Ma al di là di elementi come la proprietà privata dei mezzi di produzione, l'organizzazione aziendale del lavoro, la decisionalità gerarchica, la remunerazione (profitto) specifica legata al controllo del potere, della proprietà e della produzione e l'allocazione attraverso il mercato, c'è una miriade di variazioni a livello di istituzioni secondarie, popolazione, storia locale, imposizioni da questa o quella porzione della società, che distingue l'uno dall'altro i vari esempi di capitalismo. Il Sud Africa è diverso dagli USA. L'Inghilterra del 1900 è diversa da quella del 2000. L'India è diversa dal Messico. Parlando del capitalismo, John Stuart Mill, uno dei principali filosofi del diciannovesimo secolo, ha scritto: «Confesso che non mi affascina l'ideale di vita di coloro che ritengono che lo stato normale degli esseri umani sia lottare per andare avanti, che tutto quel calpestare, schiacciare, sgomitare e passare avanti a danno l'uno dell'altro, sia la più desiderabile attività degli esseri umani». Più recentemente, il grande scrittore latinoamericano Eduardo Galeano ha detto che nel capitalismo praticamente tutti i valori sono rovesciati: «Dal punto di vista economico, la vendita di armi è indistinguibile dalla vendita di generi alimentari. Quando qualche edificio crolla, o un aereo cade, ciò è assai poco vantaggioso dal punto di vista di chi ci sta dentro, ma è vantaggioso per la crescita del prodotto interno lordo, che in certi casi dovrebbe essere chiamato il 'prodotto lordo criminale'». Secondo la mia opinione, che qui riporto molto sinteticamente, il capitalismo è un'economia delinquenziale, spietata, bassa, vile e in gran parte noiosa. È l'antitesi della soddisfazione e dello sviluppo umano. Deride l'equità e la giustizia. Adora l'ingordigia. Non serve all'umanità.
Non credo siano molti, tra i lettori di questo libro, quelli che non
sono d'accordo con questi discorsi. Descrizioni simili del capitalismo, ad
esempio, sono frequenti nella letteratura contemporanea e
in altri media. In effetti, sono convinto che se molte persone oggi
parlano di un capitalismo più umano, o evitano di criticarlo pubblicamente, non
è perché nel loro intimo vogliono disconoscerne i
mali o perché pensano che esso sia qualcosa di liberatorio. Piuttosto, pensano
che il capitalismo sia l'unica forma economica possibile, che sia inevitabile
dover operare all'interno della sua giurisdizione e che criticare il capitalismo
sia come criticare l'inevitabile. In ogni modo, stante il fatto che a me il
capitalismo non piace, sento l'esigenza di volgermi a un'economia migliore.
L'economia partecipativa ha caratteristiche totalmente diverse dal capitalismo. Ampie disamine della sua logica economica sono disponibili online sul sito www.parecon.org. In questa sede non è mia intenzione riproporle tutte, voglio semplicemente riassumere le principali, in vista di una discussione circa l'economia partecipativa e il resto della società.
La parecon mira al soddisfacimento di quattro valori fondamentali:
solidarietà, diversità, equità, autogestione.
Solidarietà. Il primo valore su cui dovrebbe poggiare una buona economia riguarda il modo in cui lavoratori e consumatori si relazionano reciprocamente. Nel capitalismo, per andare avanti, bisogna calpestare gli altri. Per aumentare il proprio reddito e potere bisogna ignorare le orribili sofferenze patite da coloro che stanno sotto, o addirittura contribuire a spingerli ancora più in basso. Nel capitalismo, non solo i buoni restano ultimi, ma, per usare una mia espressione alquanto più aggressiva, «emerge la spazzatura». A differenza della corsa al successo propria del capitalismo, una buona economia dovrebbe essere un'economia solidale, capace di generare socialità e non irresponsabilità sociale. Le sue istituzioni di produzione, consumo, distribuzione, dovrebbero indurre anche le personalità anti-sociali a perseguire il benessere altrui per ottenere il proprio. Ovvero, per portare avanti una buona economia bisogna agire tenendo presente e rispettando la condizione degli altri.
È interessante notare che questo primo valore della parecon,
tanto contrario alla logica capitalista del «io prima di tutto, e al
diavolo tutti gli altri», non è assolutamente oggetto di controversie.
Solo uno psicopatico potrebbe sostenere che, a parità di produzione e di reddito
distribuito, un'economia che generasse ostilità e
atteggiamenti anti-sociali nei partecipanti sarebbe migliore di una
che genera mutua considerazione. A parte gli psicopatici, tutti
diamo valore alla solidarietà e preferiremmo non dover calpestare
gli altri. La solidarietà, quindi, è il primo valore della parecon.
Diversità. Il secondo valore che una buona economia dovrebbe garantire ha a che vedere con le opzioni che tale economia genera. La retorica del mercato capitalista fa un gran parlare di opportunità offerte, ma la disciplina mercantile capitalistica blocca il soddisfacimento e lo sviluppo sostituendo a ciò che è umano e altruista ciò che è commerciabile, redditizia e consonante con le esistenti gerarchie del potere e della salute. Il capitalismo costringe l'immensa varietà di gusti, preferenze e scelte che gli umani naturalmente manifestano entro modelli conformistici imposti dalla pubblicità, dai ruoli rigidi che vengono offerti nell'ambito della divisione in classi, nonché dalla pressione coercitiva dei mercati che produce gli atteggiamenti e le abitudini commerciali. Il risultato è che nel capitalismo cerchiamo il prodotto che si vende meglio, senza riguardo per l'impatto che ciò ha sulla società, invece di cercare una gamma di prodotti che abbiano l'impatto più desiderabile. Cerchiamo quel singolo metodo più redditizio per svolgere una certa mansione, e non molti metodi paralleli che si adattino a una serie di priorità diverse; cerchiamo in ogni cosa, o quasi, ciò che è più grande, lasciando sempre fuori della porta la massa di scelte disparate che potrebbero generare maggiore e più generale soddisfazione. Viceversa, istituzioni produttive responsabili, di consumo o distribuzione che siano, non solo non ridurrebbero la varietà ma al contrario stimolerebbero la ricerca e il rispetto di approcci diversi alla soluzione dei problemi. Una buona economia riconoscerebbe che siamo esseri finiti che possono trarre vantaggio dal fatto che altri fanno ciò che noi non abbiamo il tempo di fare e anche che siamo esseri fallibili che non dovrebbero riporre tutte le proprie speranze in un'unica via, ma piuttosto prevenire i danni possibili esplorando opzioni diverse e strade parallele.
Anche questo valore della diversità, come quello della solidarietà, non è
assolutamente oggetto di controversie. Anche in questo caso, solo un essere
perverso potrebbe sostenere che, a parità di
altre condizioni, sia meglio un'economia che omogeneizza e restringe le opzioni,
rispetto a una che le diversifica e le espande.
Quindi noi diamo valore alla diversità, non all'omogeneità. La diversità è il
secondo valore della parecon.
Equità. Il terzo valore che vogliamo venga portato avanti da una buona economia ha a che vedere con la distribuzione dei prodotti. Il capitalismo remunera in modo spropositato la proprietà e il potere contrattuale, affermando che chi possiede i mezzi di produzione merita in virtù di ciò l'acquisizione dei profitti. Si sostiene che chi ha un grande potere contrattuale, quale che ne sia la base, dal monopolio della conoscenza all'uso di migliori strumenti o di una migliore organizzazione, all'avere qualche speciale talento innato, all'esercizio della forza bruta, deve avere tutto ciò che riesce a prendere. Al contrario, una buona economia dovrebbe essere un'economia equa, le cui istituzioni di produzione, consumo e allocazione non solo non minerebbero o ostacolerebbero l'equità, ma addirittura la promuoverebbero. Ma cos'è l'equità? Chi persegue l'equità, ovviamente, è contrario a una remunerazione della proprietà. Non può essere equo che, per il fatto di avere in tasca un certificato di proprietà, sia possibile guadagnare cento, mille, un milione o persino dieci milioni, di volte quello che guadagnano persone che lavorano di più e più a lungo. Ereditare la proprietà per nascita e in virtù solo di ciò, senza alcun merito, superare di gran lunga le possibilità e l'influenza altrui, non può assolutamente essere equo. Siamo anche contrari a remunerare il potere attraverso il reddito. La logica di Al Capone, di Gengis Khan, o della Harvard Business School, è che ogni soggetto venga remunerato per la sua attività economica con tutto ciò che può prendere. Questo principio valorizza non il guadagno equo, ma il comportamento delinquente, ed essendo persone civili, ovviamente lo rifiutiamo. E i prodotti? La gente non dovrebbe forse ricevere dalla produzione sociale una quantità pari a quanto ognuno produce? Dopo tutto, quale ragione può giustificare che si debba ricevere meno di quanto è il nostro contributo, o viceversa più del nostro contributo? Dobbiamo ricevere una quantità pari a quanto produciamo, o no? Così sembrerebbe, ma supponiamo che Bill e Jill facciano lo stesso lavoro, per lo stesso tempo e con la stessa intensità. Se Jill possiede una strumentazione migliore con cui riesce a produrre di più, deve per questo ricevere un reddito maggiore di Bill, che ha strumenti meno efficaci e quindi produce di meno, anche se lavora altrettanto duramente, o anche più duramente? Allo stesso modo, perché uno cui capita di produrre qualcosa di valore elevato dovrebbe ricevere un compenso maggiore di chi per caso produce qualcosa di valore inferiore, ma comunque socialmente desiderato, anche se la persona meno produttiva lavora con la stessa intensità e per lo stesso tempo, in condizioni simili a quelle della persona più produttiva? Estendendo la stessa logica, perché mai qualcuno che ha avuto fortuna alla lotteria genetica, ereditando i geni di una corporatura robusta, o del talento musicale, o di riflessi fulminei, o della visione periferica, o della capacità intellettuale, dovrebbe essere compensato più di chi è stato geneticamente meno fortunato? Sei nato con un dono meraviglioso. Non hai fatto niente per averlo. Perché, oltre alla fortuna di questa eredità, devi anche avere, in più, un reddito superiore? Non hai dovuto guadagnartelo, né hai messo in luce una moralità superiore. Semplicemente, hai avuto fortuna. Alla luce della logica implicita in questi esempi, appare che la remunerazione, per essere equa, debba riguardare lo sforzo e il sacrificio necessari per produrre qualche oggetto socialmente desiderato. Se lavoro più a lungo, devo essere pagato di più. Se lavoro più intensamente, devo essere pagato di più. Se lavoro in condizioni peggiori e svolgo compiti più onerosi, devo essere pagato di più. Ma non perché ho strumenti migliori, o perché produco qualcosa che per qualche motivo trova maggiore apprezzamento, o perché possiedo talenti innati altamente produttivi, e nemmeno nel caso di superiori competenze apprese (anche se dovrei essere compensato per lo sforzo e il sacrificio compiuto per ottenerle), né ovviamente dovrei essere compensato per un lavoro che non trova apprezzamento sociale. A differenza dei primi due, solidarietà e diversità, questo terzo valore, secondo cui vanno remunerati solo lo sforzo e il sacrificio espressi in un lavoro socialmente riconosciuto, e parecchio controverso. Vi sono alcuni anti-capitalisti che pensano che le persone dovrebbero essere compensate per l'intero ammontare di ciò che producono, sicché è giusto che un grande atleta guadagni una fortuna e che un buon dottore guadagni ben più di un contadino che lavora sodo o di un cuoco di basso livello. Ma un'economia equa, o comunque un'economia partecipativa, rifiuta questo principio. L'equità della parecon richiede che, a parità di intensità e durata del lavoro, la persona che svolge un'attività piacevole, comoda, divertente e molto produttiva dovrebbe guadagnare di meno di chi ha un incarico oneroso, debilitante, meno produttivo e tuttavia socialmente valido e apprezzato proprio a causa del sacrificio che deve sopportare. La parecon remunera lo sforzo e il sacrificio spesi nel lavoro socialmente valido. Non remunera la proprietà, il potere o la produzione. Certo, si devono produrre risultati socialmente validi, commisurati alla produttività degli strumenti e delle condizioni di lavoro, ma non è il valore del prodotto che determina la remunerazione, bensì lo sforzo e il sacrificio compiuti. Esistono altre due posizioni anti-capitaliste a proposito della remunerazione che hanno in comune il fatto di portare un ragionamento inizialmente sensato a un estremo controproducente. Il primo approccio sostiene che il lavoro in sé è intrinsecamente negativo. Questa posizione si chiede perché mai chi si pone il problema di un'economia migliore si preoccupi dell'organizzazione o della ripartizione del lavoro. Perché invece non lo eliminiamo? Questa posizione nota giustamente che il nostro sforzo di innovazione dovrebbe cercare di diminuire gli aspetti onerosi del lavoro, a favore delle caratteristiche che danno maggiore soddisfazione. Ma poi si allontana da questo valido consiglio per sostenere l'opportunità di eliminare totalmente il lavoro, il che è una sciocchezza. Prima di tutto, bisogna dire che il lavoro produce risultati di cui non vogliamo fare a meno. La ricompensa che il lavoro produce giustifica il costo della sua intrapresa. In una buona economia, il lavoro eccessivo verrebbe abbandonato prima di arrivare al punto di ottenere una ricompensa insufficiente. Nella parecon, ci sforziamo e facciamo sacrifici solo finché il valore della remunerazione ricevuta supera il costo dei nostri sforzi. Solo se ciò non avviene optiamo per l'ozio, per non proseguire quel lavoro. Inoltre, per dirla con le parole del famoso geografo anarchico Pétr Kropotkin, «è il superlavoro a essere repulsivo per la natura umana, non il lavoro in sé. Lavorare in eccesso per fornire lusso ai pochi, non lavorare per il benessere di tutti. Lavorare è una necessità fisiologica, l'esigenza di spendere le energie corporee accumulate, un bisogno della salute e della vita stessa». In altre parole, i meriti dell'attività lavorativa non stanno solo nei suoi risultati, ma anche nel processo e nell'atto in sé. Vogliamo eliminare il lavoro oneroso e debilitante, certamente, e anche eliminare la sua iniqua remunerazione, ma non vogliamo eliminare il lavoro in sé. Abbiamo bisogno di mantenerlo, ma trovando il modo di svolgerlo in modo diverso da ora. Il secondo approccio anti-capitalista, collegato al primo, sostiene che l'unico criterio di remunerazione debba essere il bisogno umano. «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» è la frase che definisce questa prospettiva. Ciò che questa posizione sottolinea giustamente è che le persone meritano rispetto e sostegno per il fatto stesso di esistere. Se qualcuno non è in grado di lavorare, è chiaro che non deve morire di fame né vedersi negare il reddito che gli altri hanno. Bisogna soddisfare le sue esigenze, modulate in accordo con la media sociale. Allo stesso modo, se qualcuno ha speciali necessità mediche, anche queste devono essere soddisfatte, indipendentemente dal volume, dalla intensità o dal tipo di lavoro che questa persona è in grado di compiere. Il problema di soddisfare le necessità non sorge quando abbiamo a che fare con persone fisicamente o mentalmente inabili al lavoro (nel qual caso è un problema perfettamente logico) ma quando si cerca di applicare questa norma alle persone che non hanno particolari esigenze mediche atte a interferire con la loro attività lavorativa. Ad esempio, mi è concesso non svolgere alcun lavoro e tuttavia beneficiare del prodotto sociale? È possibile non fare alcun lavoro e consumare nella quantità che preferisco, senza limiti esterni? Evidentemente no. Andrebbe a finire che nessuno lavorerebbe più pur aspettandosi di poter consumare come e più di adesso. In genere, ciò che i sostenitori della retribuzione in base alla necessità e del lavoro in base alla capacità hanno in mente è che ogni soggetto opti responsabilmente per una giusta partecipazione al consumo del prodotto sociale e responsabilmente fornisca un giusto quantitativo di lavoro per la produzione di tale prodotto. Ma come è possibile sapere cosa è giusto consumare o produrre? O più esattamente, come fa l'economia a determinare cosa è giusto? In altre parole, l'applicazione pratica della norma «lavorare in base alle capacità e consumare in base ai bisogni» ammette implicitamente che lavoro e consumo siano in accordo con la media sociale, ammettendo che le persone responsabilmente vadano al di sopra o al di sotto di essa solo in casi particolari, in cui ciò è permesso. Ma quando è permesso? E ancora, come si fa a sapere qual è la media sociale? Come è possibile conoscere i valori relativi dei prodotti se non abbiamo alcuna misura del valore del lavoro necessario a produrli e non sappiamo quanto siano richiesti? Come facciamo a sapere se il lavoro è giustamente ripartito e se sono necessarie innovazioni per aumentare la produzione di alcuni articoli o diminuire quella di altri? Come facciamo a sapere dove investire per migliorare le condizioni di lavoro? Come fa l'economia a decidere quanto produrre di questo o quel bene? Anche se pensiamo che remunerare la necessità e lavorare secondo le proprie capacità sia una norma morale superiore alla remunerazione di sforzo e sacrificio (e questa è una questione aperta), tale norma non è pratica, a meno che non ci sia una misura esterna delle necessità e della capacità, una valutazione dei diversi tipi di lavoro, un modo per determinare qual è il comportamento apprezzato, e la concreta aspettativa che tutti vi si adeguino. Ma ciò equivale esattamente a remunerare sforzo e sacrificio, non la necessità, perché anche questa remunerazione permette alle persone di lavorare e consumare più o meno secondo la propria scelta e permette a ognuno di giudicare i valori relativi in sintonia con costi e benefici sociali reali. In altre parole, i valori che si nascondono dietro il desiderio di remunerare le necessità sono, a ben vedere, soddisfatti in modo più appropriato e completo remunerando sforzo e sacrificio.
E così abbiamo il nostro terzo valore, controverso anche
nell'ambito anti-capitalista. Secondo noi una buona economia deve
remunerare lo sforzo e il sacrificio, e quando qualcuno non è in
grado di lavorare, deve comunque fornirgli reddito e cure sanitarie
secondo le sue necessità.
Autogestione. Il quarto e ultimo valore su cui una buona economia dovrebbe fondarsi ha a che vedere con il processo decisionale. Nel capitalismo sono i proprietari ad avere più voce in capitolo, insieme a manager, grandi studi legali, operatori finanziari, ingegneri, medici, ognuno dei quali svolge in modo monopolistico attività di potere e controlla posizioni in cui si prendono quotidianamente decisioni. Dall'altra parte, chi fa i lavori routinari ed esecutivi raramente conosce queste decisioni, e ancor meno è in grado di influenzarle. Al contrario, una buona economia deve essere un'economia ampiamente democratica in cui ognuno controllerà la propria vita, all'unisono con gli altri che faranno lo stesso. Ogni persona avrà un livello di influenza non antitetico al diritto altrui di avere lo stesso livello di influenza. Tutti contribuiremo a influenzare le decisioni proporzionalmente a quanto queste avranno influenza su di noi. È questa l'autogestione. Immaginiamo che un operaio voglia piazzare una foto di sua figlia sul luogo dove lavora. Chi deve prendere questa decisione? Il padrone? Un dirigente? Tutti gli operai insieme? È evidente che nessuna di queste opzioni ha senso. È il lavoratore in questione che deve decidere, lui solo, in piena autorità. In quel caso particolare egli può essere un «dittatore». Ci sono casi in cui ha senso che le decisioni vengano prese in modo unilaterale. Supponiamo invece che lo stesso lavoratore voglia mettersi un apparecchio radio sul tavolo, per suonare musica rock ad alto volume. Chi deve decidere in questo caso? È intuitivo che debbano essere tutti quelli che odono la radio e tra questi soprattutto quelli più infastiditi, oppure più beneficiati. Il singolo lavoratore adesso non può più fare il dittatore, né lui né altri. A questo punto siamo implicitamente arrivati a un valore della decisionalità. Ci rendiamo facilmente conto che non vogliamo che sia la maggioranza a decidere su tutto, in ogni momento. Ma nemmeno vogliamo che sia sempre una-persona-un-voto a decidere con una percentuale più bassa o più alta della maggioranza. Né vogliamo che ci sia una persona che decide in modo autoritario, come un dittatore. E neppure vogliamo sempre l'unanimità o un altro modo per risolvere i problemi, esprimere opinioni o dare voti. Tutti i metodi possibili per prendere decisioni sono validi in certi casi e sono orribili, intrusivi o autoritari in altri. Decisioni diverse richiedono approcci diversi.
Quanto speriamo di realizzare scegliendo tra tutti i possibili sistemi
decisionali per affrontare problemi, stabilire priorità, scambiare informazioni,
è che ogni persona possa esercitare influenza
sulle decisioni proporzionalmente al grado in cui viene influenzata
dalle decisioni prese. E questo è il quarto valore della parecon,
l'autogestione.
Quando ci viene chiesto cosa vogliamo, possiamo ragionevolmente rispondere che vogliamo solidarietà, diversità, equità e autogestione. Ma ciò non è sufficiente per rispondere alla domanda. Se proponiamo istituzioni la cui logica conduce ad altri valori, o hanno difetti gravi sotto altri aspetti, come il mercato, le multinazionali, la proprietà privata, a cosa serve il nostro riferimento retorico a valori positivi? Certo, i valori positivi sono importanti, ma dobbiamo anche proporre un corpo di istituzioni che possano renderli reali senza compromettere il successo economico. | << | < | > | >> |Pagina 44Il mio paese, gli Stati Uniti, possiede verosimilmente uno dei sistemi politici più democratici attualmente in funzione. Tuttavia, anche se non ci fossero le grandi concentrazioni di ricchezza e potenza economica a dominare i risultati politici, anche se i media non costringessero e manipolassero l'informazione per condizionare le preferenze politiche, anche se i due partiti esistenti non fossero in realtà che due ali di un singolo partito consociato, anche se non ci fossero strutture idiote o nel migliore dei casi anacronistiche come i collegi elettorali, anche se le elezioni non fossero una faccenda in cui chi vince prende tutto e dove più di metà della popolazione votante vede ignorate le proprie aspirazioni, anche se le elezioni non fossero facilmente dirottate da frodi palesi, questa moderna democrazia parlamentare elettorale resterebbe comunque molto lontana da un sistema capace di generare partecipazione, favorire opinioni informate e risolvere le controversie in modo giusto. Quindi, cosa vorremmo al posto degli attuali sistemi politici, o — cosa ancora più centrale per questo libro — qual è il rapporto tra l'economia partecipativa e ciò che desideriamo sul piano politico? Per trattare adeguatamente questo tema, l'ideale sarebbe partire dalla descrizione di una nuova visione politica convincente e quindi esaminarne l'interfaccia con l'economia. Fortunatamente per noi, nonostante l'articolazione di una visione politica positiva non sia ancora così avanzata come quella dell'economia partecipativa, l'attivista e studioso politico americano Stephen Shalom, tra gli altri, ha almeno avviato questo processo nella sua presentazione preliminare della parpolity (politica partecipativa), disponibile su internet attraverso la pagina web di ZNet dedicata alla società partecipativa ( www.zmag.org/pps.htm ).
La parpolity è una visione politica che mira a promuovere i medesimi valori
della parecon. Poiché descrive molte caratteristiche
che un buon sistema politico dovrebbe avere, possiamo utilmente
prenderla come punto di partenza in questo capitolo.
L'anarchico francese Proudhon ha scritto: «Essere governati significa essere controllati, ispezionati, spiati, diretti, legiferati, irreggimentati, incasellati, indottrinati, catechizzati, controllati, valutati, censurati, comandati, da persone che non hanno né il diritto né la saggezza né la virtù... Essere governati significa essere annotati, registrati, censiti, tassati, timbrati, autorizzati, avvertiti, ammoniti, prevenuti, riformati, raddrizzati, corretti. Significa essere assoggettati a tributi, addestrati, taglieggiati, sfruttati, monopolizzati, estorti, pressati, mistificati, rapinati; il tutto in nome della pubblica utilità e del bene generale. E al primo segno di resistenza, o lamentela, veniamo repressi, multati, disprezzati, vessati, perseguiti, spintonati, battuti, garrotati, imprigionati, fucilati, mitragliati, giudicati, condannati, deportati, sacrificati, venduti, traditi, e per giunta ridicolizzati, derisi, oltraggiati, e disonorati. Questo è il Governo. Questa è la sua giustizia, la sua morale!».
Una obbiezione seria che si può muovere alle parole di Proudhon
e di altri anarchici da cui traiamo ispirazione è che non specificano
come superare l'irreggimentazione tipica dello stato e del governo.
Non spiegano come ogni cittadino, o comunità, possa determinare
liberamente le proprie azioni sul piano organizzativo. In che modo
trasformiamo in leggi norme condivise, formuliamo programmi
collettivi, risolviamo le controversie e gestiamo le violazioni della
socialità? Come possiamo impedire agli esseri umani di essere ridotti ad atomi
che si urtano e stridono, e costruire invece una società dove le azioni di ogni
individuo portano beneficio collettivo a tutti gli altri?
Un delinquente con un bastone può disgregare anche la più armoniosa delle associazioni. E i delinquenti con il bastone, in tutte le loro varianti, che siano spinti dall'alcol o da gelosia, arroganza, avidità, qualche patologia o qualche altro attributo anti-sociale, non sono destinati a scomparire in una buona società. Allo stesso modo, una controversia che non trova il mezzo per risolversi, spesso non fa che intensificarsi, anche nel migliore degli ambienti, trasformandosi in un conflitto che trascende ampiamente il motivo per cui è scoppiata, che sia una disputa tra gli Hatfields e i McCoys, gli Stati del Nord e quelli del Sud, aree urbane e aree rurali, Francia e Germania o Pakistan e India. Cosa impedisce che i delinquenti provochino degradazione sociale? Cosa impedisce che le controversie si acuiscano? Più in generale, se non abbiamo norme sociali concordate, la gente dovrà continuamente dar vita a progetti sociali iniziati ex novo, perché non potremo trarre beneficio da un corpo di responsabilità e regole su cui ci siamo messi previamente d'accordo. Dovremo affrontare continui negoziati, che ostacoleranno la messa in atto delle norme e delle regole che vogliamo. In una buona struttura politica, avremo responsabilità che si è stabilito di non violare, oppure tutto ciò che facciamo dovrà essere rimesso in discussione ogni nuovo giorno? Nel primo caso, potremo avere un'esistenza civile. Nel secondo, avremmo solo caos. Per poter funzionare a livello sociale, ci servono strutture politiche. Per dirla in altro modo, se è vero che anche regole e responsabilità desiderabili, stabiblite con il maggiore mutuo accordo possibile, possono in qualche misura limitare il nostro spettro di opzioni, bisogna riconoscere che la presenza di buone regole condivise può rendere lo spettro delle opzioni disponibili assai maggiore che se le regole fossero assenti. Le luci rosse e verdi agli incroci limitano le nostre opzioni di guida, ma ci salvano anche la vita. Avere regole cui tutti ci atteniamo può permettere a ciascuno di noi, come nel caso dei semafori, di agire in modo più efficiente e diversificato, anche se in alcuni casi restringono le nostre scelte. Se le norme istituzionali limitano accettabilmente le opzioni, la coesione che possono fornire compensa ampiamente le limitazioni che impongono. Se ruoli e responsabilità precedentemente accettati vengono violati, è probabile che vengano messe in questione e forse totalmente vanificate aspettative, azioni, opzioni altrui. Non è la libertà di uccidere che vogliamo. Né quella di passare agli incroci con il semaforo rosso. Vogliamo una libertà che apra la strada a ulteriori libertà ed espanda gli strumenti a disposizione per goderne. Vogliamo liberarci delle restrizioni inutili, ma vogliamo fare questo solo in armonia con altri che hanno le stesse libertà che abbiamo noi e che intendano rispettare le responsabilità su cui in precedenza ci siamo messi d'accordo.
Abbiamo quindi bisogno di costituire istituzioni che ci permettano di
svolgere le funzioni politiche coerentemente con i nostri
valori, così come abbiamo bisogno di istituzioni economiche che ci
permettano di svolgere le funzioni economiche in accordo con i
nostri valori. La questione dunque è: quali sono le nuove istituzioni politiche
desiderabili?
Una risposta fallita è la prospettiva detta marxista-leninista. Come ha dimostrato la storia, la «dittatura del proletariato» si traduce in modo praticamente automatico nella dittatura del partito, il politburo, e nel caso peggiore genera un dittatore megalomane. Che questa traiettoria sia stata equiparata a una forma desiderabile di vita politica macchierà in modo tanto indelebile quanto ripugnante la storia politica della «Sinistra». Mettere fuori legge tutto tranne un unico partito di «avanguardia», governato in base al «centralismo democratico», significa sovvertire la democrazia. Il centralismo democratico frena sistematicamente ogni impulso partecipativo, promuove la passività popolare, alimenta la paura e genera autoritarismo anche contro le migliori aspirazioni di molti leninisti. Bandire programmaticamente ogni opposizione esterna e sopprimere o manipolare il dissenso interno non favorisce la democrazia. Per quanto anti-autoritarie possano essere le specifiche motivazioni dei leninisti, nella pratica il leninismo non porta a strutture politiche anti-autoritarie. La «democrazia» elettorale di tipo occidentale è un'altra risposta al problema della visione politica e, pur potendo essere considerata migliore dello Stato leninista e della dittatura del partito unico, resta tuttavia ben lontana dalla democrazia partecipativa. Le profonde disuguaglianze economiche falsano i giochi ancor prima che la partita politica abbia inizio. I cittadini scelgono tra candidati prescelti, già selezionati dalle élite della società in base alla loro compatibilità. Anche se rimuovendo la proprietà privata dei mezzi di produzione si possono superare i problemi di natura economica all'interno di una democrazia di tipo occidentale, la democrazia partecipativa richiede ben più che votare ogni tanto per qualche rappresentante perché sia possibile condurre un'attività politica, che resta invece largamente alienata dalla volontà del popolo e spesso contraria ai suoi interessi.
La domanda che sorge è: quale meccanismo può permettere e
promuovere impegno, volontà e capacità decisionale in modo di
dare a tutti la giusta voce in capitolo, direttamente o tramite rappresentanti,
preservando i diritti essenziali e servendo al contempo la giustizia?
Avendo dichiaratamente rifiutato sia il leninismo che la democrazia parlamentare, è necessario ora rendersi conto che la vita politica non scomparirà in una società desiderabile. Le strutture saranno diverse, certo, ma la sua importanza per i cittadini più che diminuire si intensificherà. La politica non vedrà più gruppi privilegiati che perpetuano il proprio dominio, né raggruppamenti oppressi dovranno combattere contro ingiusti status quo. Tuttavia, strutture politiche desiderabili non significano automaticamente accordo universale. L'obbiettivo della diversificazione sociale impone che idee contrastanti debbano essere messe in pratica ogni volta che è possibile, ma spesso un certo programma non può essere messo in atto se non a spese di altri. Quindi il problema delle scelte pubbliche non verrà meno. Inoltre, poiché una società desiderabile stimolerà i nostri impulsi partecipativi, in essa può accadere che il dibattito si accentui invece che attenuarsi. Stephen Shalom fa un breve elenco dei temi che continueranno a ispirare il dibattito: «Ecco alcuni temi che continueranno a interessarci: i diritti degli animali (si devono mettere fuori legge i mangiatori di carne?), la pornografia (è costituzionalmente oppressiva nei confronti della donna o è un'espressione dell'autonomia individuale?), la prostituzione (in una società senza sfruttamento economico, è possibile che qualcuno 'scelga' di fare del sesso un lavoro?), l'ecologia profonda (fino a che punto dobbiamo trattare l'ambiente non semplicemente come qualcosa da salvare perché possa continuare a mantenerci in futuro, ma come qualcosa dotato di un valore indipendente dal vantaggio umano?), la legalizzazione delle droghe, il multilinguismo, i diritti dei minori, l'allocazione di risorse mediche scarse o dispendiose come i trapianti cardiaci, la donazione genetica, la maternità surrogata, l'eutanasia, le scuole separate per sesso, la libertà religiosa quando le religioni violano altri importanti valori sociali, come l'equità nel rapporto tra i generi». Se la lista non fosse sufficiente, Shalom continua: «Al vertice di questi temi, ve ne sono alcuni su cui non sempre c'è accordo nell'ambito della sinistra e per i quali è pensabile che il dibattito possa continuare anche in seno a una buona società: ad esempio, in che misura si dovrebbe riconoscere il diritto all'interruzione di gravidanza o attuare politiche preferenziali per i membri di gruppi in precedenza oppressi? Inoltre, poiché non è detto che tutto il mondo si trasformi in una 'buona società' da un momento all'altro, come ci comporteremo in politica estera, nel commercio internazionale o nei confronti dell'immigrazione?». Dopodiché, Shalom riassume: «In breve, anche in una società che ha risolto il problema dello sfruttamento economico e ha eliminato le gerarchie di razza, classe, genere, rimarrebbero molte controversie, anche profonde. Quindi ogni buona società dovrà prendere in considerazione temi politici e avrà bisogno di qualche forma di struttura politica». Almeno gli scopi più generali di una nuova struttura politica, se non le istituzioni attraverso cui dovrà essere realizzata, sono già perfettamente compresi ed enunciati. Una comunità sinceramente democratica deve assicurare che tutti possano partecipare in modo significativo e costruttivo alla formazione della politica sociale. Viceversa, una società che sottrae al controllo pubblico vaste aree di decisioni cruciali, o un sistema amministrativo che permette soltanto di ratificare decisioni prese da gruppi elitari, difficilmente può aspirare a chiamarsi democrazia. Nel primo caso, il problema fondamentale è stabilire quali veicoli istituzionali possano garantire opportunità pubbliche veramente democratiche. | << | < | > | >> |Pagina 68Gli uomini, le donne e l'economiaNelle relazioni di genere, l'economia capitalista è assai più subdola di quanto pensino alcuni suoi critici. Nulla è presente nelle istituzioni che definiscono il capitalismo — proprietà privata dei mezzi di produzione, divisione del lavoro, decisionalità autoritaria, mercato — che concepisca uomini e donne e ancor meno li organizzi gerarchicamente secondo una logica strettamente economica. Però se a livello sociale c'è un sistema sessista che separa in modo gerarchico uomini e donne, l'economia capitalista non ignora tale realtà, al contrario la sfrutta in maniera aggressiva. Quindi, se uomini e donne sono organizzati dalla famiglia o da altre istituzioni in modo che i primi si aspettino una posizione di relativo predominio, l'economia capitalista opererà in accordo con tale situazione. Supponiamo che un datore di lavoro debba assumere un manager. Immaginiamo che si tratti di un datore di lavoro maschio, che al posto aspiri sia un uomo che una donna e che questa sia più adatta al tipo di lavoro da svolgere. Nonostante ciò, in una società sessista sarà verosimilmente l'uomo ad avere il posto, anche se il datore di lavoro non ha pregiudizi di genere. Il motivo è che al datore di lavoro serve che i dipendenti siano obbedienti e sottomessi ai dirigenti, e che i dirigenti si sentano autorevoli e superiori ai dipendenti. Ed è poco probabile che un dipendente rifiuti l'organizzazione sessista della società, mentre è probabile che l'accetti. In altre parole, la divisione capitalista del lavoro non mette in discussione la gerarchia di genere che si origina nei rapporti familiari, al contrario la utilizza. Mette gli uomini al di sopra delle donne e quindi non tradisce, anzi accetta, le aspettative che derivano dai rapporti familiari. Allo stesso modo, anche i modelli retributivi riflettono il diverso potere contrattuale che il sessismo impone a uomini e donne. A parità di ogni altra condizione, gli uomini vengono pagati di più per lo stesso lavoro, perché i padroni possono sfruttare (e lo fanno) la posizione subordinata delle donne e il loro minor potere contrattuale. Questi sono solo adeguamenti minimali delle economie capitaliste alle relazioni sessiste. Le gerarchie capitaliste non mettono in discussione le gerarchie di genere, e in gran parte le fanno proprie. Le donne occupano posizioni subordinate in misura sproporzionata, guadagnano di meno, e di conseguenza patiscono di più povertà, problemi di salute, stupri e altre violenze. Tuttavia è importante rendersi conto che le gerarchie di genere possono avere un impatto anche più profondo sulle relazioni economiche. I modelli comportamentali maschili e femminili prodotti dal sistema patriarcale basato sul sesso e sul genere hanno un tale peso sui ruoli economici che i secondi tendono a incorporare le caratteristiche dei primi, invece che limitarsi ad accettarli o sfruttarli. In altri termini, le mansioni economiche delle donne possono acquisire attributi propri all'allevamento e alla cura che non sono assolutamente richiesti dai puri dettami economici, anzi del tutto non coerenti con questi. Allo stesso modo, i ruoli maschili possono acquisire modelli imposti dalle relazioni familiari anche quando tali modelli vanno contro la pura logica economica.
A causa di ciò, è possibile vedere sui luoghi di lavoro compiti di
natura economica imposti dal sistema sessista patriarcale che riflettono e
riproducono attivamente i modelli di comportamento
maschile e femminile. L'economia diviene quindi complice nella
riproduzione del sessismo, come ha ben evidenziato Batya Weinbaum nel suo acuto
Curious Courtship of Women's Liberation and Socialism
(Il curioso corteggiamento del movimento femminista e il socialismo).
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