Autore Edoardo Albinati
Titolo Desideri deviati
EdizioneRizzoli, Milano, 2020, La Scala , pag. 416, cop.fle.sov., dim. 14x21,5x2,5 cm , Isbn 978-88-17-14956-3
LettoreMargherita Cena, 2021
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 7

Preludio alla città del Nord



Adesso ci trasferiamo al Nord, e lo fantastichiamo, perché il Nord prende i connotati dell'immaginazione di chi è lontano e sta per recarvisi, e finisce per modellarsi a seconda di tale aspettativa o timore. La paura e il sogno sono alla radice di questa immagine che gli abitanti del Nord fanno propria anche se, loro, nella paura e nel sogno sono nati. Forse perché la vedono riflessa negli occhi dei meridionali, s'impegneranno a fondo per confermarla. Dunque, se la persona che viene dal Sud è convinta, a torto o a ragione, che essi siano burberi, essi apposta diventano burberi. Se crede che sono onesti si comportano onestamente. Se egli non ne capisce il dialetto, prendono a parlare in modo incomprensibile proprio come ci si attendeva da loro. Se invece l'ospite meridionale teme il freddo e la nebbia, di cui ha sentito narrare le leggende, ecco che subito nelle strade, soleggiate e tiepide come quelle di una qualsiasi città dello Stivale, comincerà a incanalarsi il caratteristico vapore umido, fino a che la fantasticheria del nuovo arrivato sia soddisfatta, rabbrividendo. Uno scrittore dai baffi affilati e provinciali giunse ad affermare che la città dove si svolge questa storia, la capitale del Nord, la capitale economica, la capitale morale, insomma, una grande città a tutti gli effetti, una città europea e perché no, mondiale, in realtà non esiste. La non esistenza di tale città è confermata da episodi che vengono tramandati di padre in figlio e tutti insistono su un fantasma, una realtà che appare e scompare.

Esempio. Si dice che nei primi anni del secolo scorso, quando il centro era circondato da una fascia di industrie in cui lavorava gran parte della popolazione, la mattina presto, d'inverno, verso le cinque, gli operai cominciavano a uscire di casa, avventurandosi nelle strade ancora buie. Ognuno era avvolto in una mantella e camminava gobbo, sia perché curvato dagli anni di lavoro in fabbrica sia perché quella posizione raccolta dava la sensazione di trattenere il calore del corpo e proteggerlo contro la terribile umidità che premeva, premeva, e sembrava quasi di sentirla che si sfregava contro la mantella, sul basco, cercando di penetrare attraverso il colletto. O forse era soltanto la stanchezza dell'atroce risveglio a farli camminare così storti. Chi poteva permettersi l'olio teneva davanti a sé una piccola lanterna a rischiarare il passo. Ma la maggioranza camminava alla cieca, anzi alcuni a occhi chiusi dato che c'era poco da vedere intorno, semmai saggiando con il piede qualche tratto disselciato. Avevano in testa un disegno e lo seguivano puntualmente: fuori dal portone, i tre scalini, a destra cinquecento passi, poi altri cinquecento fino allo slargo, a sinistra, poi sempre diritto per qualche minuto fino a che si cominciava a sentire il brusio degli altri operai convergenti da ogni parte, si intravedeva qualche fioco segnale di lanterna che avanzava in parallelo dondolando, il rumore degli scarponi sul selciato si mescolava al rumore di altri scarponi e il grande portone quadrato della fabbrica, stagliandosi all'improvviso in fondo alla strada, li inghiottiva tutti. Non ci si sbagliava quasi mai: c'era chi camminava per chilometri nel buio fitto e le sue gambe oramai avevano imparato a contare come quelle dei cavalli che tornano alla stalla, svoltavano al momento giusto, sapevano dove spiccare il balzo sul marciapiedi. Erano le gambe a guidare l'operaio. La mente era una lanterna spenta, o ridotta a un invisibile bagliore, opaca come il mondo esterno da cui non proveniva alcun segnale. Solo il rumore dei passi, un ritmo sordo. Bisognava conservarlo.

A quell'epoca le strade erano vuote. La sola cosa percepibile era appunto questo vuoto, che da nero pece diventava piano piano perlaceo e verso le sei del mattino lattiginoso si impregnava di una specie di smorto lume diffuso, ma senza rivelare niente, senza mai far assumere consistenza alla città, a edifici, alberi e chiese, come se intorno vi fosse una pianura sterminata e insondabile in fondo alla quale il portone della fabbrica assumeva finalmente i contorni di una cosa reale, che dava un certo sollievo incontrare, dopo il vagabondaggio nel nulla, ed era ben strano che gli operai provassero questo sentimento quasi di resurrezione quando la fabbrica si materializzava davanti a loro, dato che varcato il suo ingresso iniziava una pena innominabile e disumana, la fatica più cieca e meccanica che porta l'uomo a perdere se stesso.

Perché, dopo dieci o dodici ore di clausura nella fabbrica, gli stessi operai ne sarebbero sortiti a notte fonda, con un buio e una nebbia altrettanto impenetrabili, e tornavano a casa percorrendo a ritroso il medesimo camminamento mentale. Neanche per un istante la città rivelava loro il suo volto. Per quanto ne sapevano, ci sarebbe potuto essere il mare in quella città e loro non l'avrebbero visto. E navi e isole all'orizzonte o altissime montagne, o magari una cattedrale con pinnacoli vertiginosi, tanto loro vivevano immersi nella perenne non-esistenza del buio, della nebbia e della fabbrica.

[...]

E dire che va famosa per il suo realismo. La città è posseduta fino alle fondamenta da una specie di ossessione per il realismo, per l'ideologia del realismo, il realismo è una superstizione che entusiasma e accende le menti. Sui vapori azzurrini galleggia e scintilla un imponente miraggio: il realismo. Irto di punte e pesante come pietra, eppure veleggia nell'illusione. Si potrebbe quasi dire un realismo mistico tanta è la sua tensione sovrumana. Lo sforzo astratto del realismo, il suo slancio visionario, sì. Qui non si fanno sogni, non si fanno sconti, non si ciancia a vuoto, non si perde tempo, non si mena il can per l'aia, non ci si balocca, non ci si trastulla, non ci si prende in giro, non si spreca dané, non si vende fumo, non si macina l'acqua, non si fa politica da quattro soldi né la bella vita, non si va a spasso, non si ubriaca il pallone né il mazzo di carte da briscola: ma si bada al sodo. La ricerca di cosa sia questo sodo a cui badare non si esaurisce nell'identificarlo, banalmente, col denaro, oh, no, sarebbe troppo semplice credere che per gli abitanti di questa città sia il denaro il fondamento di tutto. Il denaro è troppo volatile per poterlo immaginare come il sodo del mondo, ci dev'essere qualcosa di ancora più concreto del denaro. Il realismo diventa allora l'appassionata ricerca di questo zoccolo, di questo minerale in cui è scolpita la città. La ricerca dell'unico principio assume un colore visionario, come per quei primi filosofi secondo i quali tutto era fuoco, o sospiro, o atomi. L'idea che tutto provenga e ritorni al denaro, che il mondo sia denaro, è soltanto una di queste illuminazioni poetiche, e in effetti in città vivono alcuni poeti-filosofi-magi sfrenatamente visionari. Sono allucinati veggenti, convinti di agire nel cuore più profondo della realtà anche quando maneggiano solo cifre e formule. La loro altissima confidenza con l'astratto li spinge a esibire con impudenza simboli materiali come macchine di grande cilindrata e amanti discinte e costose (fanno lo stesso i guru di certe sette spirituali) appunto perché sia chiaro, grazie a questo stridente contrasto, che dietro il velo dell'apparenza loro hanno scoperto il sodo.

Ma anche l'uomo con poche lire in tasca bada al sodo, che non è il magro stipendio con cui far quadrare i conti di casa: anche lui ambisce a svelare al di sotto delle menzogne (che qui vengono chiamate "ball") una crosta di vera e soda realtà. Non sopporta che gliela cantino preti, politici e attori: fuori la realtà, tiratela fuori, se ce n'avete, come dire in trattoria: ce l'avete l'ossobuco? Servitemelo! esige questo cittadino esemplare, per cui la realtà dev'essere sgombra e onesta come una tovaglia a scacchi. Egli pratica e pretende dagli altri una sincerità totale, senza rendersi conto che essa è il frutto di semplificazioni come colpi d'accetta, che lo allontanano sempre di più dalla mutevole varietà delle cose verso un totem scolpito di poche massime. Quando riassume la sua filosofia realistica, per esempio allungando una sberla a un figliolo poco rispettoso, egli ha lavorato a una stilizzazione della realtà tale da portarlo fuori dal tempo e dallo spazio, in un anacronismo assoluto, e altrettanto distante appare infatti agli occhi del figlio che ha incassato il manrovescio.

Insomma, ogni volta che crede di operare praticamente e con buon senso, l'abitante di questa città si mette al servizio di un'idea astratta, leggendaria.

Non deve perciò stupire che negli anni in cui si svolge questa storia, la città del Nord, oltre che capitale del Nord, capitale economica, capitale morale eccetera eccetera, divenne anche capitale della moda.

E le modelle, perlopiù straniere, furono i suoi nuovi simboli.

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Pagina 57

Se non che, imprevista da tutti tranne che dalla Marta, prese la parola Amelia Gheno, capo ufficio stampa.

«Se non vi dispiace sapere la mia, visto che è sempre saggio muoversi in anticipo, e ormai ci tocca partire sei mesi prima, che dico, un anno prima se vogliamo combinare qualcosa di serio a livello di comunicazione, be', qualche possibilità concreta la intravedo, insomma, un modo di presentare la faccenda alla stampa, di invogliare i giornali a parlarne. Credo che una strada esista, o che valga la pena tentare di aprirla. Ci si può lavorare. Direi che la parola d'ordine dovrebbe essere "coraggio".»

Menas annuì. Enobarbo sorrise.

«Coraggio?» chiese Minaudo incuriosito.

«Sì, coraggio. Un'iniziativa coraggiosa.»

«Coraggiosa...» le fece eco Enobarbo.

«O se preferite» riprese la Gheno, «un esperimento...»

Merse: «No, no, un momento, coraggio forse sì, esperimento no, per favore, Amelia. Lei lo sa che nei laboratori scientifici il novantasette per cento degli esperimenti fallisce? È un dato di fatto. Non mi spiego allora perché questa parola al di fuori del mondo scientifico abbia invece assunto un'accezione positiva... ottimistica, direi, quasi che i risultati fossero garantiti a priori, o che il fallimento circondi comunque con un alone di nobiltà chi ne è la causa. Ma mi scusi, Amelia, non volevo interromperla, prosegua pure».

Nessuno osò chiedere a Cesare Merse da dove avesse preso quel dato statistico. «Il novantasette per cento degli esperimenti fallisce...» Per confutarlo ci sarebbe stato bisogno di ulteriori dati che nessuno sapeva dove pescare a meno di inventarli, come probabilmente aveva fatto lo stesso professore all'impronta. Stava prendendo piede in quegli anni l'usanza di tappezzare di statistiche, impossibili da verificare al momento, i propri discorsi per renderli inattaccabili, mentre non era ancora tramontata quella degli uomini che interrompono una donna per spiegare meglio , a lei e agli altri, ciò che la donna stessa stava dicendo. Ma la Gheno la conosceva bene, la tattica, da non scoraggiarsi per così poco. Quella trentacinquenne cavallona aveva imparato ad ammantare le sue intenzioni di gergo aziendale, programmazione, ci stiamo lavorando, le sinergie, mettere fieno in cascina, il feed-back (fu una delle prime a usare quel termine che occorreva ogni volta rispiegare daccapo a Minaudo, perché, facendo il finto tonto, «e scusate se sono un tipo ottocentesco», si ostinava a non capirlo), il tam-tam, il passaparooola, presidiare gli spaaazi, il lettore di niiiicchia, il lettore fooorte e così via. Formule e frasi fatte maneggevoli. Un modo di esprimersi che aveva lo stesso scopo dei teloni mimetici sotto i quali si occultano le postazioni di mitragliatrici. Solo così la Gheno aveva capito che, in quell'ambiente, poteva far passare le sue intelligenti intuizioni: mortificandosi, nella lingua come nell'aspetto. Forse nelle massime dell' I Ching, lei aveva pescato quella che sentenzia: "Occorre inaridirsi per poter fiorire".

Gli occhiali esagonali di tartaruga, i capelli raccolti in una coda di cavallo così tirata da lasciare senza fiato, le scarpe basse che le impedivano di sfondare il tetto del metro e ottanta considerato quasi un affronto dai colleghi costretti a guardarla da sotto in su, il marcatissimo accento settentrionale che lei spingeva quasi parodisticamente invece di attenuare, erano tutti elementi che le garantivano un alto grado di penetrazione nella corazza che foderava la Minaudo e le redazioni culturali dei quotidiani, dove infatti era piuttosto temuta. Il martello pneumatico, il generale Rommel, Doctor Strangelove, Svetlana, o Katiuscia, questi alcuni dei soprannomi che si era guadagnata Amelia Gheno. E forse sarà solo un caso, ma all'epoca diverse sue colleghe nelle case editrici concorrenti, dove l'ufficio stampa rivestiva un ruolo persino più strategico che alla Minaudo, avevano cognomi tedeschi o di derivazione germanica, dal suono già di per sé bellicoso: Dickmann, Aicardi, Koch, Rudighiero.

«Esperimento? Cancello subito questo termine dal mio vocabolario, professor Merse, e la ringraaazio. Non si smette mai di andare a scuola. E non vi è nulla di più bello che imparare, se si impara da un maeeestro...» Quindi guarda Merse con un sorriso piano ma al tempo stesso ironico. Il professore le rispose sfoderando quello, dolce e furbo, di cui per decenni si era servito per abbindolare le studentesse e imbarazzarle durante gli esami mentre dava l'impressione di volerle soccorrere: solo che adesso le sue labbra erano un po' secche, e i denti di sotto, ancora tutti suoi per la verità, scompaginati. Tito Livio Minaudo pensò: che barba, questi vecchi seduttori non si arrendono mai, e nel pensiero aveva messo insieme, come appartenenti a quella categoria, Merse, Berio e pure l'ambasciatore Quell, che in realtà non seduceva ma piuttosto irretiva, avvolgeva l'interlocutore nei fili invisibili delle sue relazioni mondane, tenendolo al tempo stesso alla portata eppure a distanza, come fa il ragno con l'insetto che ha imbozzolato per divorarlo più tardi. E lo stesso Minaudo del resto c'era finito così, nella vasta ragnatela di Quell, senza ricordare per quale evento accidentale, e chi esattamente fosse debitore di cosa a chi, in termini di favori fatti o di torti riparati. La mondanità è un dominio vasto e caotico di obbligazioni la cui origine si è perduta nel tempo e che non risultano avere una precisa scadenza, sicché è meglio tenersi buoni un po' tutti perché non si sa mai, finché verrà il momento per vendicarsi davvero o perdonare, o per disimpegnarsi.

Ma Amelia Gheno si è oramai decisa ad abbattere ogni ostacolo, e sa di poterlo fare servendosi dell'arma convenzionale in dotazione ai dirigenti aziendali che vogliono giocare pulito, soprattutto se donne: la professionalità. Eh, la professionalità, questo feticcio del mondo del lavoro, un imprendibile fantasma che come Belfagor si aggira nei corridoi di ogni azienda. Minaudo, pur considerandola un decoro necessario, ne era in cuor suo annoiato, Enobarbo spaventato, il Coboldo la disprezzava («parola destituita di qualsiasi senso»), il modesto Menas che pure ne era un campione nemmeno si accorgeva di possederla. Come che sia, la professionalità della Gheno avrebbe minato gli argomenti sofisticati di Merse o quelli brutalmente polemici del Coboldo.

«Senza entrare nel merito della scelta degli autori, che non mi compete, insisto a dire» riprese lei, in tono per nulla alterato, «che la formula di Quell potrebbe incontrare.» Il verbo "incontrare" in un'azienda veniva usato in modo intransitivo, privo di complemento oggetto: sottintendendo il favore della stampa o del pubblico. Un articolo (in senso commerciale) che "incontra", vuol dire che ha o avrà successo. «È un momento di stanca nelle terze pagine e negli inserti culturali. Proposte aggressive ma di livello credo verrebbero accolte con favore. La polemica, che di solito è sterile, può essere portata su un piano superiore, cioè come vero dialogo tra veri protagonisti. Per esempio organizzando delle interviste lunghe, a due o tre voci, registrandole e poi riscrivendole, ma sul serio, riscrivendole frase per frase, battuta per battuta, come farebbe un autore teatrale, oppure, perché no, un filosofo, ma di quelli buoni, classici.»

«Sì, certo, Platone!» sogghignò il Coboldo.

Ma la Gheno non lo prese affatto come un commento sarcastico anzi se ne servì alla lettera per rilanciare il suo discorso, come fa un tennista che si appoggia sulla battuta dell'avversario, restituendone la potenza. «Platone, perché no? Certo, certo, come nei dialoghi di Platone.» Si sfilò gli occhiali e girò lo sguardo un po' su tutti, risoluta, ma calma. Nico pensò che aveva degli occhi interessanti perché non vi si leggeva dentro niente, niente di prevedibile, cioè. «È questo il coraggio di cui parlavo. La gente è meno stupida di come la si dipinge, e chi legge libri lo è ancora di meno. I giornalisti l'hanno capito. E l'intervista è un genere sprecato, il più delle volte impiegato male, per strappare qualche battuta a singhiozzo, mentre offrirebbe infinite possibilità. Lo stesso libro che ci ha prospettato Quell, per esempio, se non ho frainteso, potrebbe assumere la forma di una conversazione. E una conversazione col suo autore potremmo piazzarla in evidenza sui giornali, con un bel lancio, su un giornale amico, ma anche su uno di quelli che non ci sono amici, poiché d'ora in avanti dovrebbe essere questa la nostra politica, basta dualismi tra quotidiani, che se di un libro ne parla uno, l'altro per ripicca non ne parlerà. Sono un po' stufa di questo, niente canali preferenziali o anteprime esclusive, sotto a chi tocca, a chi ci offre di più in termini di visibilità.»

«Signora Gheno» riprese la parola Merse che, pur essendo solo un ospite in casa editrice, o appunto per questo, sembrava avere pazientemente assunto il ruolo dello straniero chiamato a governare le città greche in quanto straniero. «È noto cosa succede in un settimanale o in un quotidiano, quando ci si ritrova tra i piedi un giornalista incapace, che però per una ragione o per l'altra non si può licenziare. Cosa si fa allora? Lei lo sa meglio di me: lo si mette alla cultura. Lì farà meno danni che se si occupasse di politica o di economia, o dio non voglia di calcio, che nel nostro Paese è sacro. Se combina pasticci o scrive falsità, pazienza, chissenefrega. Un'inchiesta sullo stato di salute del romanzo italiano non leverà il sonno a nessuno tranne che agli scrittori esclusi. Per lavorare, mettiamo, in cronaca, bisogna essere affamati di notizie, spregiudicati, e saper pure scrivere, in fretta e bene. Nelle pagine della cultura nessuna di queste qualità è richiesta, anzi, a dire il vero, nessuna qualità è richiesta, nemmeno quella di avere un po' di cultura. Sul cinema e sulla letteratura viene autorizzata a pronunciarsi, e anche in modo perentorio, esaltando o stroncando a casaccio, gente che non ha idea di come si scrive un romanzo o si monta un film. Voglio dire l'abc, i fondamenti. Per mettere insieme un pezzo perciò basterà riassumere la trama e poi buttare qua e là accenni allo "stile inconfondibile" di questo autore, agli "eccessi" della sua vita privata, elencare le scene "lancinanti", usare espressioni come "pennellate" "sapiente affresco", "commedia agrodolce", "un pugno nello stomaco", "vi lascerà senza fiato fino all'ultima riga", "finalmente aria nuova nella narrativa" o al contrario "puzza di naftalina", "intriso di nostalgia", "sontuoso e barocco", "rigoroso e minimale", "la nuova sfida di", "il riconosciuto maestro", orecchiando legami con altri autori o montando insieme suggestioni tipo "immaginate un racconto di Kafka letto dalla voce di Jim Morrison" e così via. Impressionismo puro, forbici e colla, frasi a effetto come da risvolto di copertina, citazioni estrapolate per dimostrare qualsiasi cosa, pigrizia mentale, uno scopiazzare qua e là. Del resto è proprio quello che ha fatto per una vita Berio, di cui mi sembra di capire vogliate ora pubblicare un libro. Presentando il suo autore nientemeno che come un martire del libero pensiero...»

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Pagina 83

Proprio come in una fabbrica, le parole venivano trascinate su una catena di montaggio lungo i vari uffici della casa editrice, il testo veniva letto, giudicato, discusso, corretto, tagliato, ricucito, ribattuto, impaginato, ricorretto, stampato, e questa non era davvero la fine del processo, dato che sulla stessa cinghia passava ancora per altre sezioni-uffici dove veniva illustrato, chiacchierato, millantato, schedato, offerto, introdotto, promosso, venduto. Per essere finalmente e daccapo letto, giudicato eccetera. Questa grossa macchina di parole, ovvero macchina a parole, produceva intorno al libro una immensa mole di linguaggio accessorio, che doveva ricadere inerte attorno al prodotto finito come trucioli da una rifilatrice. La sola differenza è che le parole non si lasciano buttar via come residui industriali: esse permangono e influenzano la vita ben oltre la loro funzione immediata. Persino incenerite continuano a risuonare.

La casa editrice assorbiva e restituiva parole come una spugna succhia e filtra l'acqua di mare: e attorno ai libri fioriva una foresta di commenti, pettegolezzi, confidenze, chiacchiere, confessioni, adulazioni, allusioni, malignità, idee generali e idee spicciole, visioni del mondo, descrizioni, riassunti, ordini, doppi sensi, verità e bugie. La massa di parole fluiva ininterrotta, trascinando via via e rovesciando ogni pezzo di discorso che venisse enunciato, detto per telefono, scritto su carta, proclamato o mormorato durante le riunioni, disegnato e colorato o che evaporava dopo essere uscito dalla bocca di un redattore e prima d'infilarsi nell'orecchio della capo ufficio stampa. Persino le innumerevoli parole taciute penetravano l'aria che circolava in casa editrice.

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Pagina 199

Le coppie come Igor e Vera costituiscono delle "associazioni a delinquere". Sono, la maggior parte delle volte, cinquantenni sposati e senza figli che cementano la loro unione, più che con l'amore, grazie a una tenace solidarietà e un'incessante competizione sul piano professionale o erotico, stimolandosi a turno con inganni, triangolazioni intellettuali, tradimenti, strategie psichiche, mutuo soccorso, reciproca pubblicità o infamazione. Il sovrumano e impersonale magnetismo dell'amore in queste coppie è surrogato da virtù politiche o pseudofamiliari: l'amante o il coniuge, cioè, viene vissuto come fratello o come figlio o come padre, come socio di affari, come amico del cuore, come avvocato difensore, come dottore, o domestico; mentre nell'amore l'amato è sempre al di sopra dell'amante, qui lo spirito di servizio si esplica su un piano di autentica parità. Dalla chimica dei sentimenti si perviene alla sociologia dei comportamenti: tali coppie sono assolutamente impensabili senza una società intorno, la mondanità è una scelta obbligata, il terreno entro il quale esercitare e misurare quelle capacità di confronto con il partner che languirebbero se costrette dentro l'esiguo perimetro dello spazio privato, come una pianta in un vaso troppo piccolo, e al tempo stesso permette di assistere il partner con la propria dedizione e aiutarlo a ottenere i suoi successi. Per i componenti di questo genere di coppia è altrettanto impensabile non possedere del fascino quanto il fatto che non lo possieda l'altro. La loro attività è sempre rivolta verso l'esterno, ed essi possono dimostrarsi affetto o attrazione solo indirizzando questi sentimenti verso qualcun altro, solo triangolandoli su un ragazzo, una giovane apprendista, un gruppo di amici, un ambiente di lavoro che viene usato come quinta teatrale oppure come la sponda di un biliardo, contro cui si indirizza la palla con un'energia e una precisione che sono destinate a tutt'altro bersaglio, all'altro capo del tavolo. Prosciugati o resi automatici e dunque invisibili i canali attraverso cui comunicare, gli amanti diabolici si servono di rituali e di codici complicatissimi, dove ogni gesto o parola assume un significato opposto a quello corrente, per cui tradirsi alla fine equivale a un segno di attenzione, essere gentili può significare freddezza o addirittura disprezzo, comperare un gioiello o un cucciolo, e regalarlo all'altro, una sfida dal significato misterioso.

Le coppie fatte così possono essere più durevoli delle altre. L'amore associa persone in maniera insensata e non certo secondo le affinità. Il segno dell'amore è il dispari e la vanità. La leggenda platonica della creatura androgina tagliata in due pezzi che bramano di ricongiungersi è una bella menzogna letteraria, smentita da altrettanto belle menzogne letterarie come i romanzi di Flaubert e Tolstoj. Se si vuole ottenere un perfetto incastro tra due individui, l'amore non può che fungere da ostacolo. La complementarietà umana è altra cosa, che si costruisce con il tempo, più di quanto si trovi già iscritta nei bordi della personalità, nel dentellato dei gusti e delle inclinazioni che dovrebbero combaciare con quelli dell'altro individuo, sino a formare un unico dove non si distinguono più le parti originali. Ed è il tempo in cui svanisce la passione a far affiorare l'affiatamento. Tanto che simili unioni sembrano, per così dire, cementate dalla morte dell'amore che si è consumata al suo interno, come se la levigatezza senza giunture visibili del sarcofago su cui è dipinta l'immagine del vivo riuscisse a trasfigurarne il contenuto rendendolo eterno; la figura dell'amore così sigillata continua a splendere, come un insetto nell'ambra; il rapporto si fa più saldo man mano che il talamo si raffredda. Una volta cessate le smanie, le esigenze e le frustrazioni causate dalla passione, tra due persone si può aprire all'improvviso una fruttuosa fase di approccio, che il sesso in qualche modo distorceva o velava: un dialogo urbano, disinibito e depurato da tragicismi adolescenziali, e per questo più leggero, poiché privo di sottintesi umilianti o vendicativi o ricattatori. L'accettazione dell'altro comincia pietosamente a prescindere dallo stato di conservazione del suo corpo, e il desiderio non è più obbligato a sfamarsi in una dispensa piena di briciole. Il tramonto dell'attrazione può essere vissuto con un certo sollievo. Si entra perciò in un'era di taciti accordi.

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Pagina 281

Capitolo X
Arkadia



1.

Kazama era un uomo le cui grandi orecchie a sventola distraevano per qualche istante dall'accorgersi di quanto fosse butterata la sua faccia. Non aveva un solo centimetro liscio, era una superficie grezza e sconvolta. Preso atto di ciò, si notava negli occhi piccolissimi e quasi da scambiare per due dei tanti buchi che crivellavano la sua pelle, un lampo di buonumore, un'idea di intelligenza e persino un indizio di bontà che non potevano essere in nessun modo cancellati dalla bruttezza di quel viso, anzi, sembrava che tutte le virtù di Kazama fossero state appositamente celate nei suoi occhietti al fine di conservarle e destinarle a chi se le meritava, a chi, cioè, fosse capace di superare l'immediata repulsione per quel devastato muso asiatico privo di lineamenti, una maschera sforacchiata per far respirare l'uomo che vi si nascondeva dietro. Dopodiché si poteva tornare con lo sguardo alle buffissime orecchie, le quali da sole riuscivano a far capire quanto Kazama fosse buono e simpatico, umile, geniale e gentile con tutti, un essere mansueto nella sua grande potenza di artista. Solo un mostro come lui avrebbe potuto essere così sereno, quasi che la sua non-umanità ne facesse un perfetto recipiente di tutta l'umanità trascurata nel mondo, e riempirlo sino a farlo traboccare.

Kazama era candido e caloroso. Non aveva bisogno di manifestare in modo eccessivo la sua benignità, con parole speciali o sorrisi, un unico gesto gli bastava a comunicare: la carezza. Kazama carezzava le cose e le persone con le sue mani piccole e delicate. Era una carezza breve ma intensa. Nello scendere dall'aeroplano Kazama aveva carezzato il comandante. Poi aveva carezzato il cofano del taxi che lo aveva portato in città. Quindi aveva carezzato sulle spalle il tassista scendendo, mentre Nico lo pagava, e una volta in casa editrice aveva carezzato il viso della segretaria di Minaudo, la signora Marta, vera istituzione del piano uffici, e ad alcuni era parso che avesse prolungato il gesto all'ingiù sino a carezzare lievemente il seno di lei, quel seno cinquantaseienne ancora prosperoso che doveva essere irreggimentato da robusti apparecchi di biancheria, ma l'unica cosa certa dell'istantaneo contatto era che Marta non si era infastidita bensì si era commossa venendo carezzata dal grande scrittore giapponese ed era dovuta battere subito in ritirata, camminando all'indietro e urtando i classificatori e girando il capo di lato per non mostrare il suo turbamento.

Non è possibile che l'abbia toccata con intenzioni libidinose, avevano pensato i presenti, tanto più che di lì a poco essi stessi avrebbero ricevuto una carezza personalizzata di Kazama, ora brevissima e quasi simile a un buffetto amichevole (il Coboldo), squisitamente femminea (per Enobarbo e Menas), un tocco cameratesco sulla nuca rasata di Nico, e addirittura una doppia su entrambi i lati del volto, indugiante, trattenuta a lungo, sia con il palmo che con il dorso della mano, come se ne riserva ai parenti stretti che non si vedono da secoli, dacché sono andati a vivere in un altro Paese, all'Editore Minaudo in persona, per esprimergli la sua gratitudine. E tutti avevano sorriso di piacere ricevendo la carezza di Kazama, sì, persino il Coboldo, che in generale non sopportava essere toccato e che oltretutto conservava sulle guance, come una reliquia, la traccia di un balsamo, l'unico sfioramento delle dita affusolate di Sheila B., ricevuto alla festa dei Macchi, ebbene, persino il ritroso Coboldo aveva avvertito una vampata di benessere irrorargli il viso dopo il tocco del giapponese a cui non aveva fatto in tempo a sfuggire, nascondendosi dentro il gruppo di benvenuto.

Persino più singolare e intenso era stato l'incontro con Quadratino. Kazama aveva insistito per conoscere e salutare di persona tutti i dipendenti e i collaboratori presenti in casa editrice, girando ufficio dopo ufficio, fino a giungere davanti a quella specie di scomparto coi vetri zigrinati dove stava di solito rinchiuso il figlio di Minaudo, come nella gabbia di uno zoo. Kazama aveva rivolto gli occhietti interrogativi verso Enobarbo, íl suo anfitrione.

«Ah bien... a c'est le laboratoire où travaille Leopoldo... ehm... Leopoldo Minaudo» aveva spiegato Enobarbo malgrado Kazama capisse a stento il francese. Ma il nostro direttore editoriale amava esprimersi in quella che fino ad allora era stata la prima lingua degli scambi internazionali: lo deliziava, e vi era affezionato per una questione di stile, che l'interlocutore la parlasse o meno, poco importa. «Mais, oui, Minaudo, comme notre Editeur. Il s'agit, justement, de son fils. Ah, monsieur, c'est lui qui a projectée la couverture de votre Trentatré svenimenti...»

Allora Kazama vi era entrato solo, chiedendo gentilmente di non essere seguito, e si era chiuso dietro la porticina a vetri.

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Pagina 312

2.

«E comunque, sai qual è il bello imperdonabile di questa città? Dover sempre e comunque fare i conti con la realtà, col dato nudo e crudo, il fondamento delle cose: economia, potere, industria, rapporti di forza. In questa città la gerarchia esiste, altroché, esiste per davvero, ed è quella del denaro. Senza compromessi o camuffamenti. Esplicita, comprensibile a tutti. Violenta com'è sempre violenta la chiarezza. Per questo, dopo l'incidente, ho preferito trasferirmi qui, volevo sentirmi addosso il peso della concretezza, l'elemento minerale, il fervore del sottosuolo invece che l'inganno della superficie. Eppure anche qui pare che la superficie stia per prendere il sopravvento.

È appunto per questo che cercheranno di cacciarci dalla fabbrica. Perché odiano la fabbrica. Perché vogliono che d'ora in avanti la città sia tutta e solo per produzioni immateriali. Se sono pure immagini, proiezioni, sarà più facile crearle e venderle. E poi disfarsene. Noi siamo un inciampo, un fenomeno residuale, i vecchi meccanici che ancora trafficano col grasso per ungere gli ingranaggi, che ancora battono sull'incudine per curvare quel che è dritto e dargli una forma. La sua forma, l'unica possibile. Qui si tengono accesi i fuochi giorno e notte, e siamo mascherati così non per gioco, ma per proteggerci dai ritorni di fiamma. Sarà brutale, ma la brutalità ci piace, la resistenza della materia, che è la nostra stessa resistenza. Tu invece, Nico, ho saputo che ti sei dato tutto intero alla parola. Al verbo...»

«Mi ci hai instradato tu, Chirone» rispose Nico che, per quanto impressionato dalla svolta del suo precettore, ci teneva a rispettare gli insegnamenti che all'epoca ne aveva ricevuto, primo fra tutti quello di evitare le generalizzazioni. «E del resto, sono anch'io impiegato in una fabbrica» aggiunse, riprendendo la definizione amata dall'orgoglioso Minaudo, «dove, in definitiva, si producono oggetti materiali, numerati, sfornati, impacchettati, che occupano uno spazio, hanno un corpo, un costo, un loro odore specifico, di colla e inchiostro. La parola stampata ha tutto un altro peso rispetto a quella pensata o detta, credo che abbia persino un diverso significato. Diventa realtà. I libri non sono meno reali, non sono meno portentosi delle vostre macchine, Chirone. E io non ho tradito il tuo insegnamento, anzi, l'ho preso alla lettera.»

Chirone scoppiò a ridere. Quella di Nico era ingenuità, o ipocrisia?

«Ne sei così convinto? Sul serio? Moda, editoria... Forse devono passare ancora anni prima che tu ti renda conto che si tratta della stessa cosa: moda e editoria, editoria e moda. Dove sarebbe la differenza? I libri sono già adesso e saranno sempre di più delle merci, riservate a un certo pubblico, d'accordo, ma in nulla e per nulla diverse dalle altre, e per di più rivestite di un supposto valore spirituale, estetico, roba creata per far sognare la gente, per distrarla, e incantarla, e in definitiva per ingannarla, esattamente come la moda, per di più con il miraggio di una elevazione o di una conquista intellettuale. Ma appunto, tu sei solo agli inizi, dovrai passare ancora qualche annetto nella tua fabbrica di idee, e diventeranno evidenti le cose che sono ancora nascoste, affinché tu finalmente capisca. "E altro è da veder ch'ora non vedi." Questa società deve invecchiare un altro po', deve marcire ben bene e decomporsi, mentre si illude di ringiovanire, prima che tutti possano afferrare il senso di questa mutazione: troppo tardi, perché ci avremo già sbattuto il muso contro. Tu lo sbatterai contro un muro di libri di cui avrai vergogna per aver contribuito a pubblicarli, dunque per averlo eretto, quel muro. O forse non un muro, bensì una piramide, una piramide di libri cattivi e inutili, accatastati come fustini di detersivo, come saponi per il bucato, uno uguale all'altro, uno più stupido dell'altro. Le parole, Nico, dio mio, quante parole, ancora parole...! Speravo che te ne fossi liberato. Speravo che fossi cresciuto, e invece ti ritrovo ancora adolescente, l'eterno studente, Nico Quell! Il che per altri versi non può che farmi piacere, anzi mi riempie di gioia, vederti così pieno di forze e bello, e baldanzoso.»

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Pagina 326

7.

«Hai paura?» gli chiese Sheila B. porgendogli il casco.

«Ho paura che non mi entri» rispose il Coboldo rigirandoselo in mano.

«Puoi anche non metterlo» sorrise la ragazza, «anzi, non lo metterò nemmeno io.»

Non fu semplice per il nostro eroe montare in sella, e Sheila per facilitarlo si spinse avanti col bacino fin quasi al tappo del serbatoio, ma aveva le gambe così lunghe che comunque restava saldamente piantata coi piedi in terra, mentre il Coboldo dietro di lei si arrampicava. Una volta a cavalcioni, le si aggrappò alle spalle ma lei subito gli spostò le mani poggiandosele sopra le anche. Quando mise in moto e partì, il Coboldo le artigliò la vita e Sheila invece di protestare scoppiò a ridere. «Che presa forte!» Il bello è che Sheila era ironica ma al tempo stesso parlava sul serio: il che è forse il modo di esprimersi più profondo, quando si scherza dicendo il vero.

Ora, per descrivere cosa provò il Coboldo durante quel tragitto, dalla casa editrice al Fabbricone, durato all'incirca venti minuti, venti minuti infernali e celestiali, bisognerebbe possedere una delicatezza, una misura, l'abilità di percorrere senza precipitare lo stretto margine lungo cui lo spirituale e il fisico si toccano nel vocabolario comune, che l'autore di questo scritto purtroppo non possiede. Riesce a riportare le impressioni di Sheila B. con minore imbarazzo, comunque sia rischiando la banalità o l'eccesso. La modella era eccitata, divertita, innocente, maliziosa, sentimentale. Forse aveva capito il gioco di Nico, e non le importava di capirlo. Aveva così insistito il suo amico! E ora, sentirsi alle spalle quello strambo individuo era una cosa nuovissima per lei, abituata a correre da sola o trasportando gente del suo tipo, cioè con spalle larghe, gambe lunghe, risata esplosiva, sovreccitazione, mentre il Coboldo le stava rannicchiato addosso senza spiccicare una parola, come un lemure avvinghiato a un albero. Ma anche per questo Sheila provava una tenerezza, una gioia pura che avevano ben poco a che fare con l'articolo a buon mercato del divertimento. Il divertimento, la preda inseguita ogni notte nella città settentrionale, e ogni notte puntualmente catturata e uccisa.

Tutti ma proprio tutti si divertivano in quegli anni, tutti spumeggiavano e folleggiavano e festeggiavano l'inattesa sovrabbondanza dell'epoca, tutti, e anche lei, sicuro. Quel che ora provava era il desiderio intimo di confidarsi e affidarsi a quell'individuo alieno e unico, lo gnomo insocievole piombato per caso alle sue spalle. Malgrado come modella facesse parte di una categoria al tempo stesso così esigua eppure esemplare da essere diventata il simbolo stesso del modo di vivere nella città del Nord, dei suoi ritmi di lavoro e di non-lavoro, delle sue ambizioni sfrenate, del suo godimento, esibito o segreto, anche Sheila era una persona unica, o meglio, un pezzo unico.

Due pezzi unici, lei e il Coboldo, che combaciavano in modo inatteso sopra il sellino di una Kawasaki.


Stringendo i fianchi di lei in cui affondano appena le mie dita... incollando le mie brutte cosce alle sue, ultraterrene, asfissiato dai suoi capelli con cui il vento della corsa mi frusta in faccia senza pietà (e non ho mai provato fitte così piacevoli...), sì, mi trovo in cielo, sono già morto, morto e risorto e assunto in cielo, dove, peraltro, dopo tutti i sacrifici che ho fatto, meritavo di andare. Sheila mi ci ha portato per la via più breve.

Non devo fare altro che abbracciarla, la strada per arrivarci la conosce, la percorriamo insieme.

Intanto la città sfila accanto, sfreccia via, è forse la prima volta che la vedo.

Che meraviglia questa città! Che meraviglia!

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