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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione 83 Nota biografica 87 Nota bibliografica 97 LA BILANCIA DELL'AZIONE 99 Nel nome di Dio, Clemente misericordioso! I. La negligenza nel ricercare la felicità è assurda, 100 II. La negligenza nel ricercare la fede nell'Ultimo Giorno è parimenti assurda, 102 III. La via della felicità consiste nella scienza e nell'azione, 112 [...] XXIX. Come cancellare l'ansietà che si prova nella vita terrena, 254 XXX. Non bisogna temere la morte, 258 XXXI. L'indizio della prima tappa di coloro che si incamminano verso Dio Altissimo, 264 XXXII. Che cosa significa «dottrina» e quali controversie ne seguono, 270 275 LA RETTA BILANCIA 277 Nel nome di Dio, clemente misericordioso! [Introduzione] La bilancia della vera conoscenza I. Discussione della bilancia maggiore dell'equivalenza, 284 II. Discussione della bilancia mediana [dell'equivalenza], 294 III. Discussione della bilancia minore [dell'equivalenza], 299 [...] VIII. Discussione del modo con cui si può liberare l'uomo dall'oscurità delle dispute, 328 IX. Discussione sulle forme del ragionamento per analogia e indipendente dimostrazione della loro falsità, 341 349 Conclusione 351 L'ALCHIMIA DELLA FELICITÀ 353 Nel nome di Dio, clemente misericordioso! Capitolo sulla conoscenza di sé, 355 Capitolo sulla conoscenza del cuore e dei suoi eserciti, 359 Capitolo sulle meraviglie del cuore, 363 [...] Capitolo dove si specifica che la natura dell'uomo è la chiave della conoscenza degli attributi divini. È una nobile scienza, 369 373 Glossario arabo-italiano 377 Glossario italiano-arabo |
| << | < | > | >> |Pagina 9«Scienza della bilancia» è una locuzione che normalmente si usa per indicare la conoscenza gnostica dell'universo degli alchimisti: è la bilancia con cui si misurano le distanze, i moti, i pesi, addirittura le realtà spirituali, onde arrivare a un dominio della natura e alla delineazione di una cosmologia esoterica. Ma una vera «scienza della bilancia» ('ilm al-mizan) è a fondamento anche del pensiero etico e gnoseologico di Abu Hamid al-Gazali. E ciò in due sensi soprattutto. Il primo è il giusto mezzo nel comportamento per ottemperare al dettato coranico di non superare i limiti, «ché Dio non ama gli eccessivi»: è la giusta bilancia della via sunnita che integra nella religione ortodossa alcuni elementi di mistica sufi. Il secondo è il criterio per discriminare la verità razionale alla luce della rivelazione: è la giusta bilancia della via sunnita contro le deviazioni isma'ilite-batinite. Si tratta di un aspetto strettamente etico e di un aspetto gnoseologico che ha valenza etica — e politica — per quanto coinvolge i fondamenti della fede e pretende di gettare le basi di una «dimostrazione» persuasiva di tale fede. Entrambi gli aspetti emergono nell'opera di al-Gazali di cui qui si presenta al lettore italiano un saggio significativo. La Bilancia dell'azione è il trattato in cui l'autore indica il criterio più idoneo per perseguire il retto comportamento. La Retta bilancia è l'opera in cui l'autore dimostra come i testi sacri si armonizzino con la logica e costituiscano l'unico strumento per pervenire alla verità, oltre e contro le pretese isma'ilite di far costante riferimento a un'autorità esterna, l' imam preteso infallibile. La Bilancia dell'azione (Mizan al-'Amal) di Abu Hamid al-Gazali fu composta nel periodo della prima maturità dell'autore, tra la fine del 1094 e l'inizio del 1095. È dunque un'opera che si colloca a cavallo tra le composizioni giuridiche, filosofiche e politiche del primo periodo della sua vita e quelle prevalentemente (anche se non esclusivamente) mistiche del secondo periodo. La data discriminante, come vedremo, tanto della biografia quanto della bibliografia di al-Gazali è proprio il 1095. Ciò significa che la prospettiva teoretica che ha ispirato la Bilancia dell'azione risulta essere contemporaneamente filosofica e mistica, pur non mancando sfumature derivate direttamente dalla giurisprudenza — scienza centrale e predominante dell'Islam. La varietà delle chiavi di lettura possibili del trattato induce a considerarlo come una dimostrazione del perché l'autore venne soprannominato la «prova» dell'Islam; e nel tentativo di giustificare questa nomea apriremo e chiuderemo il nostro discorso introduttivo, che cercherà di contestualizzare la Bilancia dell'azione nel quadro culturale dell'epoca in cui visse al-Gazali così come nell'ambito complessivo della sua sterminata produzione letteraria. La Retta bilancia fu invece composta in una data imprecisata durante il decennio (1095-1106) cosiddetto dell'«occultamento», successivo all'abbandono della vita pubblica. Essa è comunque posteriore alla redazione delle grandi opere di orientamento mistico come la Rinascita delle scienze religiose e riprende su un terreno teoretico la polemica contro l'Isma'ilismo che aveva raggiunto un alto livello dottrinale, e più strettamente politico, nel Mustazhiri (vedi più sotto paragrafo IV). Anche la Retta bilancia rivela l'eclettismo di al-Gazali e dimostra inequivocamente la sua capacità di trovare una mediazione feconda tra tradizionalismo religioso e innovazione filosofica. Prima di occuparsi della «storia» del pensiero gazaliano. è opportuno però svolgere qualche considerazione preliminare. Al-Gazali è stato probabilmente il più grande pensatore dell'Islam. Dico pensatore e non filosofo o teologo o mistico poiché ciascuno di questi attributi, se preso separatamente, è incapace di descrivere completamente la sua personalità intellettuale. Egli fu filosofo, teologo e mistico ad un tempo, così come professore di diritto islamico. Il mio scopo qui, studiando la vita e le opere di al-Gazali, è andare oltre la filosofia e la teologia per cogliere lo spirito teoretico più originale dell'Islam. Ciò non implica tanto una dimensione di verità apodittica, un vero cioè che pretenda di porsi come categoria universalmente accettabile e accettata onde distinguere ciò che sarebbe o dovrebbe essere l'autentico Islam; quanto ciò che noi sentiamo e crediamo essere «vero». La luce di Dio è, di fatto, un velo alla sua essenza: questo è uno dei fondamenti del pensiero gazaliano ed uno dei fondamenti del pensiero islamico in generale, di quello mistico, naturalmente, ma anche di quello teologico-dialettico (si pensi, ad esempio, alla trascendenza o tanzih e alla negazione mu'tazilita degli attributi divini o ta'til). Noi testimoniamo della provvidenza e dell'onnipotenza di Dio guardando all'armonia cosmica, ma non riusciamo a coglierne l'essenza, tranne che per vaghe metafore, o al più come telos e intenzionalità. È questa la dimensione «fenomenologica» del pensiero islamico su cui ho discusso in altri contesti e che non è il caso di riprendere qui. La premessa è tuttavia indispensabile per cogliere il nucleo critico attorno a cui si dipana questa introduzione e che è imposto dalla lettura delle stesse Bilancia dell'azione e Retta bilancia. Il lettore, in altre parole, dovrà ricordare, in primo luogo, che in ogni momento della sua vita al-Gazali fu un sincero credente nell'Islam; e, in secondo luogo, che è impossibile giustificare la molteplicità degli approcci gazaliani alle varie forme del sapere senza valutarli nel quadro dell'evoluzione psico-intellettuale dell'autore. Di fatto, in al-Gazali l'opera di teologo o di mistico è strettamente legata alle esperienze della vita e al contesto storico e culturale dell'epoca. Per cui le non lievi modificazioni che si producono nella concezione gazaliana dalla prima maturità alla vecchiaia debbono essere giudicate come l'esito di un profondo scavo interiore, in risposta alle sollecitazioni del mondo esterno. | << | < | > | >> |Pagina 18Dal mio punto di vista, al-Gazali fu certamente un difensore della legittimità califfale e contemporaneamente dell'autorità sultaniale, come vedremo più avanti, e tentò di armonizzare le dimensioni religiosa e politica convinto che, nella migliore tradizione islamica, religione e politica siano sorelle:La vita mondana e la sicurezza delle persone e della proprietà non sono garantite se non da un sultano la cui autorità è obbedita e rispettata. Ai nostri giorni, facciamo esperienza di lotte e assassini di sultani e califfi e ciò dimostra la veridicità della precedente affermazione. Se l'attuale situazione continuerà e non si arriverà a designare un potere autorevole, l'anarchia e la violenza continueranno. [...] La religione e il potere sono gemelli; la religione è la base (ass) e il potere è il guardiano (haris). Ciò che non ha base si distrugge, e ciò che non ha guardiano va perduto [...] Un potere è necessario per mantenere l'ordine nel mondo; siffatto ordine è necessario per mantenere la religione, e la religione è necessaria per procurarsi la felicità nell'altro mondo. Egli comunque sottolineò particolarmente come la prospettiva etica della salvezza e dell'adempimento dei valori religiosi e la stessa tensione mistica non cancellino le relazioni sociali e, anzi, impongano stretti legami educativi tra gli insegnanti e gli studenti. La scienza ('ilm), anche nel caratteristico significato di «conoscenza di Dio» (ma'rifah) spesso inteso da al-Gazali, non è in alcun modo segreta e incomunicabile, nonostante la sua rarità e preziosità, come la scienza degli Isma'iliti-ta'limiti. Anzi, deve essere insegnata — sia pure solo a coloro in grado di impararla — e deve servire a costruire la via dritta (al-qistas al-mustaqim: la retta bilancia) del comportamento etico. La scienza innerva l'azione e la illumina; l'azione non potrebbe essere rettamente guidata senza la scienza, ma la scienza senza l'azione sarebbe vuota. | << | < | > | >> |Pagina 43I quattro lavori gazaliani più interessanti del periodo sono comunque la Bilancia dell'azione, le Infamie dei Batiniti e le eccellenze dei Mustazhiriti, l' Incoerenza dei filosofi e il Giusto medio nella credenza, tutti da collocarsi tra la fine del 1094 e gli inizi del 1095, cioè negli ultimi mesi della permanenza di al-Gazali a Bagdad. Essi costituiscono non tanto un trait d'union tra un presunto razionalismo, e forse scetticismo, della prima maturità e il fideismo degli ultimi anni, quanto piuttosto la conferma della costante tendenza gazaliana a fondere e sintetizzare ragionamenti razionali e giuridico-legali, senza che per altro manchino elementi schiettamente spirituali.La Bilancia dell'azione costituisce il culmine della riflessione etica e morale gazaliana prima della conversione al misticismo. Naturalmente, si tratta del frutto compiuto di una lunga evoluzione del pensiero etico islamico che non può essere ricostruita qui nei particolari. È tuttavia indispensabile ricordarne taluni punti essenziali. Il pensiero etico nell'Islam ha, evidentemente, come suoi primi fondamenti il Corano e la sunnah. Il riferimento normativo ai testi sacri ha un ruolo predominante non solo perché l'Islam è una religione, ma forse soprattutto perché l'Islam è una religione «del Libro». Sullo sfondo dei fondamenti etici che traggono ispirazione dalla rivelazione, scritta e codificata nel Libro per eccellenza, nel Corano, e nelle Tradizioni (ahadit) sulla vita del Profeta, anch'esse componenti un retaggio «scritto», dev'essere letta in filigrana la Bilancia dell'azione di al-Gazali. L'etica coranica è molto complessa: ne emerge complessivamente l'immagine di una morale attiva, impegnata, nella costante ricerca di un equilibrio tra l'interiorità e l'esteriorità. Entrambi questi elementi — attivismo ed equilibrio tra la coscienza e l'atto, tra la dimensione spirituale interna e la dimensione pratica e sociale — sono caratteristici di al-Gazali. Egli considerava gli atti del culto e i comportamenti umani come espressione essoterica della profonda verità della fede e della convinzione intima dell'anima illuminata dalla fede stessa. Il fondamento centrale dell'etica coranica, anzi dell'etica islamica nella sua migliore espressione, è il principio del giusto mezzo, principio di lontananza da ogni eccesso ed esagerazione. Esso fa leva su un versetto: «Abbiam fatto di voi una nazione che segue il medio cammino». Il giusto mezzo non coinvolge solamente l'individuo con le sue proprie azioni, che debbono essere ordinate ed equilibrate, ma coinvolge in primo luogo la comunità, che nel suo complesso può giovarsi del comportamento onesto e retto di uno dei suoi membri, ma che contemporaneamente è responsabile della devianza. Il senso comunitario è fortissimo nell'Islam e condiziona la stessa visione del rapporto della religione con la società. Un versetto «evangelico» sottolinea la priorità dell'agire bene sul mero atto di adorazione: «La pietà non consiste nel volgere la faccia verso l'oriente o verso l'occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio e nell'Ultimo Giorno, e agli Angeli e nel Libro e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amor di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattar prigionieri». Il precetto dell'ordinare il bene e proibire il male (cfr. Corano 3, 104 e 110), che sta alla base tanto dell'etica mu'tazilita quanto di quella as'arita, vincola il musulmano a correggere i torti e a propagandare il messaggio anche a rischio della vita: «Non sono uguali agli occhi di Dio quelli fra i credenti che se ne restano a casa (eccettuati i malati) e quelli che combattono sulla via di Dio dando i beni e la vita, poiché Dio ha esaltato di un grado coloro che combattono sulla via di Dio dando i beni e la vita, sopra quelli che se ne restano in casa». Certamente, si prefigura qui quello «sforzo» sulla via di Dio (gihad) che si è in certi casi tradotto nell'appello alla «guerra santa», concetto quanto mai frainteso nella percezione dell'opinione pubblica occidentale — ma su cui è impossibile soffermarsi in questa sede. In ogni caso, il Corano sottolinea come Dio ami i pazienti (cfr. Corano 2, 153 e 8, 46), come il combattimento non debba superare i limiti onde non spiacere a Dio (ivi, 2,190) e come il dovere essenziale del musulmano sia quello di mettere pace tra i fratelli (ivi, 49, 9-10). | << | < | > | >> |Pagina 97Poiché la felicità, scopo ultimo degli antichi e dei moderni, la si può ottenere solo con la scienza e con l'azione, ognuna delle quali necessita di essere appresa secondo la sua essenza e il suo valore, e poiché è obbligatorio sapere cosa sia la scienza e distinguerla da ciò che non lo è mediante un criterio di cui ci siamo già occupati — è ora indispensabile sapere quale sia l'azione che procura la felicità e distinguerla da quella che conduce alla miseria. Simile proposito impone di trovare una bilancia; e a questo fine vogliamo dirigere la nostra indagine, dimostrando come la negligenza nella ricerca della felicità sia assurda.
Dimostreremo che il cammino verso la felicità implica la
scienza e l'azione, per cui studieremo prima la scienza e il modo di
ottenerla; quindi l'azione che procura la felicità e il modo di ottenerla: il
tutto seguendo un metodo che impone il passaggio dal
limite del conformismo all'autorità a quello della chiarezza autoevidente.
Quest'ultima, qualora se ne investighi la sostanza e se
ne sviluppi l'esposizione, può tradursi in una dimostrazione apodittica
rispettando le condizioni che abbiamo chiarito nella
Misura della scienza.
Pur senza soffermarci a parlarne diffusamente,
spiegheremo quali sono i suoi principi e le sue leggi.
La felicità ultraterrena, cui ci riferiamo, significa eterna permanenza senza annientamento, piacere senza pena, serenità senza angoscia, ricchezza senza povertà, perfezione senza difetti, gloria senza avvilimento; si tratta, in sintesi, di tutto ciò che un ricercatore può sperare di ottenere e di ogni tipo di desiderio che si può sperare di realizzare, per una eternità senza fine che il corso dei secoli e delle ere non può scalfire. Anzi, seppure immaginassimo che il cosmo fosse colmo di granaglie e che un uccello ne beccasse un chicco ogni mille anni fino a esaurirne la scorta, ebbene tutto questo tempo non scalfirebbe di nulla l'incommensurabile eternità. Una volta accettata questa prospettiva, non v'è alcun bisogno né di incitare alla ricerca né di rimproverare la negligenza, poiché ogni uomo dotato di intelletto si affretterebbe [a perseguire un bene] anche minore, e non ne verrebbe distolto dalla considerazione che il cammino per arrivarci è disagevole e implica l'abbandono dei piaceri mondani e la sopportazione di ogni specie di fatica. Infatti, la sopportazione è di breve durata e di scarso valore ciò che si perde. I piaceri del mondo sono fugaci ed effimeri e per l'uomo intelligente è facile tralasciare quel poco che si può guadagnare pronta cassa per ritrovarsi il doppio a credito. Ecco perché tutta la gente che è impegnata a commerciare, a costruire e finanche a cercare la scienza, si sente pronta a sopportare umiliazioni, perdite, fatiche e angustie che paiono intollerabili pur di ottenere nel futuro un guadagno che eccederà di molto quel piccolo profitto che si è lasciato cadere nel presente. E come dunque non si abbandonerà ciò che si possiede oggi per acquistarsi un privilegio che non ha limiti né misura? Invero non esiste al mondo persona intelligente ma avida di denaro che non ritenga conveniente spendere un dinar e aspettare un mese per ricevere, allo spirare dei trenta giorni, una potente soluzione chimica in grado di trasformare il rame in oro puro, anche se, al momento, trova molesta la spesa. Non sarebbe saggio neppure chi, durante il mese di attesa, non sapesse resistere ai tormenti della fame nella prospettiva futura di ottenere così grandi vantaggi pratici. È forse addirittura inconcepibile supporre che un individuo di tal fatta esista! Tuttavia, la morte è sempre in agguato, e l'oro non serve a nulla nell'aldilà. Potrebbe accadere che la morte sopravvenga durante il mese d'attesa o appena il giorno dopo, cosicché dalla [trasformazione del rame in] oro non si tragga alcun utile. Eppure, il rischio non fa vacillare la decisione di effettuare la spesa nella speranza di trarne un compenso.
Come potrà dunque indebolirsi la determinazione del saggio di combattere le
passioni carnali durante la vita terrena, fosse pur lunga cent'anni, se la
ricompensa oltremondana è infinita? La negligenza nel perseguire la strada della
felicità è indotta negli uomini dalla loro tiepida fede nell'Ultimo Giorno; ché,
altrimenti, non solo un'intelligenza perfetta, ma anche un'intelligenza
incompiuta spiegherebbe tutto lo zelo possibile per imboccarla.
Sostengo poi che la negligenza nella fede, sebbene sia un'assurdità, non comporta di necessità la negligenza nel percorrere la via della felicità, a meno che non si tratti di vera e propria indifferenza. Gli uomini, per quanto riguarda la questione dell'Ultimo Giorno, si dividono in quattro categorie: La prima è composta da coloro che credono nell'adunanza, nella resurrezione, nel Paradiso e nell'Inferno, come specificato dalle Leggi religiose e come narrato nel Corano. Essi affermano che le gioie [paradisiache] sono sensibili e hanno in realtà come loro oggetto il desiderio sessuale e il nutrimento; consistono in gusti olfattivi, tattili, visivi o relativi all'abbigliamento. Ammettono poi, oltre a questi, altri tipi di piaceri e di letizie che nessuno ha mai potuto descrivere prima, poiché nessun occhio li ha visti, nessun orecchio li ha sentiti e nessun cuore umano li ha immaginati. Il godimento dura per l'eternità, senza interruzione, e lo si acquisisce con la scienza e l'azione. Condividono questa opinione i musulmani e coloro che seguono la profezia, inclusa la maggior parte degli Ebrei e dei Cristiani. La seconda categoria comprende certi filosofi musulmani teisti che ammettono l'esistenza di una sorta di piaceri che la mente umana non può figurarsi, e che essi chiamano piaceri intellettuali. Quanto alle gioie sensibili, ne negano l'esistenza obiettiva, pur ammettendo che possano provarsi in modo immaginativo in uno stato [simile a] quello del sonno. Il sonno, però, è come turbato dal risveglio, mentre i piaceri non vengono affatto turbati, a causa della loro permanenza. I piaceri sensitivi si produrrebbero dunque in coloro che sono talmente legati alla materialità da non rivolgere la loro attenzione che ad essa, così da diventare incapaci di attingere la felicità intellettuale. Questo atteggiamento non conduce alla negligenza nella ricerca [della felicità], poiché il piacere deriva dalle impressioni che l'anima umana riceve dagli oggetti toccati, visti o gustati. La realtà esterna è causa dell'impressione; ma il piacere non deriva da ciò che è esterno, quanto piuttosto dall'impressione ricevuta grazie all'esistenza di una realtà esterna. Se fosse possibile che l'impressione venga ricevuta nell'anima senza che esista un oggetto esterno, come accade nel sonno, non sarebbe affatto necessario ammettere l'esistenza di una realtà obiettiva. Il terzo gruppo perviene a negare del tutto le gioie sensibili, tanto sostanzialmente quanto immaginativamente. Essi affermano che l'immaginazione è prodotta solo da organi corporei, per cui la morte interrompe il legame tra l'anima e quel corpo che le serve di strumento nell'operazione immaginativa e in tutte le altre sensazioni. L'anima, dopo aver abbandonato il corpo, non ha più nulla a che fare con lui. Le sofferenze e le gioie dell'anima, dunque, non sono corporali anche se sono ancora più intense di quelle corporali. L'uomo, in questo mondo, prova inclinazione per i piaceri intellettuali e ancor più forte ripugnanza per le sofferenze intellettuali. Perciò prova disgusto a mostrare debolezza col pianto, preferisce la discrezione alla pubblicità, reprime lo stimolo sessuale e sopporta [in silenzio] sofferenze e tribolazioni. Vi sono uomini che preferiscono digiunare uno o due giorni pur di vincere una partita a scacchi, anche se mangiare è un piacere sensibile, mentre vincere una partita a scacchi è un piacere intellettuale; ed altri vanno da soli all'assalto di un numero preponderante di nemici al solo scopo di rimanere uccisi e di ricavarne in cambio quelle lodi e quell'attributo di eroismo che essi considerano di grande valore. Questa terza categoria [d'interpreti] sostiene che le impressioni sensibili sono di gran lunga inferiori alle dolcezze spirituali che si provano nell'aldilà. La relazione che esiste tra di essi è simile a quella che esiste tra l'annusare un cibo appetitoso e il mangiarlo, o tra il guardare l'amata e l'avere rapporti con lei; anzi più remota ancora. Di fatto, la natura dei piaceri ultraterreni sfugge alla comprensione dell'uomo comune, che se li immagina dello stesso genere di quelli sensibili. È come un giovane che intensamente si applica allo studio per poter poi giungere alla magistratura o al visirato: non sapendo, data la sua giovinezza, quali sono i piaceri che si traggono dalle due [professioni], si lascia distrarre da altre cose appetibili, come per esempio mazze con cui giocare, uccelletti con cui trastullarsi, e simili. Ma quale differenza esiste tra il gusto di giocherellare con un uccellino e l'onore di ricoprire la carica di visir o di essere re! Ma poiché l'intelligenza di un fanciullo non è in grado di valutare quale dei due piaceri sia il più soddisfacente, si dovrà mostrargli la differenza onde eccitare il suo interesse e condurlo progressivamente a dedicarsi al suo vero scopo, la felicità. Se ciò è vero, non ne deriva una negligenza nella ricerca della felicità, ma anzi un aumento di zelo; e questa è infatti la conclusione dei mistici sufi e dei filosofi teisti. I maestri sufi non esitano a chiarire il loro pensiero dicendo: «Chi adora Dio solo per guadagnarsi il Paradiso o per sfuggire all'inferno, è un indegno. Aspirare a Dio [per Lui stesso] è cosa assai più nobile». Chi frequenta questi maestri e ne segue le dottrine e ne studia i libri, si accorgerà in modo incontrovertibile che le loro asserzioni si conformano con la loro condotta. La quarta categoria comprende una massa di stolti a cui non si può dare un nome proprio poiché non possono contarsi tra le schiere degli [uomini] speculativi. Essi ritengono che la morte consista in un annientamento totale e che l'obbedienza [a Dio] o il peccato non aspettino alcuna sanzione. Dopo la morte, l'uomo si ridurrebbe a niente, come niente era prima di esistere. Costoro non si devono considerare come componenti di una fazione precisa, poiché una fazione implica una comunanza [di idee], mentre la su accennata dottrina non gode di [assenso] universale, né la si può collegare a [qualche altra] precedente nota teoria. Si tratta di una dottrina talmente vana e sciocca che [chi la professa] subisce il condizionamento dell'istinto passionale ed è facile preda di Satana, così da non aver modo di controllare i propri desideri e da essere impedito di rendersi conto della propria incapacità a resistere loro. Costui sostiene che la dottrina in questione è vera e necessaria per [giustificare] la propria pochezza; e desidera che anche altri condividano la sua opinione, incitando alla vanità. Quell'impulso irresistibile dell'anima che sovrasta e spinge ad abbandonarsi alle passioni, è ciò che induce lo stolto a prestare assenso a un simile richiamo. | << | < | > | >> |Pagina 254Se un uomo ha sereno l'animo, sano il corpo e assicurato il cibo per un giorno, affliggersi e rattristarsi per le cose del mondo è segno di follia e di stoltezza. Infatti, l'ansietà è dovuta o al rimpianto del passato, o al timore dell'avvenire, o alla preoccupazione per le circostanze presenti. Ora, se l'ansia è imputabile a qualcosa di trascorso, l'individuo intelligente sarà tanto introspettivo da rendersi conto che è perfettamente inutile tormentarsi per qualcosa perduta in modo definitivo: soffrirne è pura sciocchezza. Perciò ha detto l'Altissimo: «...e questo acciocché voi non vi rattristiate per quel che vi sfugge». Ha recitato un poeta: «Forse che l'apprensione mi giova tanto da voler essere inquieto?». Se poi l'ansia è imputabile a qualcosa di attualmente presente, può essere dovuta o alla gelosia per un beneficio concesso a qualcuno che si conosce; o al timore della povertà o di una eventuale perdita di denaro, di prestigio e di qualsiasi altro oggetto materiale. All'origine di ciò vi è l'ignoranza di quanti sono i veleni e le calamità della vita. Se li si conoscessero davvero, si ringrazierebbe Iddio Altissimo per aver alleggerito piuttosto che appesantito [il carico dell'esistenza quotidiana]. Se un innamorato riflettesse sulla decadenza cui è inevitabilmente destinata la bellezza di colei che ama, non l'amerebbe affatto. Saprebbe che la vita è apportatrice di mali, che le sue acque sono sudicie e generano ogni specie di epidemie; ogni sorsata provoca soffocamento. Nessuno può sopravvivere senza essere esposto a tre strali: quello del rancore, quello della disgrazia e quello del desiderio [insoddisfatto] (munyah). Ha detto un poeta: «I contrattempi assalgono l'uomo dovunque; talvolta il bersaglio è mancato, ma talvolta in pieno è centrato». Chi consideri come ogni giorno le fortune terrene vengano strappate a coloro che le posseggono, e come anzi ogni giorno nuove sventure li colpiscano, e consideri quanto tormentosa è l'ansia provocata dalla perdita di tali fortune, non può che rallegrarsi di averle perdute. Perciò si racconta che, avendo un tale domandato [a un saggio]: «Perché non sei turbato?», quegli avrebbe risposto: «Perché non possiedo nulla la cui perdita mi affligga». Qualora l'uomo rifletta sulla pochezza dei maestri di questo mondo rispetto a quelli dell'altro e sulla quantità di fastidi che ne derivano, si consolerebbe e considererebbe ben poco molesto l'abbandonare i beni terreni. Un mistico sufi si era obbligato a visitare ogni giorno un ospedale, onde osservare i malati e studiare le loro malattie e infermità; a visitare le prigioni di stato, onde osservare i detenuti e i carnefici preposti a infliggere le pene; a visitare pure i cimiteri, onde osservare la gente che partecipava ai funerali e toccare con mano il dolore manifestato per chi [essendo defunto] non ne avrebbe tratto alcuna consolazione, pur ammesso [il dovere] della pietà verso i morti. Tornando a casa, poi, ogni giorno, elevava fervidi ringraziamenti a Dio per averlo beneficato risparmiandogli simili prove dolorose. È giusto che l'uomo, in questo basso mondo, rifletta su come vivono quelli inferiori a lui, al fine di rendere grazie [a Dio per ciò che possiede], e su come si comportano, riguardo alle questioni religiose, quelli superiori a lui, al fine di raddoppiare il suo zelo. Ma se il demonio prende il sopravvento, saprà sconvolgere e rovesciare questo punto di vista. In tal caso, se a quell'uomo si chiedesse: «perché ti abbandoni ad atti malvagi?», cercherebbe di scusarsi dicendo che esistono altri uomini che fanno di peggio: scusa risibile relativamente al peccato e alla miscredenza (kufr)! Analogamente, se gli si chiedesse: «Perché non ti accontenti di quello che hai?», risponderebbe lamentandosi che altre persone sono più ricche e che lui non ha la pazienza di sopportare ciò che è ingiusto venga sopportato. Si tratta di puro traviamento e di ignoranza assoluta! Se non si desse importanza a simili impicci, tutto il tormento generato dalla gelosia svanirebbe. Non c'è ragione di adombrarsi perché Dio ha beneficato qualcuno che se lo merita; ché del resto, se non se lo merita, tutto gli riuscirà più di nocumento che di giovamento. Se l'ansietà riguarda il futuro, o attiene a qualcosa di transeunte o attiene a qualcosa di inevitabile, per esempio la morte, cui non esiste rimedio. Se attiene a qualcosa che può accadere o non accadere, allora ci si fermi a riflettere. Qualora si tratti di un destino contro cui non v'è difesa, come la morte o la vecchiaia, tormentarsene è stolto; qualora si tratti di un fatto contro cui è possibile lottare, l'ansia perde di significato, anzi bisognerà sforzarsi di eliminarla con un ragionamento scevro da ogni pregiudizio. Una volta che si sia fatto il possibile per cautelarsi, si resterà quieti, in attesa del decreto e della decisione di Dio (qada' wa'l-qadar), consapevoli che al decreto non si può sfuggire. Si accoglierà ciò che capita con sopportazione, se non si è in grado di sottrarsi; e ci si renderà conto che ciò che è stabilito si verificherà, rammentandosi delle parole dell'Altissimo: «Non vi toccherà disgrazia sulla terra o nelle vostre persone che non sia stata scritta in un Libro prima ancora che Noi la produciamo». La brama degli uomini ad approntare le cose del mondo ha origine dall'illusione e dalla beata speranza che i mali saranno rimossi e che torneranno tempi migliori. No e poi no! Ha detto 'Ali — che Dio sia soddisfatto di lui! —: «Gli uomini augurano ai loro simili felicità, ma il volgere del tempo (dahr) cela ai loro occhi il giorno sfortunato». Aveva ragione il poeta a recitare: «A nessuno i giorni hanno apportato del bene, facendogli anzi del male dopo averlo illuso col bene». Nulla di meno disse Abu Mansur at-Ta'libi descrivendo la vita reale nei versi seguenti: «Cerca d'obliare la vita del mondo e non chiederla in sposa, ché non si domanda in sposa una donna che farà fuori il consorte. La speranza con cui ci si illude non vale a compensare il timore e il disgusto che, a ben pensarci, sono assai prevalenti. C'è chi l'ha descritta sotto gradevole luce e ne ha menato gran vanto, ma, perbacco, vi dirò io di che cosa si tratta davvero! È vino pregiato il cui fondo è un veleno mortale; è un cavallo sfrenato che, sebbene lo ami, si sbriglia; è un'armoniosa figura, la cui bellezza conquista la gente, anche se sotto la pelle nasconde turpi segreti». L'uomo intelligente, valutando questi fatti, si sentirà il cuore alleggerito della maggior parte delle sue ansie, a meno che troppo saldi siano i legami che lo avvincono a una persona amata o al denaro, a una proprietà o alla sua professione, al potere e all'autorità o a una qualsiasi altra cosa. Costui non saprà liberarsi dalle preoccupazioni se non avrà reciso quelle catene; ma ciò è impossibile se l'anima non si distoglie dai beni mondani poco per volta, per occuparsi di faccende completamente diverse. E se anche queste altre faccende risultassero tali da dover essere abbandonate, non sarebbe male «lavare il sangue col sangue», visto che i beni mondani sono ben più vincolanti e stringenti. Anzi si tratta di un esercizio consigliabile, poiché il liberarsi di un colpo di ciò cui si è assuefatti è assai malagevole, per non dire impossibile.
Perciò si permette a un fanciullo, impegnato in studi di letteratura e di
buone maniere
(adab),
di appassionarsi al gioco del polo o di trastullarsi con gli uccelli. In
seguito, lo si distoglierà dal gioco eccitando il suo desiderio per il
benessere, la ricchezza, i bei vestiti o altro ancora; poi si risveglierà il suo
gusto per la lode e l'encomio, e la sua inclinazione per la preminenza e il
prestigio; infine si solleciterà la sua aspirazione alla felicità oltremondana,
essendo il prestigio la cura meno importante che occupa la mente dei saggi. È
lecito applicare una terapia in sé pericolosa, ma utile, per eliminare
i danni di mali anche peggiori. Sono come fasi e tappe, attraversando le quali
l'uomo progredisce; e non vi è mezzo di procurarsi il
riscatto se non gradualmente. Che si tenga dunque presente questo
metodo, ogni volta che qualche cattivo attributo si impadronisce
dell'anima e ne rafforza i legami [col mondo], poiché, recidendo
questi legami, si finisce per sopprimere l'ansia.
L'uomo vive due stati: prima della morte e nel momento della morte. Prima che la morte sopravvenga, è necessario che l'uomo conservi sempre in sé il pensiero del trapasso, come ha detto [il Profeta] — su di lui la pace! —: «Ritornate spesso al ricordo di ciò che annienta tutti i piaceri, poiché nell'angoscia esso vi darà sollievo, e nel benessere vi insinuerà l'angoscia». Al proposito, gli uomini si dividono in due categorie: I negletti, cioè i veri stolti, che non meditano sulla morte e su ciò che la segue, se non per preoccuparsi dei figli e dell'eredità, e nessun pensiero rivolgono alla loro propria sorte, di cui si risovvengono solo al momento del funerale. È vero che ogni tanto recitano: «Noi siamo di Dio e a Lui ritorniamo», ma ritornano a Dio solo a parole e non con gli atti, per cui il loro discorso è del tutto menzognero! Vi sono poi gli uomini intelligenti e sensati, dai quali il pensiero della morte non si separa mai, così come dal pellegrino mai si distacca il pensiero della meta, né le faccende connesse alla sosta o alla ripresa del viaggio dopo ogni tappa gli fanno dimenticare l'obiettivo che si è prefissato. In breve, il pensiero della morte raffrena nell'uomo l'eccesso di speranza e reprime i suoi desideri, il che rende più sopportabili le sventure, e si frappone tra lui e i suoi arbitri.
Dal pensiero della morte si produce la contentezza per ciò che
si possiede, lo stimolo al pentimento, la rinuncia alla gelosia e alla
brama per i beni mondani e, infine, lo zelo nelle pratiche di culto.
Per non mostrarsi trascurati negli atti di culto, è necessario rammentarsi, ad
ogni spuntare del giorno, che la morte è in agguato e
che, per la morte, tutto è effimero: il che è ben possibile.
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