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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 9 1. L'età della disinformazione 11 2. Vapori imperiali 37 3. Il toro feroce e gli asini astuti 49 4. Ancora la Bolivia 81 5. Il Vecchio e la rivoluzione: pagine di diario dall'Avana 101 6. Il passato come epilogo: le vite di Simón Bolívar 127 Poscritto: pagine di diario dal Sud America gennaio-dicembre 2007 141 APPENDICI Appendice 1. Teodoro Petkoff: un uomo per tutte le stagioni 163 Appendice 2. «Le Monde» non sarà il peggio, però 177 Appendice 3. Abbiamo imparato la lezione: quel che non ti uccide ti rende più forte 185 Appendice 4. La mia storia è appena iniziata 217 Appendice 5. Potere al popolo 241 Appendice 6. Discorso di Hugo Chávez alle Nazioni Unite 247 Note 257 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Cosa determina e influenza la nostra coscienza? Cosa ci guida nel pensiero e nelle azioni? Lo spirito dell'epoca? E come possiamo definirlo? In base alle pressioni e ai processi della vita quotidiana così come la sperimentiamo entro le specifiche strutture sociali di un predominante Stato controrivoluzionario e dei suoi alleati: ecco la risposta preferita dall'autore di queste pagine. In quale altro modo potremmo spiegare le conversioni di massa che hanno contraddistinto la fine del Ventesimo secolo, orde di politici, accademici, intellettuali, romanzieri e giornalisti (per tacere dei tanti arrivisti balzati sul carro dei vincitori) che hanno digerito in blocco il Consenso di Washington? Hanno intuito che la tendenza fondamentale della vita politico-culturale è l'arrendevolezza. E si sono trasformati, facendo incetta di idee attinte a un unico recinto. Tutto ciò ha generato una sua psicologia, un suo linguaggio. I pilastri del nuovo ordine mondiale venivano visti come istituzioni semidivine la cui autorità deriva dalla loro pura e semplice esistenza: una multinazionale è vantaggiosa perché è una multinazionale ed è una multinazionale perché è vantaggiosa. In realtà, questa è la logica che doveva essere imposta dall'espansione a est della NATO e dalle basi militari statunitensi ramificate in centoventun Paesi.La crisi e il collasso di tutte le alternative al capitalismo, assieme alla fine delle guerre fredde o calde che hanno visto contrapposti Stati Uniti e mondo comunista (1917-91), hanno avuto un profondo impatto su quanti, generalmente parlando, avevano guardato sino ad allora a sinistra. Persino coloro che nutrivano poche illusioni sul modello socialista sovietico sono stati duramente colpiti dal crollo dell'Urss. Proprio come dopo la Restaurazione nella Francia del Diciannovesimo secolo pochissimi si sentivano di dichiarare pubblicamente «sono un uomo del 1794» (Stendhal fa eccezione, ed è ancor più notevole che egli abbia scelto l'anno delle esecuzioni dei reali come quello decisivo per la giovane repubblica), allo stesso modo, passato il 1991, a molti in Europa non parve più possibile dire «malgrado tutto, io resto un uomo del 1917». Anzi, alcuni sono arrivati ben presto ad altre conclusioni: «Non avrei mai potuto essere una donna del New Deal», «Ho sempre pensato che nel 1945 il partito laburista abbia sbagliato a nazionalizzare le miniere e le ferrovie», «L'ossessione francese per lo Stato è un effetto dei postumi della sbronza di Vichy» o ancora «Forse non è poi una cattiva cosa che la sinistra abbia perso la guerra civile in Spagna e in Grecia», e così via. In Sud America, diversamente da quanto accaduto in Europa, in Australia e negli USA, ci sono stati pochi voltafaccia. Una grande quantità di attivisti e intellettuali si è rifiutata di voltare le spalle alla Rivoluzione cubana. Anzi, persino quelli più decisamente critici verso Castro si sono ben guardati dall'applaudire gli aspiranti assassini del leader cubano a Washington o a Miami (anche se, naturalmente, non mancano le eccezioni, peraltro ben note, come quelle di Carlos Fuentes e Mario Vargas Llosa). Non si può dire la stessa cosa, purtroppo, della maggior parte dei latinoamericanisti delle accademie occidentali o al servizio dell'esercito mediatico mondiale. Costoro sono «maturati» e caduti a terra. O meglio, per dirla fuori dei denti, si sono venduti. Se non ti ricicli, non guadagni. In Occidente, il trionfo del capitalismo è parso definitivo. E il Consenso di Washington ha conquistato l'egemonia. Due sono le principali idee del Nuovo Ordine: 1) il nuovo modello capitalistico come «unico» sistema di organizzazione del genere umano possibile sino all'implosione del pianeta e 2) la famigerata violazione della sovranità nazionale da parte dell'Occidente come strumento per apporre il marchio dei «diritti dell'uomo». Negli ultimi due decenni, tali idee si sono diffuse come un virus contagioso insieme alle linee di politica interna ed estera a esse ispirate. Le illusioni tradite e le speranze dismesse hanno portato a una visione esacerbata del passato, alimentando così l'ambizione personale. L'interesse individuale ha preso il sopravvento su quello collettivo. E a prosperare ha finito con l'essere il più adatto. La prima idea ha avuto come risultato lo svuotamento delle istituzioni democratiche e l'incessante decadimento del sistema dei partiti. Nonostante il fenomeno appaia più pronunciato in Occidente, se ne trovano tracce anche in India, in Brasile e in Sudafrica. I partiti, svuotati delle loro differenze politiche, si sono trasformati in involucri vuoti, grandi meccanismi messi a punto per consentire all'élite politica di spartirsi ricchezza e potere. Il numero dei militanti diminuisce a vista d'occhio, ma i partiti continuano a essere guidati da una minuta rete di professionisti, l'equivalente in politica dei loro eguali ai vertici dell'industria pubblicitaria. Nel secolo scorso, Herbert Marcuse fu ampiamente criticato per aver osservato che l'evoluzione del moderno capitalismo stava creando una cultura consumistica in cui anche gli esseri umani venivano considerati come prodotti, e che avrebbe portato inesorabilmente a una passiva società atomizzata. Il crollo del comunismo ha estremamente accelerato tale processo. Dopo il 1991, ogni voce che faceva appello alla resistenza politica, anche nel solo ambito del dibattito delle idee, ha finito per essere liquidata come priva di senso, dissonante, perversa, anacronistica. Il più grande desiderio di molti che un tempo militavano a sinistra era ormai quello di trovare un'appartenenza, e tale impulso era così potente da indurre a convertirsi al Nuovo Ordine molti uomini e donne intelligenti che una volta guardavano a Mosca e Pechino o a Prinkipo e Coyoacán o all'Avana, a Hanoi e Managua, e in alcuni casi estremi a Pyongyang e Tirana. Naturalmente, la psicologia può contribuire a spiegare il ribaltamento di opinioni di una persona. Ma, per la sua ampiezza, il fenomeno in questo caso si presenta piuttosto come la grande ritirata di un intero strato sociale. Osservando il mutato paesaggio della società e della politica, costoro hanno smesso di pensare. Il capitalismo, una volta considerato da molti come un cancro incurabile, veniva ormai percepito come l'unica terapia disponibile. Come definire questo cambiamento di giudizio se non un'abietta prostrazione di fronte alle difficoltà e ai pericoli della storia? Come sappiamo, la nuova fede è alquanto antica. Il capitalismo esiste da cinquecento anni. E il solo fatto d'essere sopravvissuto a tutte le sue crisi (al contrario del socialismo reale che è durato appena settant'anni ed è crollato nel momento in cui s'è trovato di fronte alla sua prima grande sfida) gli ha conferito, a confronto dei recenti esperimenti sociali sfociati in un completo disastro, una patina di alto antiquariato. Ed è per questo motivo che i sostenitori del Consenso di Washington hanno finito col manifestargli una devozione semireligiosa. Ciò che essi sostenevano è divenuto immutabile, infallibile. Tutti i problemi si sarebbero risolti, una volta che l'intero pianeta si fosse convertito. E tutte le eresie dovevano essere espulse, in modo che esso apparisse coerente a se stesso. Qualsiasi minaccia a questo punto di vista doveva essere fugata sul nascere. Eppure, se ci addentriamo nella mente dei nuovi convertiti, ci troviamo di fronte a uno spazio vuoto, riempito di arredi presi in prestito. Θ un dato di fatto che molti tentano di reprimere, ma là dentro nulla appartiene loro. Sono le salmerie del Nuovo Ordine a influenzare ogni cosa: le loro opinioni, i gesti, l'untuosità, persino il modo di vestirsi. In alcuni casi, si salvano il vecchio linguaggio del corpo e la prosa scrupolosa. Gli occhi iniettati di sangue si accendono e i pugni stretti si alzano a lodare una nuova gloriosa guerra imperiale o un nuovo colpo di Stato. Dal momento che la guerra è stata un disastro e il colpo di Stato è caduto nell'ignominia, lo spettacolo che essi danno della propria compattezza è poco più che un'imbarazzata miscela di pretesti e millanteria. Privi di reale importanza, tali persone rappresentano solo la punta inquinata dell'iceberg. Θ ciò che vi sta sotto che dobbiamo scoprire. Un solo Impero. Ma numerosi canali di notizie, 24 ore su 24, dominano il mondo in cui viviamo. Tutti tranne due (al-Jazeera e il venezuelano Telesur) condividono la medesima scaletta. Più che la libertà di parola o di pensiero, la concentrazione del potere mediatico nelle mani d'una mezza dozzina di tycoon mondiali è volta a promuovere un «cambiamento di regime». Le corporation della disinformazione (fra cui due reti controllate dallo Stato come la BBC e l'ABC) costituiscono un livello importante dell'impalcatura imperiale che avvolge il mondo. La dicotomia amico/nemico e credente/eretico, promossa dalla Casa Bianca e dal Consenso di Washington, domina i servizi dei principali mezzi di comunicazione. In altri tempi, l'autore satirico e critico austriaco Karl Kraus ebbe a dire che «se con le loro verità i giornalisti hanno ucciso la nostra immaginazione, con le loro bugie minacciano la nostra vita». Spesso una singola immagine, decontestualizzata e ripetuta a dovere, si è dimostrata sufficiente a convincere i cittadini del nostro mondo umanitario-imperiale che era tempo di un'altra guerra. Immagini di questo tipo hanno dominato i servizi televisivi durante tutto il periodo preparatorio alla guerra in Jugoslavia e in Afghanistan, ma nessuna immagine recente era disponibile per l'Iraq, nel 2002. Quelle che rappresentavano gli effetti del napalm e dei gas tossici usati in un villaggio curdo venivano utilizzate con parsimonia perché erano vecchie di oltre due decenni, e i telespettatori più anziani avrebbero potuto ricordare che all'epoca il dittatore iracheno era un prezioso alleato dell'Occidente, esattamente come i barbuti «combattenti per la libertà» in Afghanistan. In assenza di immagini, dovevano bastare le bugie. E così è stato, anche quando si dimostrarono per quello che erano. E in tempo di pace? Θ finita l'epoca in cui era ideologicamente necessario dimostrare che gli indigenti cittadini dell'Unione Sovietica e dell'Europa Orientale avevano bisogno di diversità, di dissenso, di una vitale opinione pubblica e di una politica d'opposizione. La Cina ha mostrato che un capitalismo dinamico non necessita di una rudimentale democrazia. Oggi, il Nuovo Ordine esige un conformismo sociale, economico e politico, e la manipolazione delle notizie è diventata più importante di quanto non fosse nel secolo scorso. Dal momento che le nuove regole si applicano a tutti gli aspetti della politica e della strategia imperiale, come avrebbe potuto restarne immune la cronaca di un mondo in continuo cambiamento? La stragrande maggioranza dei giornalisti dell'Occidente, senza contare la minoranza direttamente al soldo delle agenzie di intelligence, si attiene a un criterio fondamentale per valutare un regime: non si chiede se lo Stato in questione garantisca o no i diritti dell'uomo, bensì se è amico o nemico del Consenso di Washington. Gli alleati di Washington possono bombardare le città, torturare le persone e commettere crimini di guerra. Tutto ciò viene presentato come un fatto spiacevole ma necessario, quando addirittura non viene attribuita alle vittime la colpa del trattamento loro riservato. La Palestina e la Cecenia, l'Iraq e l'Afghanistan costituiscono esempi eclatanti. Raramente la tanto magnificata ideologia dell'Occidente è entrata in così netto conflitto con la realtà come nel 2002, durante il colpo di Stato in Venezuela appoggiato dagli Stati Uniti e dall'Europa, quando si guardò a Hugo Chávez, presidente regolarmente eletto, come a un uomo sleale verso gli interessi americani nella regione (il Venezuela è il maggiore produttore di petrolio in America Latina). I politici e i cani da guardia dei media del Nuovo Ordine acclamarono così fragorosamente il temporaneo rovesciamento del presidente eletto che non si prestò la minima attenzione a quanti facevano notare che eravamo tornati ai tempi del colonialismo, quando le insurrezioni indigene venivano represse nel sangue. Sulla maggior parte dei principali organi di stampa e dei notiziari televisivi riecheggiò di fatto il medesimo commento. Come vedremo, la breve durata di tale colpo di Stato ha congelato l'operazione mediatica allo stadio embrionale: un'altra settimana e gli alleluia sarebbero diventati assordanti. L'episodio è per molti aspetti rivelatore, e ne discuteremo in modo più dettagliato nel seguito del libro. Qui l'ho richiamato solo per indagare la vasta campagna di disinformazione delle reti mediatiche del Consenso di Washington. Come era prevedibile, la copertura del colpo di Stato da parte della stampa transatlantica l'«Economist» e il «Financial Times» fu tendenziosa, e mostrò spesso una preferenza per la fantasia e l'appagamento dei desideri piuttosto che per la fedele cronaca della realtà sociopolitica. I due rispettivi corrispondenti da Caracas erano Philip Gunson (il quale collaborava anche come free-lance al «Miami Herald» ed era ben propenso a scrivere per qualunque altra testata che non disdegnasse un punto di vita pregiudizialmente ostile a Chávez) e Andrew Webb-Vidal. La coppia stazionava fissa fra le retrovie dell'oligarchia venezuelana e dei suoi partiti politici. Osservando gli eventi da una posizione di tale privilegio, questi due viscidi giornalisti divennero i principali interpreti del punto di vista oligarchico nei media occidentali. Nel caso di Gunson, la visione del Venezuela era inasprita dal suo passato di radicale, partigiano della rivoluzione sandinista in Nicaragua, e dal disincanto seguito al fallimento di quell'esperimento. Amareggiato e cinico, egli si era ormai trasformato in un appassionato avversario del processo bolivariano, un po' più timido all'inizio e sempre più furioso man mano che Chávez cresceva per importanza e forza. Meno intelligente e più prevenuto, Webb-Vidal ha sviluppato uno stile, un metodo e un'etica giornalistica improntati alla denuncia, che curiosamente ricordano gli articoli della «Pravda» all'epoca di Breznev. Questo sordido bardo di uno screditato ordine sociale non faceva mistero delle sue simpatie oligarchiche, e il «Financial Times» non vide motivo di mettere in discussione la sua «obiettività». Fu quando il governo Chávez tentò di assumere il controllo della Petróleos de Venezuela, la gigantesca società petrolifera controllata dallo Stato (i cui top manager e capi sindacali, debitori del loro posto agli screditati politici della precedente amministrazione, si erano rifiutati di punto in bianco di lavorare col nuovo governo) che l'oligarchia venezuelana e i suoi compari politici compresero che la conservazione dei loro futures e dei loro conti bancari esigeva di passare rapidamente all'azione. L'annuncio che sarebbe stato nominato un nuovo Consiglio d'Amministrazione fu il segnale che indusse il sindacato dei lavoratori petroliferi (strettamente legato allo sconfitto partito di Acción Democrática) a entrare in sciopero. Gli oligarchi e i loro amici di Washington e Madrid erano convinti che senza il flusso del petrolio l'economia sarebbe collassata, scatenando un'inquietudine di massa che avrebbe consentito il ricorso ai vecchi e sempre onorati metodi per rovesciare l'indebolito governo di Chávez. Perciò, quando gli Stati Uniti diedero il via libera al colpo di Stato in Venezuela (esattamente un anno prima dell'invasione dell'Iraq), gli oligarchi si dimostrarono apertamente entusiasti. E rivestirono a nuovo un ex presidente della Camera di Commercio (ormai in rovina anche per gli standard venezuelani), perché facesse da presidente fantoccio. Quindi, alcuni ammansiti generali ordinarono l'arresto di Hugo Chávez, che fu portato in una base militare. Fin qui, tutto male. Mentre si diffondeva la notizia, crebbe la rabbia nei barrios attorno a Caracas e i poveri decisero di marciare verso Palazzo Miraflores, sede del presidente. Allo stesso tempo, un altro significativo evento aveva luogo nel palazzo. Mentre i media occidentali erano pronti a presentare al mondo il presidente fantoccio come salvatore della democrazia venezuelana (il «New York Times» aveva appoggiato il colpo di Stato, considerandolo un successo della democrazia), un generale uscì dalla sede presidenziale per parlare ai soldati della banda militare. Li informò che erano in attesa di un nuovo presidente e che avrebbero dovuto suonare l'inno nazionale, come di consueto. Ma i soldati contestarono gli ordini. Il generale, incollerito per la disobbedienza, si voltò verso il giovane trombettiere (un ragazzo di diciotto anni), e lo incaricò di suonare il saluto all'arrivo del nuovo presidente. «Mi scusi generale, ma di quale presidente parla? Noi ne conosciamo soltanto uno. Hugo Chávez.» Il generale infuriato disse al trombettiere di obbedire. A sua volta, costui gli consegnò il proprio strumento ribattendo: «Pare che lei abbia molta voglia di suonare. Tenga, questa è la tromba. La suoni lei». Ai suoi figli quel soldato potrà dire orgogliosamente: «Non obbedii agli ordini». La sollevazione popolare e la minaccia di un ammutinamento dell'esercito portarono al trionfale ritorno di Chávez. La gente dei barrios aveva marciato sino in città per difendere il governo bolivariano. Lo fece perché sapeva che Chávez era stato rimosso per averla aiutata. Perché capiva che in Venezuela era cominciata una complessa gestazione con cui si stava cercando di liberare il Paese dalla dominazione di Washington. E anche perché credeva che la debolezza dei bolivariani era comunque preferibile alla forza dell'opposizione. Un anno dopo il fallito colpo di Stato, quella era l'impressione che ho avuto conversando con un gran numero di persone di varia estrazione sociale, non tutti favorevoli a Chávez. Perciò, il giovane trombettiere era molto più in sintonia con la maggioranza dei suoi connazionali di quanto non fossero gli esponenti dei media che avevano in animo di assecondare un colpo di Stato vistosamente antidemocratico, cosa del resto che hanno seguitato a fare senza pudore. All'interno del Paese stesso, i due principali quotidiani (uno dei quali, corrotto o clandestinamente finanziato dai governi precedenti, aveva proposto ai bolivariani di riservar loro un occhio di riguardo in cambio dello stesso trattamento, andando tuttavia incontro a un netto rifiuto) non nutrivano alcuna simpatia per Chávez. Furono la CNN in lingua spagnola e, molto più apertamente, i canali televisivi di Gustavo Cisneros a spalleggiare il colpo di Stato. Proprio in Cisneros l'oligarchia venezuelana aveva trovato il suo perfetto rappresentante. Il miliardario latinoamericano, sorta di emulo di Murdoch o di Berlusconi, era direttamente coinvolto nel colpo di Stato. Come tutti i ricchi del mondo, pensava anzitutto ai suoi interessi personali. Ha garantito piena copertura solo ai vecchi partiti politici perché corrispondevano ai suoi bisogni e ha mostrato di apprezzarne il servilismo servendosi dell'eccentrico ministro della Finanza come di un esattore personale. Gli piaceva lasciar credere che tutto ciò non lo facesse per tornaconto personale, bensì per il benessere del suo continente. Ma perché avrebbe dovuto consacrare le sue energie al continente se non c'era da fare denaro? Cisneros è proprietario di Venevisión (la più importante rete televisiva privata del Venezuela) fin dal 1961, e cioè da molto prima che il mondo muovesse nella sua direzione. E ora il canale poteva essere usato come arma contro i barbari che minacciavano il potere del denaro. In anni recenti, Venevisión si è distinta per aver attaccato i bolivariani definendoli «plebe» e «scimmie» (quest'ultimo riflette il tradizionale pregiudizio che i creoli nutrono verso i loro cugini di carnagione scura). Come se la ridevano nei verdeggianti sobborghi di Caracas Est a questo sfoggio di umorismo! La più sofisticata tecnologia dei mezzi di comunicazione di massa è posta ora al servizio dei primitivi e semplicistici bisogni del sistema, veicolando qualsiasi cosa esso richieda, compresi colpi di Stato e scabrose sostituzioni di presidenti regolarmente eletti. Le elezioni messicane del luglio 2006 ne offrono un calzante esempio. Mentre la maggior parte dei network televisivi mondiali annunciava la vittoria della destra e del suo candidato, il neoliberale Felipe Calderón, un piccolo ma valido gruppo di media indipendenti analizzava pazientemente quel che stava accadendo nel Paese. Ben presto apparve chiaro che le loro preoccupazioni erano giustificate. Il gruppo fu coadiuvato dai cronisti di «La Jornada» (un quotidiano messicano indipendente), convinti che, come nel 1988, l'establishment avesse manipolato un'altra elezione generale. | << | < | > | >> |Pagina 29Un'altra versione un po' meno rozza di questo stesso atteggiamento mette frequentemente a confronto i latinoamericani «cattivi» (Castro, Chávez e, ora, Morales) e i latinoamericani «buoni» (Lula, Bachelet, Garcia e Fox), lasciando Nestor Kirchner sospeso fra le due categorie. Ne ho avuto esperienza durante la mia visita in Brasile del 2005, quando tenni una conferenza pubblica all'Università Federale di Rio che mi ha fatto guadagnare un editoriale di rimprovero da parte di un'autorevole penna del «Folha de Sγo Paulo», il principale quotidiano liberale del Paese, che mi accusò di aver contrapposto le riforme del Venezuela al deserto neoliberale del Brasile.La fonte di questa infinita valanga propagandistica è ben nota. Gli Stati Uniti saranno in grado di imporre la propria volontà e mettere la parola fine alle turbolente tensioni del continente? E perché tanta paura e ostilità verso i nuovi movimenti e i nuovi governi che chiedono un'alternativa al Consenso di Washington? Probabilmente, i partigiani di Washington immaginavano qualcosa di diverso. Una sorta di paradiso, un pianeta soggetto alle leggi di mercato, incontestato e incontestabile. Lo schiacciante trionfo del capitalismo negli ultimi decenni del Ventesimo secolo ha accecato i suoi sostenitori, vecchi e nuovi, impedendo loro di vedere altre possibilità. Lo spirito del mondo è stato addomesticato. Era la fine della storia. Le idee radicali finivano in cantina e i libri che le avevano ispirate erano consegnati a pubblici falò. Davanti a noi ci attendono secoli d'oro. Θ naturale che i guerrieri del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale siano entusiasti di questa visione delle cose. Ma lo zeitgeist ha influenzato profondamente anche molti ex avversari della legge del capitale. Sopraffatti da una combinazione di stanchezza e timore dell'ignoto, costoro hanno cominciato a rivestire le nuove vittorie del capitalismo di gloriosi colori, adottando un linguaggio più stravagante di quello utilizzato centocinquant'anni prima da Gladstone, il quale ben più sprezzantemente vide nei successi imperiali una «crescita inebriante di ricchezza e di potere». La disillusione seguita ai fatti dell'89, il cinismo e una esasperata visione del passato hanno colpito tutti i continenti, senza eccezioni. Coloro che hanno adottato il punto di vista storico dei vincitori provengono da tutte le classi sociali e da tutte le famiglie politiche. Socialdemocratici, eurocomunisti, ex trotskisti, puri settari nel fiore degli anni rimasti fedeli a se stessi semplicemente passando al servizio di più antiche cause, maoisti un tempo proclivi alla violenza di strada, teorici marxisti, fedeli quanto zelanti antimperialisti che avevano difeso l'etiope Dergue e il disastroso intervento sovietico in Afghanistan, ex anarchici... in quasi tutti i governi neoliberali (dell'Europa, del Nord America, del Sudafrica, del Brasile, della Cina, dell'Australia e del mondo mussulmano) si trovano rappresentanti di tutte queste specie e, laddove non sono al governo, sono nelle retrovie ad applaudire fragorosamente. Credono ancora nella lotta di classe, semplicemente hanno cambiato sponda. Non capiscono che la linea del diagramma della storia non scorre mai coerentemente. Θ una linea franta, contraddittoria, che può piombare giù sino allo zero e poi risalire improvvisamente, senza preavviso. Politici e accademici, romanzieri e commediografi, registi cinematografici e giornalisti si sono uniti per festeggiare ogni nuovo trionfo del Consenso di Washington. Né si dovrebbe dimenticare che negli inebrianti giorni successivi al '91 le notizie delle vittorie correvano fitte e veloci. Quanto più recente era la conversione, tanto più deciso era l'ardore con cui veniva difeso il Nuovo Ordine Mondiale. C'era un intenso desiderio di rompere i ponti col passato e darne dimostrazione pubblica in toni quanto più possibile ipocriti, senza alcun senso di vergogna. E quale miglior modo se non denunciare come reazionari e nemici della civilizzazione gli avversari delle «guerre umanitarie» (la frusta coloniale, uno dei più selvaggi e ipocriti retaggi dei secoli precedenti), nonché tutte le alternative anticapitalistiche in quanto lastricano la strada del totalitarismo? Convinti che non esistessero altre strade percorribili o desiderabili, costoro hanno riorganizzato la propria vita e il proprio lavoro al fine di andar incontro alle esigenze del Nuovo Ordine. Alcuni si sono detti incapaci di condannare la tortura quand'è compiuta negli interessi dell'umanità e della civilizzazione. Altri hanno scoperto che, dopo tutto, il vecchio colonialismo non era poi così male, e hanno giustificato l'occupazione imperiale di Stati sovrani e la creazione di nuovi protettorati occidentali nei Balcani o sull'Hindu Kush. E tutto ciò nella pretesa di rappresentare le voci autentiche della ragione. Sì, si sono uniti in qualità di propagandisti ai ranghi degli eserciti imperiali. Sì, hanno sostenuto guerre e occupazioni. Ma non c'era altra scelta. E c'erano forse altre scelte, allora, quando Montaigne ironizzò sul razzismo europeo, quando Toussaint si mise alla testa d'una riuscita ribellione contro la schiavitù, quando Mark Twain denunciò l'occupazione imperiale delle Filippine o quando Marcel Proust si prese gioco delle pretese bibliche del sionismo? Nondimeno, la sinistra, il movimento antibellico e una manciata di giornalisti capaci di pensare con la propria testa hanno tenuto viva una voce nei media principali, gli «idioti» che hanno partecipato ai festival del World Social Forum, gli «islamo-fascisti» che hanno deriso il grossolano cinismo delle folle neoimperialiste e il loro ruolo di perfidi traditori. Descritta in questo modo, la rabbia ha iniettato veleno nel loro opportunismo. Non pochi suadenti, piagnucolosi giornalisti e accademici si sono trasformati nell'arco d'una notte in guerrieri della causa imperiale, premurosi di compiacere i loro nuovi padroni, e il risultato è stato che spesso si sono dimostrati più rozzi e bellicosi di coloro che servivano. Un'analoga costellazione di personaggi era affiorata dopo le epocali sconfitte dei secoli precedenti. I teorici del movimento dei Livellatori sono saliti sul carro della Restaurazione degli Stuart. I militanti giacobini hanno festeggiato la sconfitta di Waterloo. I compagni di strada dei bolscevichi in Occidente si sono trasformati in apologeti dei loro rispettivi imperi. Molte di queste persone, tutt'altro che sprovviste di intelligenza, hanno speso gran parte delle proprie energie nel tentativo di autogiustificarsi un impulso tanto primitivo quanto futile il che significa che la loro produzione più recente non mostra segni di appetito intellettuale. Nel nuovo ambiente in cui si sono inseriti c'erano sempre servitori più scaltri e di più antica data, difensori più affermati e coerenti dello status quo. Per farsi ascoltare, dovevano superare in vigore i toni dei più tradizionali conformisti: avevano un passato da cancellare, loro. Alcuni ci sono riusciti. Erano tutti subdoli e falsi? Non credo. La conversione, nella maggior parte dei casi, era abbastanza sincera, sebbene alcuni cercassero di convincersi di appartenere ancora alla «sinistra democratica» o di rappresentare «l'unica vera sinistra». Perché questa insistenza? Forse riconoscere una rottura totale col passato avrebbe voluto dire per loro consegnare il lavoro di una vita a una pira funeraria. La vanità impediva tali eccessi. Gli arrivisti saltati sul carro da guerra degli anni Novanta erano inclini a concludere molto frettolosamente che, poiché erano finiti loro, fosse finita qualunque altra cosa. La terra era stata rubata, i satelliti spia imbrattavano il cielo, ma il libero pensiero e la dissidenza non erano scomparsi del tutto. Da nessun'altra parte ciò era più vero che nell'ultimo cortile imperiale del presidente Monroe. L'illusione che un impero sanguinario assolvesse una funzione civilizzatrice e la retorica stantia dei politici del Consenso di Washington dovevano disperdersi sui campi di battaglia dell'Iraq, sulle montagne dell'Afghanistan e, successivamente, in Libano. Tuttavia, i barlumi di una reale alternativa politica erano visibili solo in America Latina. Qui, nuovi movimenti sociali avevano fatto emergere nuovi leader politici. Costoro facevano notare che, malgrado il crollo dell'Unione Sovietica, il mondo continuava a trovarsi di fronte a vecchie scelte. O un rinvigorito capitalismo globale foriero di nuove guerre, nuova povertà, caos, anarchia, o un ripensato e ravvivato socialismo, democratico e capace di corrispondere ai bisogni dei poveri. Tali leader erano determinati a salvare l'incagliata nave «Utopia», ad avviare politiche più egualitarie, redistributive, e a coinvolgere i poveri nella vita politica della propria nazione. Per aver proclamato questi semplici obiettivi, furono coperti di calunnie e vilipesi. Il loro «crimine» consisteva nello sfidare le certezze del Nuovo Ordine, incuranti dei tanti divieti del Consenso di Washington. Un alleato di quel consenso può schiacciare i suoi avversari, tormentare e uccidere i prigionieri politici, mettere al bando i partiti rivali, vendere la metà dei beni della nazione per il proprio tornaconto personale e ricevere comunque l'approvazione della «comunità internazionale». Ma se un governo sfida le priorità del sistema globale nel nome di una rinvigorita democrazia e di una Costituzione ultrademocratica e, ancor peggio, continua a essere rieletto dai suoi ostinati cittadini, sarà diffamato e attaccato. Perché opporsi al Consenso di Washington equivale a essere accusati di «totalitarismo», e chi lo fa deve essere schiacciato: politicamente, ideologicamente e, se occorre, con la forza delle armi. Questo è il mondo nel quale viviamo, un mondo che Harold Pinter ha descritto con vigoroso sdegno. Questo era il mondo in cui Hugo Chávez Frías fu eletto per la prima volta presidente del Venezuela nel febbraio 1998. Quella accorsa a votare per lui era una maggioranza arrabbiata e decisa. Da dieci anni, la massa dei venezuelani si sentiva non rappresentata, sfarzosamente tradita dai partiti tradizionali. I dissidenti erano stati incarcerati, torturati e uccisi. L'oligarchia compiaciuta, boriosa e convinta della propria inoppugnabilità decise di darsi un tono di frivolezza, candidando l'ex Miss Universo Irene Sáez. Poi, avvicinandosi le elezioni, la scaricò a beneficio del più carismatico, anche se meno grazioso, cristiano-democratico Henrique Salas Romer, esperto ex governatore dello Stato di Carabobo. Perse anche lui. Sarebbero state necessarie meno scuse se l'oligarchia fosse rimasta fedele a Miss Venezuela. La vittoria di Chávez (che ottenne il 56,2% dei voti) rappresentò il riscatto dei diseredati. Prima di allora, l'America Latina era stata pressoché ignorata da Washington. Certo, Cuba si trovava ancora lì. Ma con la stretta mortale dell'embargo, il consenso doveva attendere che Fidel Castro fosse morto prima di fare una nuova mossa. Per il resto, le dittature si erano attentamente rimodellate in democrazie rappresentative: Brasile, Argentina e Cile facevano a gara nell'uniformarsi alle parole d'ordine del neoliberalismo. Libertà politica e mercato, separati per molti decenni dalla Guerra Fredda, potevano ora riconciliarsi e armonizzarsi. Il mondo smise di prestare attenzione al Sud America. Dalla crisi del peso messicano del 1994-95 in poi, tuttavia, una serie di tumulti finanziari (nell'est e nel sudest dell'Asia, in Russia, in Brasile e in Argentina) palesò la vacuità dei progetti neoliberali. La maggioranza dei venezuelani si oppose alle politiche economiche allora in vigore, consistenti in un assalto frontale ai poveri e ai meno abbienti allo scopo di sostenere una pomposa oligarchia parassitaria e una corrotta quanto reazionaria burocrazia civile e petrolifera. In particolare, l'opposizione mise in discussione l'uso che veniva fatto delle riserve di petrolio del Paese. Dimostrò di odiare l'arroganza dell'élite venezuelana, che faceva perno sulla ricchezza e sulla carnagione bianca per sostenere se stessa a spese della maggioranza povera di carnagione scura. Condannò la cieca parodia che questa stessa élite faceva dei valori sociali, politici, imperiali, culturali ed economici cari alla sua controparte statunitense. Tutto questo è ben noto. Nel 1998, era chiaro che tale oligarchia aveva fallito. Questa è la ragione per cui la popolazione elesse Hugo Chávez. Voleva porre fine alla corruzione, ai privilegi, alla sudditanza al Consenso di Washington. Solo quando divenne chiaro che Chávez era seriamente determinato ad attuare modesti ma importanti cambiamenti alla struttura sociale del Paese, per Washington scattò il segnale d'allarme. I satrapi imperiali, presi com'erano a fare soldi e/o ad assicurarsi una carriera politica, ideologica, accademica o giornalistica, detestavano ogni rottura proveniente dal basso. I nuovi convertiti al Consenso di Washington vale la pena di sottolinearlo di nuovo sono spesso quelli che maggiormente si accaniscono contro tutto ciò che ricorda loro il proprio passato. Mai l'esasperato fanatismo che emana da questo continente è stato più evidente che negli atti e nella propaganda contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela. Perciò, la sconfitta elettorale dei politici graditi all'oligarchia tradizionale suscitò le pesanti proteste di un riottoso gruppo di commentatori, uniti dai loro pregiudizi contro Chávez, il cui avvento al potere fu visto come un'insana aberrazione che interrompeva i rassicuranti e monotoni ritmi del mercato delle idee. Questo era il punto di vista promosso dal Dipartimento di Stato statunitense, e incessantemente ripetuto dalle sue propaggini mediatiche. I cambiamenti nella società venezuelana furono considerati come una regressione ai vecchi tempi, un primo passo sulla via del totalitarismo. I giornalisti integrati nel Nuovo Ordine Mondiale non erano interessati a contestualizzare quanto accadeva nel Paese. Per alcuni di essi non c'era motivo di conservare neppure una parvenza di oggettività. Altri, un tempo partigiani della Rivoluzione cubana e della guerriglia in Nicaragua, si erano stancati di lottare e, come abbiamo visto, cambiarono fronte. Le controversie attorno alla Costituzione venezuelana e alle sei vittorie democratiche dei bolivariani sarebbero state impossibili se non fosse stato per l'onda del disinganno di massa che aveva percorso il Paese dopo i ripetuti fallimenti dei socialdemocratici di Acción Democrática (AD) e dei cristiano-democratici del COPEI (Comité de Organización Politica Electoral Independiente). Questi ultimi avevano cominciato ormai ad assomigliare ai «gialli» e ai «blu» del Diciannovesimo secolo: liberali e conservatori che gareggiarono per il potere fra il 1847 e il 1870, senza offrire una reale possibilità di scelta al popolo. Se non mancavano nostalgici riferimenti ai vecchi politici e al loro innato senso della decenza, nessuno di questi «orfani» aveva abbastanza memoria da ricordare ai lettori e ai telespettatori gli eventi che avevano portato al trionfo dei bolivariani. I poveri del Venezuela erano stanchi di ascoltare promesse, stanchi dell'economia della Banca Mondiale. Erano febbricitanti per la fame. Volevano qualcosa di diverso, sia pure un po' pepato. E hanno avuto Hugo Chávez. Un Paese semisconosciuto alla maggior parte del pianeta cominciò a essere visto come un modello di governo. Questo revival della speranza e l'emergere di una modesta alternativa allo status quo allarmarono Washington. Di qui la sistematica disinformazione dei media privati. E di qui questo libro. | << | < | > | >> |Pagina 127Così, fu anche lui uno dei primi pirati dei Caraibi. La vita e le idee di Simón Bolívar, nato nel 1783 in un'epoca a cavallo fra la Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti e la Rivoluzione francese, risentirono sia pure in modo diverso dell'influenza di entrambi questi avvenimenti. Se era stato possibile cacciare gli inglesi dall'America per mano di un popolo che apparteneva alla loro stessa stirpe e religione, perché non si poteva fare altrettanto nel Sud con gli spagnoli? Trecento anni di governo coloniale, dalla caduta del Messico alla conquista del Perù, erano più che sufficienti. E se le idee e i principi dell'Illuminismo avevano costituito le fondamenta della Rivoluzione francese, non potevano assolvere lo stesso ruolo anche nell'America spagnola? Alcune di queste domande, Bolívar se le sarebbe poste in seguito, quando, viaggiando per l'Europa, avrebbe confrontato la decadenza e il letargo della corte di Madrid al fermento della Parigi rivoluzionaria, sia pure alla vigilia dell'incoronazione di Napoleone. Sino alla sconfitta finale di Bonaparte e all'avvento della Restaurazione, Parigi continuò a essere un centro qualitativamente superiore a Madrid e quantitativamente a Filadelfia. E poi, naturalmente, c'era Londra una capitale scaltra, infida e opportunista che non poteva essere ignorata. Malgrado la perdita della colonia americana, Londra rimaneva capitale di un solido impero in crescita e, quel che più conta, vantava un predominio sul mare all'epoca incontrastabile. Anche per questa sola ragione, gli inglesi avrebbero dovuto essere sensibili alla causa dell'Indipendenza dell'America del Sud, e ricordarsi dei propri interessi imperiali nel continente. Fra tutti i leader rivoluzionari emersi in Europa e nelle Americhe durante il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo, Bolívar fu quello che coltivò gli obiettivi politici più ambiziosi. Lo scopo per cui si batteva era niente meno che la liberazione e l'unificazione dell'intero continente di lingua spagnola. Senza dubbio, San Martin, O'Higgins e Sucre furono generali brillanti. Ma Bolívar li superava di gran lunga in capacità strategiche. L'esperienza gli aveva insegnato che, se si consentiva anche a una sola base spagnola di rimanere nel continente, questa sarebbe stata un punto focale della controrivoluzione. Per quindici anni, egli ha condotto un'epica resistenza contro l'Impero spagnolo, guidando una serie di lunghe marce attraverso le Ande senza eguali nella storia anticoloniale, e infine nel 1825 riuscì a espellere i viceré e i comandanti dell'esercito della Corona. Ma, benché il movimento di liberazione fosse riuscito a controllare una regione cinque volte più estesa dell'Europa, l'unificazione del continente rimaneva una meta lontana. Sia l'idea dell'unità sia il suo ideatore caddero davanti alla morte. Nel 1830, quando ormai giaceva morente a causa della tubercolosi in una remota casa colonica di Santa Marta, circondato da pochi fedeli amici e seguaci, lontano dalle città che aveva liberato, Bolívar disse che lottare per l'unificazione dell'America Latina equivaleva ad «arare il mare». E non si stancava di ripetere che bisognava ricominciare tutto dall'inizio. Nonostante le sue straordinarie imprese, la sinistra ortodossa americana e di altre parti del mondo ha fondamentalmente evitato il confronto con la figura di Bolívar, prendendo per vangelo il disinformato giudizio critico espresso su di lui da Karl Marx. Questo atteggiamento è sopravvissuto sino a poco tempo fa. Eppure l'ascesa, il declino e la caduta di Bolívar rappresentano un'epopea di dimensioni schilleriane nella quale si intrecciano politica, passioni, guerre, trionfi e tradimenti. Thomas Carlyle disse che, come Ulisse, Bolívar aveva bisogno di un Omero che gli restituisse giustizia. Lo scrittore più adatto a questo scopo è certamente Gabriel García Màrquez: Il generale nel suo labirinto è infatti un affascinante romanzo storico che per ricchezza di dettagli e di intuizioni psicologiche dovrebbe fare invidia a tutti i biografi. Per molti aspetti anzi ne supera di gran lunga l'opera, anche considerata nel suo insieme. Gli avvenimenti della vita di Bolívar sono ben noti. Fu del resto un prodigioso scrittore, che ci ha lasciato volumi di lettere, diari e dichiarazioni. Inoltre, uno dei suoi aiutanti, Daniel Florencio O'Leary, ha annotato giorno dopo giorno una gran quantità di fatti della sua vita e delle sue campagne militari, poi raccolti in trentaquattro volumi: una sorta di carta di navigazione che, nonostante alcuni passaggi contraddittori, è una lettura imprescindibile per ogni biografia. Anche a partire da queste sole note, la ricostruzione della vita di Bolívar non sarebbe un'impresa tanto faticosa. Ciascuno dei tre biografi del Libertador ha sottolineato differenti aspetti della sua giovinezza e proposto interpretazioni diverse delle circostanze che hanno portato un giovane di famiglia agiata che avrebbe potuto vivere senza preoccupazioni ad abbracciare posizioni radicali. Il racconto di Gerhard Masur della vacua condotta di vita dell'aristocrazia creola, che duecento anni di guerra o rivoluzione non avevano cambiato, conserva la sua forza: Il lusso, gli sprechi, l'indolenza e il piacere caratterizzavano la vita della superiore classe bianca... Essi conducevano un'ingloriosa vita da poltroni, circondati da una schiera di schiavi e privi di ogni contatto col resto del mondo, in un ambiente in cui l'ozio era ameno. Ma ciò che sorprende non sono tanto queste abitudini, bensì il fatto che le loro abitudini non degenerarono più di quanto avrebbero potuto...
Come è accaduto che il giovane Bolívar, appartenente a una delle più
ricche famiglie schiavistiche del Venezuela, sia riuscito a emanciparsi dal
suo atrofizzato e corrotto ambiente? Rimasto orfano in tenera età (aveva
tre anni quando perse il padre e nove quando morì la madre), con tre
fratelli più grandi, fu affidato alle cure di uno zio, che egli detestava. Visse
abbandonato al proprio arbitrio e alle proprie fantasie finché lo zio e
tutore non decise che il ragazzo dovesse ricevere un'istruzione, e nel
1793 lo inviò all'Escuela Pública di Caracas. Bolívar detestava anche
quell'ambiente, e ben presto scappò di lì trovando rifugio nell'abitazione di
una delle sorelle maggiori. Alla fine, si convinse a vivere per un certo tempo
con il suo insegnante, Simón Rodríguez. Costui era un seguace della Rivoluzione
francese, fervente anticlericale, rivoluzionario e difensore dell'amore libero,
che a un certo punto aveva scritto a un amico:
«Per favore, restituiscimi subito mia moglie. Ho bisogno di lei per lo
stesso motivo per cui ne hai bisogno tu». Dopo la scoperta di una congiura
insurrezionale, Rodríguez era stato costretto a fuggire dal Venezuela e,
cambiato il nome in Robinson (in omaggio al protagonista del
romanzo di Defoe), errò come un vagabondo per l'Europa.
In Francia, il giovane Rodríguez aveva scoperto le opere di Holbach e di Rousseau, e per il resto della sua vita sarebbe stato uno strenuo difensore di questi autori. Nel giovane Bolívar, un ragazzo intelligente e di mente aperta, Rodríguez trovò il suo Emilio, e gli riempì la testa di un misto di filosofia francese e di eroici racconti di resistenza e di lotta. Gli parlava della recente ribellione di Túpac Amaru in Perù, di come avesse preso l'impero di sorpresa, di come fosse stato tradito dai suoi stessi uomini e delle punizioni che gli erano state inflitte: lo sconfitto leader inca infatti fu pubblicamente torturato e ucciso dai soldati del re spagnolo, mentre l'aristocrazia creola osservava dall'alto delle proprie carrozze. Tutto ciò lasciò il segno in Bolívar, che col tempo s'appassionò a sua volta a Rousseau al punto da scrivere al vecchio tutore: «Ho ripercorso la strada che tu mi hai mostrato... Hai educato il mio cuore alla libertà, alla giustizia, alla grandezza e alla bellezza». Anni dopo, un delegato britannico, al corrente delle ambizioni del generale, portò in regalo a Bolívar una minuscola porzione del bottino di guerra raccolto dopo Waterloo: la copia del Contratto Sociale posseduta da Napoleone. I britannici non si facevano certo molte illusioni su quelle che erano le reali simpatie del generale. D'altra parte, Rodríguez aveva infuso nel ragazzo un ateismo e una diffidenza verso la religione che durarono per tutta la vita. Quando arrivò per la prima volta a Madrid nel 1799, abbigliato di tutto punto come si addice a un aristocratico creolo, il sedicenne Simón Bolívar fu calorosamente accolto dall'alta società, ammirò i lussi della corte e venne festeggiato in grande stile dai parenti. Qui, grazie al marchese di Ustariz, un colto funzionario spagnolo di origine venezuelana, ricevette l'istruzione superiore. Ma ben presto, anche in seguito a uno spiacevole incontro con alcuni ufficiali, il ragazzo comprese che in Spagna un creolo delle colonie non sarebbe mai stato trattato alla pari, neppure se aveva la carnagione chiara (e non era il caso di Bolívar). Nella penisola, dopo la Reconquista, la limpìeza (la purezza di sangue) era diventata una vera ossessione. Ciononostante, l'idea di prender parte a una ribellione contro il governo spagnolo nelle Americhe o di fomentarla egli stesso non gli era ancora passata per la mente. | << | < | > | >> |Pagina 138E oggi? In alcune pagine conclusive del suo libro, John Lynch (il più recente biografo di Bolívar) lascia affiorare i suoi pregiudizi ideologici:Nel 1998, i venezuelani rimasero sorpresi venendo a sapere che il loro Paese era stato ribattezzato «Repubblica Bolivariana del Venezuela» per decreto del presidente Hugo Chávez, il quale si definì «bolivariano rivoluzionario». Populisti autoritari, neo-caudillos o militaristi bolivariani, tutti si richiamano a Bolívar con lo stesso ardore dei governanti precedenti, sebbene non sia affatto sicuro che il Libertador avrebbe risposto ai loro appelli... Questi sono i protagonisti di quella che Lynch chiama la «nuova eresia», di cui fa parte anche Castro, a suo giudizio, un malfattore peggiore persino di Chávez. Vale la pena tuttavia di osservare che non tutti i venezuelani furono sorpresi dal nuovo nome dato alla loro repubblica, visto che Chávez lo aveva già proposto pubblicamente. Cosa ancora più importante, Chávez è un presidente eletto, che ha ottenuto il consenso della maggioranza dei venezuelani in cinque differenti occasioni. Se sia un bolivariano o meno, è una questione di opinione. Certo, nel suo desiderio di unificazione continentale, nella sua opposizione al nuovissimo impero previsto anche da Bolívar nella sua presa su tutta l'America Latina (che gli ha assicurato un vasto sostegno in occasione dei tre tentativi di rimuoverlo dal governo), nei suoi appelli diretti a tutti i sudamericani e nella sua popolarità in altri luoghi del mondo, si riscontrano indubbie analogie con il Libertador. Anche il fatto che Chávez sia aborrito dall'oligarchia creola venezuelana è qualcosa che il Libertador avrebbe potuto comprendere. In effetti, come osserva Lynch, l'incapacità di Bolívar di dialogare con gli schiavi e la popolazione indigena fu una tragica debolezza. Chávez e Morales stanno cercando con qualche successo di tenere aperto il dialogo con fasce sociali più ampie, ed è questo che li rende impopolari agli occhi delle élite tradizionali. Lynch scrive che Bolívar «non era servo del liberalismo economico e non fu mai un dottrinario. Riteneva che lo Stato dovesse assolvere un ruolo più ampio e positivo di quello previsto dal liberalismo classico, e sotto questo profilo ha mostrato una ragguardevole consapevolezza degli specifici problemi del sottosviluppo». In questa luce, Bolivar e Chávez appaiono molto vicini, tanto più che Chávez si trova alle prese con i medesimi problemi di due secoli prima. Come ha osservato di recente uno storico recensendo il libro di Lynch: «Eppure c'è, forse, qualcosa di Bolívar in Chávez. Il commentatore politico venezuelano Alberto Garrido ha descritto il presidente venezuelano come un uomo "tatticamente pragmatico, ma strategicamente ossessivo". Θ una descrizione che calzerebbe a pennello anche per il Libertador». Le critiche che a Bolívar ha mosso William Burroughs, nel loro surrealismo pre-postmoderno, possono al massimo suscitare qualche sorriso. Probabilmente, il romanziere era alticcio quando ha scritto che, dato il potere del linguaggio, le ragioni del fallimento definitivo di Bolívar nel tentativo di liberare il Sud America risiedono nella sua incapacità di liberarsi degli spagnoli. I cinesi, osserva, avrebbero liberato le masse psicologicamente. Per il resto, l'alternativa è chiara. O ci si piega al Consenso di Washington o si tenta di creare un programma completamente diverso che dia priorità ai bisogni umani e non ai valori del mercato. Senza dubbio, John Lynch è abbastanza soddisfatto dello status quo. La maggioranza dei venezuelani e dei boliviani no. Ma questo non basta a trasformare automaticamente i leader che essi eleggono in politici «autoritari», quando non fanno altro che realizzare il programma politico in base al quale hanno raccolto i voti. L'improvviso risveglio di interesse per Bolívar è stato certamente favorito dalla comparsa sulla scena mondiale di Hugo Chávez. Se non fosse stato per lui, chi avrebbe commissionato a John Lynch una nuova biografia? Il fatto è che il Sud America è di nuovo in marcia, e dà speranza a un mondo ancora profondamente intorpidito dal neoliberismo o sottoposto al saccheggio militare ed economico del Nuovo Ordine. Il continente riecheggia del ricordo delle lotte passate, e si è affermata una nuova ondata di leader e militanti consapevoli dell'importanza di quelle battaglie. La storia non si ripete, ma neppure dovrebbe essere ignorata. Deve essere capita e assimilata. Bolívar stesso ha sempre consigliato di non cedere alla disperazione o alla capitolazione politica. Se è necessario, sosteneva, passa un colpo di spugna e ricomincia da capo. E quel che sta avvenendo di nuovo in questo continente: i vecchi sorrisi stanchi sulle labbra dei veterani vengono rimpiazzati dal fragore di una nuova risata proveniente dal basso. La speranza è rinata, e questo vuol dire che la battaglia è per metà già vinta. | << | < | > | >> |Pagina 246Vostre eccellenze, amiche e amici, buon pomeriggio. L'originale proposito di questo meeting è stato completamente distorto. Ci è stato imposto come centro della discussione un cosiddetto processo per le riforme che ottenebra la questione più pressante, quella che i popoli del mondo reclamano con urgenza: l'adozione di misure adatte a fronteggiare i reali problemi che ostacolano e sabotano gli sforzi compiuti dai nostri Paesi per la vita e per un vero sviluppo. Cinque anni dopo il Millennium Summit, la sgradevole realtà è che la stragrande maggioranza degli obiettivi fissati, per quanto assai modesti, non sarà raggiunta. Pretendevamo di ridurre della metà, entro il 2015, gli 842 milioni di affamati. Secondo l'attuale ritmo, l'obiettivo lo raggiungeremo forse nel 2215. Chi dei presenti sarà ancora vivo per rallegrarsene? Sempre ammesso che la specie umana saprà sopravvivere alla distruzione che minaccia il nostro ambiente naturale. Avevamo affermato la nostra ambizione di assicurare un'istruzione primaria a tutti entro il 2015. Secondo l'attuale ritmo, raggiungeremo l'obiettivo dopo il 2100. Prepariamoci, dunque, a far festa. Amiche e amici del mondo, questi ritardi portano a una triste conclusione: le Nazioni Unite hanno esaurito il loro modello, e non è solo una questione di riforme. Il Ventunesimo secolo esige profondi cambiamenti che saranno possibili solo a condizione di fondare una nuova organizzazione. Le attuali Nazioni Unite non funzionano. Dobbiamo dirlo. Θ la verità. Secondo noi, queste trasformazioni (quelle alle quali si riferisce il Venezuela) hanno due fasi: quella dell'immediato e quella delle aspirazioni, dell'utopia. La prima è foggiata dagli accordi che abbiamo siglato all'interno del vecchio schema. Noi non rifuggiamo da tali accordi. Anzi, nel breve termine avanziamo proposte concrete volte a migliorare quel modello. Ma il sogno di una pace mondiale duratura, il sogno di un mondo che non ha da vergognarsi della fame, delle malattie, dell'analfabetismo e dell'estremo bisogno, necessita oltre che di radici anche di ali per volare. Θ necessario dispiegare le ali per spiccare il volo. Siamo consapevoli dell'esistenza di una spaventosa globalizzazione neoliberale. Ma esiste anche un mondo interconnesso che dobbiamo affrontare non come un problema, bensì come una sfida. Sulla base delle realtà nazionali, possiamo scambiarci le conoscenze, integrare i mercati, restare interconnessi. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo comprendere che vi sono problemi che non hanno una soluzione nazionale: le nubi radioattive, il prezzo mondiale del petrolio, le malattie, il riscaldamento del pianeta o il buco dell'ozono, tutti questi non sono problemi nazionali. Mentre procediamo verso un nuovo modello di Nazioni Unite che comprenda tutti noi quando si parla di popolo, avanziamo a questa Assemblea quattro proposte di riforme indispensabili e urgenti. La prima è l'allargamento del numero dei membri permanenti e non permanenti del Consiglio di Sicurezza, in modo da consentire l'ingresso nell'una e nell'altra categoria ai nuovi Paesi sviluppati o in via di sviluppo. In secondo luogo abbiamo bisogno di garantire il necessario miglioramento della metodologia di lavoro al fine di accrescere la trasparenza, non di ridurla. In terzo luogo, abbiamo bisogno di abolire immediatamente in Venezuela lo abbiamo ripetuto tante volte nei sei anni passati il veto alle decisioni prese dal Consiglio di Sicurezza, perché questo rimasuglio elitario è incompatibile con la democrazia, incompatibile con i principi di eguaglianza e di democrazia. In quarto luogo, abbiamo bisogno di rafforzare il ruolo del Segretario Generale. Occorre che le sue funzioni politiche riguardo alla diplomazia preventiva siano consolidate. La gravità di tutti i nostri problemi esige trasformazioni profonde. Le pure e semplici riforme non sono sufficienti a restituirci ciò che «noi», i popoli del mondo, ci attendiamo. Più che di pure e semplici riforme, noi in Venezuela avvertiamo il bisogno di costituire delle nuove Nazioni Unite. Come ha detto Simón Rodríguez, insegnante di Simón Bolívar: «O inventiamo o sbagliamo». Al World Social Forum di Porto Alegre, lo scorso gennaio, diverse personalità hanno chiesto che la sede dell'ONU fosse trasferita fuori dagli Stati Uniti, nel caso in cui fossero continuate le ripetute violazioni alla legge internazionale. Oggi sappiamo che non c'era nessuna arma di distruzione di massa in Iraq. La popolazione degli Stati Uniti è sempre stata molto rigorosa nell'esigere la verità dai propri governanti. I popoli del mondo domandano la stessa cosa. Non ci sono mai state armi di distruzione di massa. E tuttavia l'Iraq è stato bombardato e occupato, e lo è ancora. Tutto ciò si è verificato al di sopra delle Nazioni Unite. Questo è il motivo per cui proponiamo a questa Assemblea che l'ONU abbandoni un Paese che non rispetta le risoluzioni prese da questa stessa Assemblea. Alcuni hanno proposto Gerusalemme come città internazionale alternativa. La proposta è abbastanza generosa da suggerire una risposta all'attuale conflitto che dilania la Palestina. Ciononostante, possono esserci talune caratteristiche che rendono molto difficile realizzarla. Perciò, avanziamo una proposta fatta nel 1815 da Simón Bolívar, il grande Libertador del Sud. In quell'occasione, Bolívar propose la creazione di una città internazionale che facesse propria l'idea di unità. Noi crediamo che sia venuto il momento di pensare alla creazione di una città internazionale con una sua propria sovranità, una sua forza e una sua morale che le permettano di rappresentare le nazioni del mondo. Questa città internazionale dovrà riequilibrare cinque secoli di squilibrio. La sede centrale dell'ONU deve collocarsi nel Sud. Signore e signori, noi oggi ci troviamo di fronte a una crisi energetica senza precedenti dovuta all'inarrestabile incremento del consumo di energia che sta raggiungendo pericolosamente livelli record, nonché all'incapacità di incrementare la fornitura di petrolio e alla prospettiva di un declino delle attuali riserve di combustibili presenti in tutto il mondo. Il petrolio comincia a esaurirsi. Nel 2020 la domanda giornaliera di petrolio sarà di 120 milioni di barili. Anche senza considerare i futuri incrementi della domanda, ciò vuol dire che in vent'anni consumeremo quanto l'umanità ha consumato sino a oggi. Questo significa che le emissioni di biossido di carbonio aumenteranno inevitabilmente, riscaldando ancor più il nostro pianeta. L'uragano Katrina è stato un esempio doloroso del costo che saremo costretti a pagare ignorando tali realtà. Il riscaldamento degli oceani è il fattore fondamentale che sta dietro al distruttivo incremento della forza degli uragani, di cui siamo testimoni oggi. Lasciatemi cogliere l'occasione per rivolgere le nostre più sentite condoglianze alla popolazione degli Stati Uniti. Sono fratelli e sorelle di tutti, in America e in ogni altro Paese del mondo. Θ controproducente e immorale sacrificare la specie umana appellandosi in modo insano alla validità di un modello socio-economico che possiede una galoppante capacità distruttiva. Sarebbe suicida diffonderlo e imporlo come infallibile rimedio ai mali che esso stesso ha creato. Non molto tempo fa, a un meeting dell'Organizzazione degli Stati Americani, il presidente degli Stati Uniti ha proposto all'America Latina e ai Caraibi di incrementare le proprie politiche di mercato e la propria politica di apertura al mercato: ovverosia al neoliberismo. Quando è noto che sono precisamente queste le cause sostanziali dei grandi mali e delle grandi tragedie di cui soffre oggi il nostro popolo: il capitalismo neoliberale, il Consenso di Washington. Quel che essi hanno generato per i popoli di questo continente è unicamente un maggior tasso di miseria, una maggiore disuguaglianza e un'infinita tragedia. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno più che mai, signor presidente, è un nuovo ordine internazionale. Ricordiamoci della sesta sessione straordinaria dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, convocata nel 1974 (trentun anni fa), dove fu adottato il programma d'azione del nuovo Ordine Economico Internazionale e fu approvata a larghissima maggioranza la Carta dei Diritti e dei Doveri Economici degli Stati (che ottenne 120 voti a favore, 6 contrari e 10 astenuti). Questa era un'epoca in cui alle Nazioni Unite si poteva ancora votare. Oggi, non si vota più. Oggi, vengono approvati documenti come questo, che a nome del Venezuela dichiaro nullo, inutile e illegittimo. Questo documento è stato approvato in violazione delle norme vigenti alle Nazioni Unite. Questo è un documento privo di valore! Questo documento andrebbe discusso. Il Governo del Venezuela lo renderà pubblico. Non possiamo accettare una scoperta quanto spudorata dittatura alle Nazioni Unite. Si dovrebbe discutere di questi argomenti, ed è appunto questo il senso dell'istanza che presento ai miei colleghi, capi di Stato e capi di governo. Vengo da una riunione con il presidente Néstor Kirchner. Ebbene, gli ho mostrato questo documento. Θ stato consegnato cinque minuti prima alla nostra delegazione, nella sola redazione in inglese. Questo documento è stato approvato per mezzo di un maglio dittatoriale, che qui denuncio come illegale, nullo, inutile e illegittimo. Ascolti, signor presidente, se noi lo accettassimo, saremmo spacciati. Ci farebbe spegnere le luci, chiudere le porte e le finestre! Sarebbe inconcepibile: accettare qui una dittatura, in questa sala. Oggi più che mai dicevamo abbiamo bisogno di riprendere idee che ci siamo lasciati alle spalle per strada, come la proposta di un Nuovo Ordine Economico Internazionale approvata in questa Assemblea nel 1974. L'Articolo 2 di quel testo riconosce il diritto degli Stati a nazionalizzare le proprietà e le risorse naturali che appartengono agli investitori stranieri. Inoltre, propone di creare cartelli di produttori di materie prime. Nella risoluzione 3201 del maggio 1974, l'Assemblea ha espresso la propria volontà di agire con la massima urgenza al fine di creare un Nuovo Ordine Economico Internazionale fondato vi prego di ascoltarmi attentamente «sull'equità, l'eguaglianza sovrana, l'interdipendenza, l'interesse comune e la cooperazione fra tutti gli Stati, indipendentemente da loro sistema economico-sociale, e ciò nello sforzo di correggere le disuguaglianze e di porre rimedio alle ingiustizie fra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo, assicurando pertanto alle generazioni presenti e future la pace, la giustizia e uno sviluppo economico-sociale che cresca a ritmo sostenibile». Il principale obiettivo del Nuovo Ordine Economico Internazionale era modificare il vecchio ordine economico concepito a Bretton Woods. Noi, il popolo, oggi chiediamo e questo è il caso del Venezuela un nuovo ordine economico internazionale. Ma è altresì urgente dare vita a un nuovo ordine politico internazionale. Non permettiamo a poche nazioni di reinterpretare i principi del diritto internazionale allo scopo di imporre nuove dottrine quali la «guerra preventiva». Oh, ora, ci minacciano con la guerra preventiva! E che dire della dottrina della «responsabilità di proteggere». Dobbiamo domandarcelo. Chi ci proteggerà? E come ci proteggeranno? Io credo che una delle nazioni che ha più bisogno di protezione siano proprio gli Stati Uniti. Lo si è drammaticamente visto con la tragedia provocata dall'uragano Katrina. Gli Stati Uniti non hanno un governo che li protegga dai disastri naturali annunciati, se ciò di cui stiamo parlando è proteggerci a vicenda. Questi sono concetti molto pericolosi perché, mentre cercano di legalizzare la violazione della sovranità nazionale, alimentano l'imperialismo e l'interventismo. Il pieno rispetto dei principi del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite dev'essere, signor presidente, la chiave di volta delle relazioni internazionali nel mondo di oggi e la base del nuovo ordine che stiamo proponendo. Θ urgente combattere in maniera efficace il terrorismo internazionale. Nondimeno, non dobbiamo usarlo come scusa per scatenare ingiustificate aggressioni militari che violano il diritto internazionale. Una scusa è diventata appunto la dottrina che ha fatto seguito ai fatti dell'11 settembre 2001. Solo una vera e compatta cooperazione e la fine della doppiezza che alcuni Paesi del Nord dimostrano verso il terrorismo potranno porre termine a questa orribile calamità. Dopo solo sette anni dall'inizio della rivoluzione bolivariana, il popolo venezuelano può affermare di aver realizzato importanti progressi sociali ed economici. Un milione e quattrocentoseimila venezuelani hanno imparato a leggere e a scrivere. Siamo 25 milioni in totale. Fra pochi giorni, il Paese sarà dichiarato territorio libero dall'analfabetismo. E 3 milioni di venezuelani, in precedenza esclusi dagli studi a causa della povertà, oggi sono iscritti alla scuola primaria, a quella secondaria e all'università. Diciassette milioni di venezuelani quasi il 70% della popolazione ricevono per la prima volta un'assistenza medica gratuita, comprese le medicine, e fra pochi anni tutti i venezuelani avranno accesso gratuito a un servizio medico d'eccellenza. Oltre un milione e settecentomila tonnellate di alimenti sono distribuiti a prezzi agevolati a 12 milioni di persone, quasi la metà della popolazione. A un milione sono distribuiti, in via transitoria, in modo completamente gratuito. Abbiamo creato più di 700 mila posti di lavoro, riducendo in questo modo la disoccupazione di 9 punti percentuali. Tutto ciò nel mezzo di aggressioni interne ed esterne, compresi un colpo di Stato e una serrata dell'industria petrolifera organizzati da Washington. Senza contare le cospirazioni, le menzogne diffuse dai media e la permanente minaccia dell'impero e dei suoi alleati, che si sono addirittura spinti a chiedere l'assassinio del presidente. L'unico Paese dove qualcuno può permettersi il lusso di chiedere l'assassinio di un altro capo di Stato sono gli Stati Uniti. Ed è quanto è accaduto di recente con il reverendo Pat Robertson, amico molto intimo della Casa Bianca, che ha pubblicamente chiesto il mio assassinio, e se ne va ancora in giro a piede libero. Questo è terrorismo internazionale!
Noi lotteremo per il Venezuela, per l'integrazione dell'America Latina e del
mondo. Riaffermiamo la nostra infinita fiducia nel genere umano. Siamo assetati
di pace e di giustizia al fine di sopravvivere come specie. Simón Bolívar, padre
fondatore della nostra patria e guida della nostra rivoluzione, giurò che le sue
mani non sarebbero mai rimaste inoperose e la sua anima non avrebbe avuto riposo
fino a che non avesse infranto le catene che ci tengono avvinghiati all'impero.
Oggi, tocca a noi non lasciare inoperose le nostre mani e non concedere riposo
alle nostre anime finché non avremo salvato l'umanità.
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