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| << | < | > | >> |Pagina 11A prestar fede agli storici iberici, tanto spagnoli che portoghesi, la scoperta delle Americhe da parte dei turchi, che non sono poi affatto turchi, ma arabi veraci, è avvenuta con grande ritardo, in epoca relativamente recente, addirittura agli albori del nostro secolo.Si deve ponderare come, dato che ne va del loro interesse, i trattatisti peninsulari siano poco attendibili, intenti come sono a lodare e amplificare le imprese e i personaggi di spagnoli e portoghesi, quali Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Vasco da Gama o Fernào de Magalhães: ispano-portoghesi della miglior schiatta, del più altolocato lignaggio cristiano, i puri di sangue, gli intrepidi, gli eroi indomabili. Ma non bisognerebbe del pari dimenticare come, armati di atti di nascita e di tutte le testimonianze del caso, gli italiani rivendichino per l'altra penisola, quella dei carcamani, la gloria di aver dato i natali a Colombo e a Vespucci: allo scopritore e al furbo di tre cotte che fece registrare sotto il proprio nome le terre dell'ignoto. Giù carte, testimonianze, gli spagnoli ribattono, chi sa poi chi ha ragione, i timbri sui documenti si falsificano, si comprano testimoni con vile metallo. Se gli spagnoli meritano poco credito, ancor meno ne meritano gli italiani, basti pensare alla mascalzonata di Vespucci. E che mai dire dei vichinghi? Un bel pasticcio questa Scoperta. Nella nave di emigranti che li aveva portati dal Medio Oriente, dalle montagne della Siria e del Libano alle foreste vergini del Brasile, una traversata laboriosa in mezzo alle tormente, Raduan Murad, che se la batteva da una giustizia da cui era perseguito come vagabondo e biscazziere, ancorché prosatore forbito, aveva rivelato al siriano Jamil Bichara, suo compagno di stiva, come, essendosi sguerciato per notti insonni sulle scartoffie del primo viaggio di Colombo, avesse scoperto, nell'elenco dei marinai che componevano l'equipaggio di una delle tre caravelle dell'amena escursione, il nome di un certo Alonso Bichara. Il moro Bichara, reclutato forse con le manette ai polsi, uno dei tanti eroi dimenticati nell'ora delle celebrazioni e delle ricompense: l'ammiraglio si copre di gloria, i marinai si coprono di merda - sebbene erudito Raduan Murad era, diciamolo, sboccato. Verità o patacca? Raduan Murad era fantasioso, inventivo, e quanto a scrupoli non se ne faceva. Qualche anno dopo, già installato nelle terre vergini, avrebbe inventato il «tris Itabuna», composto da tre carte dispari, una novità sui tavoli da gioco, di riprovata utilità nell'ora del bluff, la cui fama si sarebbe propagata per tutto l'universo grapiúna. Verità o balla poco importa, dato che gli avvenimenti che qui si narrano avranno come protagonista Jamil e non il suo presunto bisavolo, moro in quanto Bichara, spagnolo in quanto Alonso, di dubbiosa esistenza. Meglio dedicarsi a fatti sicuri, innegabili, anche se la storia più veritiera partecipa anch'essa del miracolo. Se sono qui, è per raccontare quello che accadde a Jamil Bichara, a Raduan Murad e ad altri arabi in piena scoperta del Brasile, su per giù all'inizio del nostro secolo. I primi ad arrivare dal Medio Oriente portavano con sé documenti dell'Impero Ottomano, ed è per questo che oggi li considerano turchi, della buona nazione turca, una delle tante che, amalgamate, hanno fatto e continuano a fare la nazione brasiliana. La nave su cui si imbarcarono il giovane Jamil Bichara e il dotto Raduan Murad attraccò alla Bahia di Tutti i Santi nell'ottobre 1903, quattrocento e undici anni dopo l'epopea delle caravelle di Colombo. Ma non per questo lo sbarco era meno che scoperta e conquista, dato che le terre del sud dello stato della Bahia, dove loro si stabilirono per sferrare la loro battaglia, erano a quel tempo coperte di foresta vergine, si cominciava appena appena a seminare le piantagioni, a costruire le case. Coronéis e jagunços si ammazzavano a suon di carabina per la conquista della terra, la migliore del mondo per la coltivazione del cacao. Venuti da paesi diversi, abitanti del sertão, della regione di Sergipe, e poi giudei, turchi - li chiamavano turchi, ma erano arabi, siriani e libanesi - tutti quanti erano brasiliani. | << | < | > | >> |Pagina 30Mentre Jamil Bichara, nella stanza di Glorietta, nell'allegra pensione di Alfonsina, dava abbondante e variato becchime alla tortorella; mentre Ibrahim Jafet, schiacciato sotto il peso della vergogna, aveva deciso di cenare in casa e di affrontare le ire della figlia Adma, Raduan Murad, al tavolino del bar di Sante, a quell'ora vuoto di clienti, andava ragionando sulla catastrofica situazione del compare e vecchio amico. La fortuna degli uomini è incostante, dice l'adagio, e l'esempio di Ibrahim è lì a dimostrarlo. Pochi anni prima prospero commerciante, stimato padre di famiglia, padrone di tutto il suo tempo libero, marito della più competente, desiderabile e onesta delle mogli. E, all'improvviso, ridotto a quel modo. Da favorito unico ed esclusivo della matriarca Sálua - un pascià - era sul punto di trasformarsi in uno schiavo rovinato e mosciarellaro. Alla salute di Sálua, Raduan Murad degustò la sua anisetta, svuotando il bicchiere. Raduan non aveva un'ora fissa per il pranzo e la cena, se non quando era invitato; meno che mai per coricarsi. Lo faceva negli intervalli delle sue concioni, arte sua; dell'impegno al tavolo da gioco, suo principale lavoro; delle letture e riletture di libri, del gioco della dama e del tric-trac, del casino con le ragazze, suoi innocenti passatempo. In cambio, poteva bere in qualsiasi momento. Competente nel maneggio del bicchiere, manifestava preferenza per gli spiriti aromatizzati con l'anice. Buon bevitore, era ancor meglio come conversatore e compagnone. Nel tardo pomeriggio, se ne rimaneva tutto solo alla mescita, come a prolungare l'aperitivo e a prepararsi all'avventura multipla della notte. Non aveva bisogno di barare per vincere al poker, nella sala di fondo dell'Hotel dei Lords: lo faceva solo di tanto in tanto, per insegnare come ci si comporta a dei volgari manipolatori del mazzo di carte. Gli bastava l'intuizione per valutare la natura dei compagni, il rapido ragionamento per usare le pedine con perizia e autorità. Smascherava i bluffatori e rispondeva loro con imperturbabile sicurezza. A sentire i compari, sarebbe stato capace di cantare le carte degli avversari: aveva il dono della divinazione. Femminiere, con le donne faceva gran sfoggio di galanteria e di immaginazione. Andare a letto con Raduan Murad era prerogativa disputata a suon di insulti e schiaffi dalle ragazze di vita. Le cattive lingue sussurravano nomi di mantenute e di donne maritate. E le fanciulle fissavano da lontano la figura snella, impeccabile nel suo completo di lino bianco, le chiome brizzolate, le dita affusolate che stringevano il bocchino d'avorio: sospiravano. Celibe, cinquantenne, più seduttore di tutti i ragazzi del mondo. Di fronte al bicchiere vuoto, rifletteva sulla sorte di Ibrahim: una pagliacciata e un melodramma. Prudentemente Sante, il padrone del bar, mise al sicura il guadagno della giornata, lasciandoci solo alcuni spiccioli e se ne andò a casa per cena. Adib lavava i bicchieri e manipolava bevande, schierando bottiglie e preparando il banco per la ressa notturna che sarebbe cominciata di lì a poco. Un momento buono per riprendere la conversazione con il potenziale candidato alla mano di Adma e al banco delle chincaglierie. Raduan Murad si sentiva in dovere di aiutare il povero Ibrahim nella sua lotta di sopravvivenza contro la sventura, la malasorte e a riconquistare il diritto all'ombra e all'acqua fresca. In considerazione della vecchia amicizia, del comparaggio, del ricordo degli occhi di Sálua, dell'inaccessibile Sálua, ma soprattutto per trastullarsi con un nuovo giochetto, tanto eccitante quanto il poker: il già citato gioco del destino in cui le carte del mazzo sono esseri umani e nel bluff ci si gioca la vita.
Socchiuse gli occhi, la notte sorgeva lenta dall'altra sponda del fiume,
ancora disabitata. Malocchio e violenza incombevano sulla merceria. Per
affrontare la crisi, le armi di Raduan Murad erano
la saggezza e l'astuzia. Alzando la voce, comandò
ad Adib un'altra dose di anice e diede inizio all'inchiesta e al negoziato.
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