Copertina
Autore Isabel Allende
Titolo Il piano infinito
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1992, I Narratori , Isbn 978-88-07-01440-6
OriginaleEl plan infinito [1991]
TraduttoreEdda Cicogna, Gianni Guadalupi
LettoreRenato di Stefano, 1992
Classe narrativa cilena
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Pagina 11 [ inizio libro ]

Andavano per le vie dell'ovest senza fretta e senza meta precisa, mutando rotta secondo il capriccio di un istante, al segnale premonitore di un stormo d'uccelli, alla tentazione di un nome ignoto. I Reeves interrompevano il loro erratico peregrinare ove li cogliesse la stanchezza o incontrassero qualcuno disposto ad acquistare la loro impalpabile mercanzia. Vendevano speranza. Così percorsero il deserto nell'una e nell'altra direzione, valicarono le montagne e una mattina videro apparire il giorno su una spiaggia del Pacifico. Più di quarant'anni dopo, nella lunga confessione in cui passò in rassegna la propria esistenza e tirò le somme dei suoi errori e successi, Gregory Reeves rievocò per me il suo ricordo più antico: un bimbo di quattro anni, lui stesso, che fa la pipí su una collina al tramonto, l'orizzonte tinto di rosso e ambra dagli ultimi raggi del sole, alle spalle le sommità dei monti e giù in basso una vasta piana dove il suo sguardo si perde. Il liquido caldo sgorga come un'essenza del suo corpo e del suo spirito, ogni goccia, immergendosi nella terra, marca il territorio con il suo segno. Il bimbo prolunga il piacere, gioca con lo zampillo, tracciando un cerchio color topazio nella polvere, assorbe l'intatta pace della sera, lo compenetra l'immensità del mondo con un sentimento di euforia, perché lui è parte di quel paesaggio nitido e colmo di meraviglie, incommensurabile geografia tutta da esplorare. A breve distanza la famiglia lo attende. Si sente bene, per la prima volta ha coscienza della felicità: è un momento che non dimenticherà mai.

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Pagina 180

E rabbia. Dovrei provare odio, però nonostante l'addestramento, la propaganda e ciò che vedo e mi raccontano, non riesco a provare l'odio necessario: colpa di mia madre, forse, che mi riempi la testa di prediche Bahai, o colpa degli amici del villaggio, che mi insegnarono a vedere ciò che abbiamo in comune e a dimenticare le differenze. Niente odio, ma rabbia si, tanta, un'ira tenace contro tutti, contro il nemico, quei caproni che si muovevano sotto terra come topi e si moltiplicavano con la stessa velocità con cui noi li sterminavamo, apparentemente uguali agli uomini e alle donne che mi invitavano a mangiare nelle loro case al villaggio. Rabbia contro ciascuno dei corrotti bastardi che si arricchiscono in questa guerra, contro i politici e i generali, le loro mappe e le loro calcolatrici, il loro caffè caldo, i loro errori portatori di morte e la loro infinita superbia; contro i burocrati e le loro liste di sconfitte, numeri in lunghe colonne, sacchi di plastica in interminabili file; contro quelli che sono rimasti a casa e bruciano le loro cartoline d'arruolamento e contro quelli che agitano bandiere e ci applaudono quando compariamo sullo schermo del televisore e non sanno neppure perché ci stiamo ammazzando. Carne da cannone o eroici difensori della libertà, ci chiamano quei figli di puttana, nessuno è capace di pronunciare i nomi dei posti dove noi cadiamo, ma tutti giudicano, tutti hanno le loro idee in proposito. Idee! E' quello di cui sentiamo meno la mancanza qui, maledette idee. E rabbia contro queste cateratte di acqua, questa pioggia che inzuppa e imputridisce ogni cosa, questo clima di un altro mondo in cui noi geliamo o bruciamo alternativamente, contro questo paese raso al suolo e la sua giungla che ci sfida. Stiamo vincendo, ovviamente, così mi dice sempre Leo Galupi, il re del mercato nero, che portò a termine i suoi due anni di servizio e poi tornò per fermarsi e non pensa mai ad andarsene perché questo puttanaio lo affascina e inoltre sta diventando miliardario vendendo a noi oggetti d'avorio di contrabbando e agli altri i nostri calzini e deodoranti. Da ogni scontro usciamo vincitori, secondo Galupi, non so allora perché proviamo questa sensazione di sconfitta. Il bene trionfa sempre, come al cinema, e noi siamo i buoni, no? Controlliamo il cielo e il mare, possiamo ridurre in cenere questo paese, e lasciare sulla mappa un solo cratere, un immenso forno crematorio dove niente nascerà per un milione di anni, è solo questione di premere il famoso bottone, più facile che a Hiroshima, si ricorda ancora, mamma, o lo ha già dimenticato? Da anni non ne parla, ora che è vecchia, di che cosa parla con il fantasma di mio padre? Quelle bombe sono fuori moda, ne abbiamo altre che uccidono di più e meglio, che le sembra, eh? Ma le guerre non si vincono né in aria né sull'acqua, si vincono sulla terra, palmo a palmo, uomo contro uomo. Brutalità estrema. Perché non lanciamo un attacco nucleare per vedere se possiamo tornare a casa una volta per tutte, dicono i Marine alla seconda birra. Non voglio trovarmi in questi paraggi quando lo facciamo. Non devo pensare agli amici scomparsi, saltati in aria, i casali in fiamme, le torme dei rifugiati, i monaci che ardono nella benzina; neppure a Juan José Morales o al povero ragazzo del Kansas, né ricordarmi di mia figlia ogni volta che vedo una di queste creature piene di cicatrici, accecate, bruciate. L'unica cosa cui devo pensare è uscire vivo da qui, non c'è posto per i sentimentalismi, uscire vivo, solo questo. Non posso guardare nessuno negli occhi, siamo stati segnati dalla morte, mi spaventano gli occhi vuoti di questi ragazzi di diciott'anni, ognuno con un nero abisso nello sguardo.

Ci circondano, conoscono nei dettagli le nostre intenzioni, ascoltano i nostri sussurri, ci fiutano, ci seguono, ci sorvegliano, aspettano. Non hanno alternative vincere o morire, non si chiedono che merda facciamo qui, sono nati in questa terra da migliaia d'anni e combattono da almeno cento. Il bimbetto che ci vende frutta, la donna priva di orecchie che ci guida ai bordelli, il vecchio che brucia la spazzatura, tutti sono nemici. O forse nessuno lo è. Nei tre mesi passati al villaggio ritornai a essere un uomo, non un guerriero, un uomo, ma ora sono nuovamente un animale inseguito. E se fosse un incubo? Un incubo... presto mi sveglierò in un nitido deserto, per mano a mio padre, guardando il tramonto. Qui i cieli sono maestosi, l'unica cosa che la guerra non abbia devastato. Le albe sono lunghe e il sole si muove lentamente, arancio, porpora, giallo, il sole è un disco enorme di oro puro.

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Pagina 191

Passai i primi tre giorni chiuso nel motel davanti al televisore con diverse cassette di birra e bottiglie di whisky, poi me ne andai sulla spiaggia con un sacco a pelo e rimasi due settimane a guardare il mare, fumando erba e chiacchierando col fantasma di Juan José. L'acqua era fredda, ma nuotavo ugualmente fino a sentire il sangue congelato nelle vene e il cervello intorpidito, senza ricordi, vuoto. Laggiù il mare è tiepido, la sabbia formicolava di soldati, tre giorni di gioco, birra e rock per compensare mesi di lotta. Per due settimane non pronunciai una frase completa con nessuno, solo grugniti per chiedere una pizza o un hamburger, credo che in fondo desiderassi tornare in Vietnam perché almeno al fronte avevo dei compagni e qualcosa da fare, qui ero senza amici, solo, non appartenevo a nessun posto. Nella vita civile nessuno parlava il linguaggio della guerra, non esisteva un vocabolario per narrare le esperienze del campo di battaglia, ma se anche lo avessi avuto, non c'era comunque chi desiderasse ascoltare la mia storia, non c'è interesse per le cattive notizie. Solo tra ex combattenti potevo sentirmi in confidenza e parlare di cose che mai direi a un civile, loro capirebbero perché uno si nega ai sentimenti e ha paura di avvicinarsi, sanno che il coraggio fisico è molto più semplice di quello emotivo, perché anche loro hanno perso amici cari come fratelli e sono decisi a risparmiarsi per il futuro quel dolore insostenibile, meglio non amare nessuno con troppa intensità. Senza accorgermene incominciai a rotolare in quell'abisso dove tanti si perdono, incominciai a scorgere il lato entusiasmante della violenza, a pensare che non mi sarebbe più accaduto nulla di tanto appassionante, che forse il resto della mia esistenza sarebbe stato un grigio deserto.

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Pagina 326 [ fine libro ]

"Cosa dici, amico?"

"Mi sono preso la libertà di telefonare a Roma alla sua amica Carmen Morales. Ci darà una buona somma. Inoltre ho uno zio banchiere disposto a concederci un prestito. A questo punto possiamo trattare. Se dichiariamo bancarotta gli altri non prenderanno niente, hanno convenienza a concedere facilitazioni e a pazientare."

"Non posso offrire nessuna garanzia."

"Tra cinesi basta la parola d'onore. Carmen ha detto che lei l'ha finanziata da quando avevate sei anni, adesso spetta a lei."

"Altri debiti, Mike?"

"Ormai siamo abituati, che importa alla tigre una striscia in più?"

"Significa che la lotta continua!" sorrisi con la certezza che questa volta avrei combattuto sul mio terreno.

Il seguito lo conosci già, perché lo abbiamo vissuto assieme. La sera in cui ci siamo conosciuti mi chiedesti di raccontarti la mia vita. E' lunga, ti ho avvertito. Non importa, ho molto tempo, hai detto, senza sapere in che pasticcio ti mettevi con questo piano infinito.

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