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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione di Donatella Alesi e Laura Fortini 7 MOMENTI DI ESSERE 11 Il soggetto infelice e la gioia di vivere di Fulvia De Luise 13 Le scrittrici e la felicità di Maria Clelia Cerdona 31 La felicità, niente di meno di Luisa Muraro 47 Felicità clandestine di Nadia Setti 55 L'eversione anarchica della fedeltà a sé di Cristina Bracchi 77 La coltivazione di orti e giardini nelle scritture delle donne di Giuliana Misserville 95 Elogio della seconda volta di Donatella Alesi 109 SOVRAVVIVERE AL LIETO FINE 117 la fine del lieto fine. Happy ending e laicismo del cinema di Cristiana Paternò 119 Il lieto fine e la triangolarità del desiderio di Serena Anderlini D'Onofrio 125 Non si scherza coi sentimenti. Percorsi del paradosso di Monica Luongo 137 Etica e politica del lieto fine. C'è da ridere o da piangere? di Lori Chiti 143 LE AUTRICI 155 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Può sembrare quanto meno straniante inoltrarsi di questi tempi nei territori della felicità, termine che (troppo) spesso cassiamo dalle nostre vite, o forse, meglio, lo rimuoviamo: alto è oggi il rischio della "ragionevole rinuncia" alla felicità, di cui scrive Luisa Muraro nel suo intervento in questo volume, una rinuncia in nome dei tempi presenti, della difficoltà del vivere, di un futuro incerto rispetto a cui il rilancio di aspettative giuste sembra quanto mai inconsulto. Nonostante ciò, come lo spettro di marxiana memoria, la parola felicità si aggira da tempo nel discorso pubblico, brandita come un talismano o evocata come un auspicio in tanti testi di saggistica specialistica in volume e su riviste di economia, diritto, filosofia, sociologia, in cui la volatile concretezza di tabelle, statistiche, rassegne, compendi, viene controbilanciata dall'indicazione dell'orizzonte verso cui tende l'ordine del ragionamento sullo stato di cose presente e la sua possibile trasformazione. Sarebbe riduttivo attribuire allo stato di guerra preventiva permanente la causa unica e scatenante della progressiva acquisizione di visibilità di una parola e di una condizione esistenziale, le quali, per paradosso, sono state nominate per la prima volta nel dettato costituzionale della nazione occidentale che oggi consideriamo responsabile della destabilizzazione economica, politica e sociale di vaste aree geo-politiche del pianeta; è, però, un dato di fatto che nel 1979, ad esempio, la voce "felicità" non compare nell'Enciclopedia Einaudi, neppure negli indici conclusivi. Rispetto a questo ordine di questioni, non è insignificante che ragionino intorno alla felicità delle donne, in questo caso il gruppo romano della Società Italiana delle Letterate che si è fatto promotore dell'incontro (avvenuto nel luglio 2003 a Trevignano in provincia di Roma) da cui ha origine questo volume, poiché, come scrive Fulvia De Luise, «il desiderio di felicità delle donne scaturisce da un'adesione alla vita molto più profonda, che non permette scorciatoie per evitare il rischio e il dolore: un'adesione che ne fa soggetti esposti alla paura e alla speranza, negati alla divina indifferenza dei saggi». Sappiamo, in realtà, che senza l'incontro di un gruppo di donne americane a Seneca Falls a metà Ottocento quella parola e la sua potente simbolizzazione poco valore avrebbero prodotto rispetto ai tempi lunghi delle trasformazioni sociali — spesso troppo lenti rispetto agli atti repentini compiuti da donne in relazione, di cui è piena la storia umana. Ma è a partire dal fondativo "il personale è politico" degli anni Settanta che il movimento delle donne in modo rivoluzionario non sposta più sull'astratto della politica le ragioni e i motivi della propria pretesa di felicità, nei rapporti personali e nei destini generali. Arriviamo non per caso, dunque, nel 1989 al Sottosopra oro della Libreria delle donne di Milano, in cui la felicità costituisce il filo conduttore della scommessa politica del pensiero delle donne in Italia, scommessa di un sé che diviene mondo, che si interroga a partire dal proprio desiderio. Una «vena di felicità» corre fra le donne, scrivono le autrici del Sottosopra oro, che consente, ad esempio di fare scuola bene, meglio, restando nella fedeltà alla propria umanità e alla propria condizione di donna; o di ragionare sul diritto non più come chi deve sempre adeguarsi ma come chi può, deve, fare giustizia; o di entrare nella politica con la competenza della propria esperienza e con l'intransigenza di desideri e bisogni non più subordinati. Infatti l'area simbolica della felicità investe direttamente il nesso tra coscienza di sé e domanda di senso sul proprio fare e stare al mondo, che fonda il desiderio insopprimibile di libertà di ogni soggettività: più di altre parole, con un corto circuito essa rinvia da sé al mondo senza soluzione di continuità e proprio per questo affiora continuamente come interrogazione ripetuta, che le contingenti vicende del presente possono rendere più urgente, anzi ustionante. Di questa qualità, per esempio, è fatta la ricerca di sé messa in gioco nei romanzi di formazione della letteratura occidentale, che hanno per converso celebrato l'esordio in società del maschio bianco capace di portare a compimento la ricerca di un senso secondo le aspettative degli adulti. Che le regole di questo gioco possano non essere uguali per tutti, lo rivelano le personagge dei romanzi di formazione e le donne che irrompono sulla scena della modernità dimostrando, le prime, che il lieto fine può essere una trappola quando sopravvivono all'esito matrimoniale, e, sovvertendo, le seconde, le secolari leggi del destino familiare: Elizabeth Bennet, la protagonista di Orgoglio e pregiudizio - come continuamente ci ricorda Anna Maria Crispino —, non è particolarmente bella, non è particolarmente ricca, e non è neanche particolarmente fortunata, poiché le capita tutto all'interno di un'assoluta ovvietà e normalità delle possibilità che c'erano in quel momento, in quella fase storica, ma non smette mai di desiderare, è attraverso i suoi "no" che manifesta i suoi desideri. È in questo scenario che il movimento e il pensiero delle donne hanno saputo e voluto fare taglio: è la scena delle madri che ci hanno insegnato a dire più no che sì, e dunque anche a "disidentificarci" dai modelli dei finali lieti manipolati dall'industria culturale della fiction e del rosa. Si sopravvive al lieto fine grazie a momenti di essere (il riferimento è chiaramente a Virginia Woolf) che permettono di «avanzare scalze in un fiume freddo», animate da un desiderio di bene e di bello che ci ha fatto da bussola nell'attraversare a vario titolo e in vario modo i territori, vastissimi, della felicità e che ci ha condotto, si può dire, con naturalezza, a guardare alla letteratura come a un luogo privilegiato cui volgersi per avere cognizione della felicità, del desiderio di essa. Le scrittrici e le loro opere sono così divenute "costellazioni" (il termine in questo volume è di Maria Clelia Cardona) che ci hanno orientato in questa nostra ricerca, dalle splendide pagine di Momenti di essere di Virginia Woolf al racconto Felicità di Katherine Mansfield, dalla Felicità clandestina di Clarice Lispector al Midrash sulla felicità di Grace Paley: esse non si sono sottratte, anzi, alla scommessa della felicità a neanche a quella del lieto fine, variamente interrogato, stravolto, sbeffeggiato fino ai giorni nostri. Sulla possibile dicibilità dei tanti, talvolta episodici, più spesso intermittenti, momenti di felicità si interrogano le autrici raccolte nel volume, i cui saggi mantengono spesso, preziosamente, l'andamento colloquiale dell'incontro, la capacità di ascolto e di interlocuzione, perché sappiamo già, grazie a Paola Bono, che il sapere delle donne è sempre avanti e dunque la forma della felicità risuonerà ogni volta e nella lingua di ciascuna iuxta propria principia, cioè magnificamente inclassificabile. | << | < | > | >> |Pagina 31Siamo abituati a pensare che la letteratura moderna familiarizzi più spesso con gli stati malinconici, ansiosi, dolorosi che con quelli felici; o che almeno dia voce a situazioni il cui evolversi non contempla come obiettivo primario il raggiungimento della felicità. Il pensiero del Novecento è stato in prevalenza un pensiero negativo e di esso si sono alimentate la letteratura e la nostra stessa visione del mondo. È vero che la dimensione classica del tragico è scomparsa dalla modernità, ma ha lasciato al suo posto grovigli di infelicità non sanabili, stati negativi spesso privi di ogni possibilità di catarsi. Ora, a me sembra che invece nelle opere scritte da donne il tema della felicità come richiesta e/o obiettivo di vita abbia avuto un peso notevole e una sua specifica consistenza: le scrittrici, cioè, anche nell'esplorare (o nell'attraversare in prima persona) le condizioni più dolorose dell'esistenza, non hanno perso di vista la necessità di dare valore alla felicità, non tanto negando il dolore, quanto rifiutandone il potenziale distruttivo e sottraendo a esso il nucleo più prezioso dell'esistere. C'è forse un qualche nesso fra tutto questo e il fatto che l'etimo di «felicità», la parola latina felicitas, rinvia a una famiglia di parole che comprende femina, fetus, feracitas, filius, richiamando dunque intorno a un centro femminile la dimensione della fertilità e, per estensione, quella della gioia. Le radici profonde della felicità si intrecciano misteriosamente con quelle della fecondità, intesa anche in senso non propriamente biologico, cioè come processo interiore vitale, trasmissione di sé, dono, apertura verso l'alterità. C'è anche da dire che spesso la felicità è avvertita come una difficile conquista e soprattutto che può manifestarsi là dove meno ci si aspetta di incontrarla, per esempio all'interno del dolore o del rigore etico o di una scelta di vita difficile. È soprattutto nella letteratura femminile che appaiono forme imprevedibili di felicità, distanti sia da quanto il pensiero filosofico o la psicologia hanno dettato in materia, sia dalle più comuni convinzioni. Vorrei quindi scegliere una costellazione di scrittrici per cercare di cogliere quanto di nuovo rispetto alla tradizione (o alle idee correnti) ci viene da esse prospettato su questo tema. La mia «costellazione» comprende alcune tra le più grandi autrici dell'Otto-Novecento, ma prende le mosse da un romanzo giustamente famoso di Madame de Lafayette, La principessa di Clèves del 1678, romanzo che, com'è noto, presuppone la cerchia delle Preziose e le discussioni sorte in quegli anni sull'autonomia femminile in relazione allo stato matrimoniale, avvertito come costrizione e pericolo di perdita di sé. E del resto «Non fate mai dipendere la vostra felicità dagli altri» scriverà sul suo Diario M.me de Maintenon, vissuta tra il 1635 e il 1719, fondatrice di una scuola per l'educazione delle ragazze nobili a Saint-Cyr. | << | < | > | >> |Pagina 42FUORI DALLE STRETTOIE DELL'IO
C'è infine da chiedersi se nella letteratura scritta da donne il
tema della felicità resti confinato alla sfera privata, se non addirittura
autobiografica, o se invece non venga anche esteso alla sfera
pubblica: la felicità è un bene strettamente personale, o riguarda
anche il vivere sociale, e si configura quindi come benessere collettivo? Già in
Malina,
si direbbe, avvertiamo un dilatarsi del problema al di fuori delle strettoie
dell'io:
Bachmann
parla infatti di un «muro della felicità» che vorrebbe costruire intorno alla brutta
circonvallazione di Vienna. Ma è con
Marguerite Yourcenar,
vissuta tra il 1903 e il 1987, che la felicità viene considerata
programmaticamente un obiettivo politico: «Humanitas, Felicitas,
Libertas: queste belle parole incise sulle monete del mio regno,
non le ho inventate io. Qualsiasi filosofo greco, qualsiasi romano
colto si propone del mondo la stessa immagine che mi propongo
io»: è questa una riflessione che compare in
Mémoires d'Adrien
del 1951, in un passo in cui l'imperatore si chiede quali principi
possano migliorare la condizione umana e a quanti ritengono che
«la felicità snerva, che la libertà infiacchisce, che la dolcezza vizia coloro
sui quali si esercita», replica: «non c'è mai stata una spiegazione chiara che
non mi abbia convinto, un amabilità che non mi abbia conquistato, una gioia che
non m'abbia quasi sempre reso migliore». In questo suo recupero della grande
sapienza classica, Yourcenar fa della felicità un principio guida della politica
e in genere della concezione dell'uomo e della società. In un
altro passo del romanzo la felicità assume un'ulteriore specificazione: «Trahit
sua quemque voluptas: ciascuno la sua china, ciascuno il suo fine, la sua
ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l'ideale più aperto. Il mio era
racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua definizione a onta di tutte
le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del
mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d'acque
limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal
marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore di una ricchezza
volgare; che gli alunni recitassero con voce ben intonata lezioni non fatue
ecc.». È ancora l'imperatore Adriano a farsi portavoce di questa straordinaria
inversione di tendenza rispetto al considerare la politica gioco di potere e la
vita dovere e sofferenza: Yourcenar rivalorizza attraverso la sua figura i più
alti insegnamenti dei classici, e quindi anche il discorso sulla felicità e la
bellezza, valori spesso trascurati, se non ignorati, dalle teorie politiche dei
moderni.
L'idea che la società industriale avanzata imbruttisca il mondo e generi infelicità risale ai suoi primordi, ma torna in auge con i movimenti del '68, dei quali risente Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante. Che l'unica felicità e salvezza possibili risiedano nel rifiuto delle costrizioni imposte dalla società moderna, è il concetto che sostiene l'intero libro, ma che trova esplicazione nella lunga Canzone degli F.P. e degli I.M. Lungi dal coincidere con le più ambite realizzazioni sociali, la felicità – la «reale, scontrosa felicità» – consiste nel vitalismo e nella disobbedienza, nel gioco e nella lotta, nel disinteresse, e anche, con un rovesciamento paradossale dei luoghi comuni, nell'infelicità, perché «l'infelicità dei Felici Pochi è / più felice assai che non la felicità / degli Infelici Molti! / La felicità degli Infelici Molti / non è allegra! Non è mai allegra! / Per quanto si diano da fare, / gli Infelici Molti ci si devono rassegnare: / LA LORO FELICITÀ È TETERRIMA! Questo è regolare! / e l'infelicità dei Felici Pochi / è invece allegra! ALLEGRA!». Ma chi sono gli Infelici Molti? Sono la «maggioranza normale», che impiega la propria energia per «combinare / creazioni originalissime d'infelicità / contro i Felici Pochi»: che restano felici, di una felicità «che spesso non pare visibile per la gente comune», e che è intrinseca come una sorta di grazia al loro stato e alla loro natura, anche «nei ghetti / negli harlem / in Siberia / nel Texas / a Buchenwald / in galera / sulla forca sulla sedia elettrica / nel suicidio». Ancora una volta, quindi, la felicità, considerata un bene etico, viene messa in relazione con valori scarsamente condivisi e con una scelta difficile di vita, scelta cui non è estraneo un qualche intervento del destino, individuale e collettivo: ne divengono icone soprattutto le figure dei grandi perseguitati della storia, da Giovanna D'Arco a Spinoza, Bruno, Gramsci; o di chi ha attraversato la sofferenza cercandovi o portandovi la propria luce, come Mozart, Rimbaud, Simone Weil. | << | < | > | >> |Pagina 47Interrogato sul rapporto tra politica e felicità, un mio collega (intendo, un uomo della mia generazione, che fa il mio tipo di lavoro e si considera o viene considerato filosofo) ha risposto: «È esagerato chiedere alla politica la felicità. La politica può crearne i presupposti, può rimuovere quegli ostacoli, come la miseria o l'ignoranza, che impediscono agli uomini di avere una vita degna ma poi sta a noi realizzare la felicità». È una risposta molto sensata e accettabile. Direi quasi che non ce n'è un'altra, restando a come le cose sono andate finora. Ma io non parlerei mai in questa maniera. E invito tutte a uscire da questo tipo d'impostazione, sia per quel che riguarda la politica sia per quel che riguarda la felicità. Il che non dovrebbe essere difficile per nessuna di noi, qui, perché siamo donne e perché siamo femministe. In altre parole, perché, molto probabilmente, nessuna di noi che siamo qui – altre probabilmente sì, ma non si trovano qui – si lascerebbe coinvolgere attivamente nella politica se non c'entrasse la felicità, nessuna di noi qui s'impegnerebbe per una politica che arriva fino ad un certo punto per poi lasciare il raggiungimento della felicità a chissà quali percorsi. Intendo la felicità non come uno scopo ultimo e generale, ma come la possibilità di un godimento personale, condivisibile con altre e altri. Non respingo la risposta del collega, dico che noi parleremmo in altra maniera. Io, almeno, parlerò in altra maniera ed è il primo passaggio che vi propongo, per pensare il nostro tema. Come uscire, però, da quell'impostazione, che rispecchia una cultura maschile millenaria secondo cui la felicità è una mèta ulteriore rispetto alle ragioni della politica, senza che ciò esoneri l'uomo libero e adulto dall'impegno politico. Sto semplificando naturalmente, come si può costatare leggendo la Storia della felicità di Fulvia De Luise e Farinetti. Noto, di passaggio, che trovare la via d'uscita da qualcosa da cui si è fuori, è un paradosso solo apparente, e fra noi non occorre che io mi fermi a spiegarlo. [...] Le pratiche femministe sono notoriamente pratiche di parola. E il godimento sul quale m'interrogo, a questo punto vediamo che potrebbe essere il godimento della parola. La felicità della politica è dunque questa? La felicità di una parola che fa la mediazione tra fedeltà a sé ed esistenza nel mondo? E questa è anche la sua infelicità, quando la parola manca o, peggio, quando la parola mancante è sostituita da una parola degradata. A conclusione, o al suo posto, leggo un passo di Clarice Lispector, portato qui da Nadia Setti: «Sarebbe passata da sé agli altri, il suo cammino era gli altri. Quando avesse potuto sentire appieno l'altro, sarebbe stata in salvo e avrebbe pensato: ecco il mio porto d'arrivo». | << | < | > | >> |Pagina 95Il ritorno alla natura, un fenomeno che nel corso degli ultimi decenni anche in Italia ha registrato un certo successo sull'onda del risveglio dell'attenzione pubblica su tematiche di salvaguardia ambientale, è oggetto di una produzione di testi letterari in cui le vicende narrate sono in grado di tramandare l'evoluzione del senso del luogo. Produzione analizzata, per quel che riguarda alcune scritture maschili, da Francesco Vallerani che, pur sottolineando i raffinati percorsi di recupero memoriale di cui la campagna è stata oggetto, non nasconde un certo tono di insofferenza per gli aspetti mistificanti dei meccanismi di una società di massa che nell'idillio campestre ha trovato una macchina per indirizzare i consumi. Nonostante questo il rapporto tra narrazione e campagna o giardini è stretto e può contribuire a rinnovare su nuove basi la relazione tra l'uomo e il suo paesaggio. Ne L'orto di un perdigiorno, Pia Pera racconta la sua avventura di cittadina che torna alla campagna: «In certi momenti la felicità è troppo intensa, trabocca, da non contenerla. Come adesso davanti al rosso rubino delle amarene contro il verde scuro delle foglie». Occuparsi di alberi, ortaggi e frutta le apre un mondo di percezioni nuove, cui si accompagna un senso di appagamento e di pace. La coltivazione del cibo che mangia le sembra il mezzo più efficace per riagganciare quel legame o patto ancestrale con la natura che l'uomo contemporaneo ha profondamente stravolto. In questo ritorno alla terra Pia Pera è accompagnata dalla lettura di Masanobu Fukuoka, il teorico dell'agricoltura naturale o della non-azione: Ecco, volevo diventare anch'io così. Avrei lasciato anch'io il lavoro di città per il podere avito. Lì avrei trovato il paradiso. [...] Non ricordo più dove, Kafka ha scritto che ci sarebbe da chiedersi non perché l'uomo abbia perduto il paradiso terrestre, ma perché non faccia nulla per tornarci. A lui, cittadino di Praga, forse è sfuggito che chiunque torni alla campagna, chiunque voglia per sé un giardino, è spinto da questo desiderio, di un ritorno all'Eden. Il ritorno all'Eden è una figura o un motivo che spesso si ritrova o si intuisce dietro alle righe che talune scrittrici hanno dedicato ad orti e giardini. Ma non solo le scrittrici. Duccio Demetrio ha sottolineato il ruolo particolare che i giardini hanno nella formazione delle simbologie individuali e il posto che loro spetta nella memoria di ciascuno. Nelle pagine di mano femminile, tuttavia, di cui si offre qui una scelta del tutto asistematica (Pia Pera, Colette, Alice Walker, Elizabeth von Arnim, e Vita Sackville-West), il rapporto con paesaggi, orti e giardini assume i contorni di un itinerario dai risvolti più vasti e profondi rispetto alle narrazioni maschili, di una ricerca di sé, di un fare i conti con il tempo che passa e con il ciclo della vita che comprende in sé anche la morte intesa come motore del passaggio tra ciò che è e ciò che dovrà essere, concime indispensabile alla crescita di nuove generazioni. | << | < | > | >> |Pagina 109Diversi modi di leggere libri ho appreso in tanti anni di scuola e università, ma uno solo è oggi quello che intrattengo con essi da quando, grazie ad Anna Santoro, riconosco nella pratica della buona lettrice il fuoco della mia passione per la letteratura. Proprio in virtù della particolare natura solitaria dell'atto della lettura che allontana il mondo per lasciar entrare le parole del mondo nella mia mente, solo i libri sanno pungermi. Sono pochi, ma necessari alla mia fame di conoscere e di gioire.
L'incontro con la pratica politica del femminismo, all'inizio
degli anni della Novanta, ha curiosamente introdotto nella mia
vita l'abitudine della seconda lettura di opere lette
prima
e
con altri occhi.
La definisco abitudine, ma dovrei più propriamente spendere il termine di
necessità
perché le riletture sono state e sono tuttora dettate dal desiderio di
attraversare l'opacità delle differenze e delle relazioni che non avevo saputo
riconoscere per troppo tempo. Sono diventate sorprendentemente il dono della
seconda volta
concesso a certi libri e ad alcune autrici avendone in cambio la gioia
dell'apertura di senso che dirada le ombre, come suggerisce l'immagine inventata
da Amanda Cross-Carolyn Heilbrun nello splendido racconto giallo
Intreccio pericoloso.
Anch'io come la protagonista — una docente universitaria invitata a ricostruire
la vita segreta della donna di un grand'uomo delle lettere — mi spingo a
rivedere e a rileggere negli anni opere e segni biografici permettendomi di
scoprire di volta in volta quanto ho guadagnato dalle loro invenzioni di parole
e, soprattutto, tutto ciò che non avevo saputo vedere la prima volta. Quando li
accolgo in me, facendo spazio alle figurazioni racchiuse nei loro mondi,
assaporo anzitutto il senso gioioso della scoperta, intesa come qualcosa che
prima
non c'era e che mi fa percepire come una concavità vivente. Per fortuna, però,
dura solamente un attimo perché prevale la considerazione del
riconoscimento
di un senso di me che già esisteva, ma che non avevo saputo vedere fino
a quel momento. Quando l'opera è capace di farmi ripercorrere i miei tempi senza
prima e senza dopo, in un
continuum
nel quale imparo attraverso la parola dell'altro-di un'altra, a diradare
quell'opacità traducendola in
uno scambio di grazia
tra me e quelle parole che sanno farsi mondo. Allora la seconda lettura diviene
vera e propria
seconda volta
concessa a me e al mio spirito dell'accoglienza dai percorsi dell'invenzione di
donne che più e meglio di me hanno saputo rivelarmi a me stessa. Di questa
felicità, sfiorata ogni volta nella relazione segreta con le opere letterarie e
le ragioni delle loro autrici, è fatta la sostanza del mio lavoro di critico e
di docente, che senza la revisione femminista del canone letterario non avrebbe
trovato dove abitare.
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