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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Giuseppe Lupo 7 La casa arca 9 Alice e l'ippogrifo 23 Passione virtuale 35 Filomena, l'ultimo dono 49 Attesa 63 La partita - Telecronaca breve di un autoinganno 75 Amicizia 83 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Ne avevi vissute tante di case. Alcune tu, in prima persona, altre raccontate ad una bambola-bambina, ad una statuina di biscuit, ad un'arruffata 'genoveffa la racchia', come ti chiamava quel 'fratello grande', bellissimo, mito di tutta la tua infanzia e adolescenza. Magrissima, con gli occhiali e le treccine biondo scuro che, macchè, non ne volevano proprio sapere di rimanere ordinate attorno alla riga in mezzo alla testa, volta a volta, eri un personaggio dei fumetti, quelli veri, oppure zampillavi dalla fantasia degli adulti. Come ti volevano vedere, insomma. Un giorno il 'fratello grande' ti regalò il tuo primo libro: era il 'Viaggio di Dorothy' e tu, che avevi appena imparato a leggere sul sillabario, prendevi i lembi della gonnellina tra le mani e, ridendo a crepapelle, leggevi e danzavi, al suono di un carillon. Ad ogni nota spuntava, come per incanto, una parte della casa fatata di Dorothy: ricordi? Era di marzapane e, così, tu potevi farla e disfarla a tuo piacimento: tutto questo, però, avveniva spesso o sempre nei tuoi sogni. La realtà era ben diversa: dovevi, dovevi, dovevi. Esisteva sempre qualcosa da fare, obbligatoriamente, qualcuno a cui ubbidire. Per fortuna tu avevi, come hai ancora, la tua vita parallela, quella del sogno: qualche volta fingevi addirittura di dormire, sperando in una carezza, ma non era poi così necessario tanto il bacio della mezzanotte era quasi sempre atteso invano. E, dunque, tu pensavi, sognavi, cercando di 'darla buca' al sonno, che già allora ti sembrava inutile. Abitavi, Amie, in una città, una bella città, ma se qualcuno ti chiedeva - quando eri altrove - dove fosse, tu facevi uno sberleffo e non rispondevi. Perché tu, la tua città, volevi costruirla tu, popolata di case, case, case. Con tante persone dentro che si volessero bene. Ogni giorno, si può dire, una diversa: ad esempio, quando in treno raggiungevi con la tua 'famiglia' il paesino della Nonna, un lungo viaggio, potevi poi spaziare per tutta l'estate ad inventarne una nuova ogni notte. Oppure ogni giorno, quando, sfuggendo ai controlli degli adulti, ti rotolavi, libera, con i figli dei contadini lungo il pendio oppure salivi incespicando sui covoni di paglia e poi ti buttavi giù a capofitto. Ma poi, in fondo, gli adulti, si fa per dire, erano ben contenti di fingere spavento, non trovandoti al primo richiamo. Avevano voglia di 'non occuparsi di' per qualche tempo. Il tempo delle mele. Forse era un gioco. Uno dei pochi che facevano con te. Perché, a ben guardare, nessuno di loro giocava con te. E non volevano che neppure tu lo facessi. Con loro o da sola. O con quelli della tua età. Già, il famoso imperativo categorico che avresti poi vissuto lungo tutta una vita. E, così, tu... costruivi case. Quella per le galline, quella per i pulcini, quella per leggere i tuoi libri, quella per raccontare, per raccontarti. E questo ti accompagnò per tutta la vita, piccola grande Amie. Eri davvero sola a costruire, ma per molti anni, generosa e impaurita, non te ne rendesti conto. Ti bastavano due assi, uno straccio colorato, magari un quadrifoglio - perché, a volte, fata dei boschi, riuscivi a trovare anche quello - per sentirti libellula. E, spesso, volevi far diventare libellula ogni creatura incontrata sul tuo cammino. Struggente, rimase il desiderio di condividere una casa: Peter Pan e Mary Poppins, entravi ed uscivi dalle finestre, impalpabile, senza causare scompiglio. Intanto crescevi e le finestre cominciarono a non essere più trasparenti ma munite di vetri antiproiettile, mentre dall'interno grossi tendaggi di velluto ti soffocavano. Bisognava nascondere, forse perché una famiglia non esisteva. Allora tu, che intanto eri andata a vivere in un'altra città e, dunque, in un'altra casa, 'giocavi alle signore' dal tuo balcone con la ragazzina della scala di fronte. Da lontano, appunto. Perché lei era figlia di un operaio e tu no. Eppure tu non capivi, non potevi proprio capire: infatti Jo, di fronte, usciva da un castello, la torre angolare, il ponte levatoio, mentre tu avevi soltanto il tempo di sgusciare da una porta-finestra. I momenti per giocare erano pochi: dovevi guardare l'orologio e stare molto attenta, verso il tramonto, all'arrivo del tram. Che riportava tuo padre a casa. E, con esso, addio ai giochi, al castello. Tutti sugli attenti: questo non si fa. E basta. A volte, visto che esisteva anche una mamma, molto decorativa e molto obbediente, anche lei, l'accompagnavi 'a fare una visita' - eh, sì, dovevi farlo, forse dovevi imparare il galateo, chissà - e t'incantavi a vedere le pareti colorate, i lettini dal sapore bambino, una casa che vedevi sempre più bella della tua. Forse perché era una casa scelta. Da tutti, persino chiedendo il parere dei più piccoli. A te capitava, invece, di trovare sempre una casa già decisa. Tuo padre partiva per primo e andava a cercare casa. Ma come si fa a cercare una casa da solo? Non avevi ben chiari questi concetti ma li sentivi come qualcosa di oscuro che mal si addicevano al tuo bisogno di trasparenza. Non soltanto da bambina, lo hai portato con te sino ad oggi. O, meglio, sino ad ieri. L'ieri di quando hai scelto tu. Tu 'con'. Dopo aver trovato, o fatto trovare, la casa già decisa , era tutto un andirivieni di mobili buttati alla rinfusa, camion che sostavano affaticati davanti al portone, operai che ansimavano per portare su, al terzo, quarto piano, o anche al primo, la cristalliera o il comò. Le gru erano di là da venire ma i trasferimenti e le case provvisorie no. Nessuna era di proprietà. E tu non hai capito, per molti anni, se non si poteva averla o non si doveva. Mah. E non potevi chiedere, piccola grande Amie, perché, a casa 'tua', ciò non era permesso. Non era permesso chiedere alcunché. S'impartivano gli ordini e basta. Anzi, per quanto riguarda, poi, i dubbi e le domande senza risposte sulle case 'già decise', l'espressione 'casa mia' era bandita. Per tutti, tranne che per il marito-padre-padrone: la casa era soltanto del capofamiglia. Chi provvedeva al sostentamento? Lui. E allora i diritti-doveri erano esclusivi. Bisognava dire, se capitava: ti aspetto a casa di mio padre. Oppure, più ricercato, ti aspetto nella casa dove abito. Naturalmente ciò apparteneva soltanto al tuo, al vostro lessico familiare. E tu sgranavi gli occhi, piccoli ma profondi, da cerbiatto impaurito, quando sentivi dire diversamente. E, quasi per crearti un alibi di normalità, ti dicevi che loro, gli altri, non conoscevano bene il periodare. O, almeno, il gergo di tutti i giorni. Erano gli altri, insomma, a sbagliare. | << | < | > | >> |Pagina 83Le mani sprofondate a pugno dentro le tasche dell'impermeabile, la cintura arrotolata in vita, un basco da Rive Gauche sui capelli ricci e lunghi, una voglia matta di avere una sigaretta tra le labbra - un sigaro aromatico? - scarpe pesanti ortopediche, calze nere a rete-collants? -, cercavo con apprensione che cedeva, a volte, il passo all'angoscia, i miei adorati bouquinistes, i bancarellari del lungo Senna, libri rari e locandine d'epoca. Andavano scomparendo: soltanto qualche appassionato o, forse, messo lì da una sorta di regista del possibile, resisteva. La tenda a proteggere dalle intemperie le preziosità, uno sguardo d'intesa, più attore che se stesso. Eppure ci credevo, mi piaceva essere o immaginarmi qui, a percorrere tempi mai vissuti, a vivere un incontro sperato ma improbabile. E forse ero qui. Davvero. Sola. Sola perché gli impegni e i desideri coincidono raramente, tranne se esiste un punto di riferimento cui far capo per il quotidiano ma anche per l'eccezionale, bello o meno che sia. Sola perché rifuggivo dal 'chiedere amicizia', facebook o twitter che fosse, e mi accorgevo, con sorniona consapevolezza, che alle mie risposte vagamente supponenti, di non voler essere, né oggi, né mai, presente per farmi leggere, o leggere gli altri all'interno di queste diavolerie, suscitavo un visibile sconcerto. Un silenzio rapido ma denso di sospetto, un silenzio difficile da infrangere. Non da parte mia, naturalmente, ma da parte del mio prossimo. Alcuni, poi, avevano addirittura 'l'indecenza' di dichiararsi miei emuli, felici di non appartenere alle ammucchiate... oceaniche, oggi figlie della globalizzazione. Salvo a scoprire che, voltato l'angolo, come suol dirsi, al posto di giocare alla buona, vecchia morra dei nostri nonni, ci si esibiva in conte, degne di miglior riffa, dai 'quattrocento in su'. 'Amici', s'intende. E chi era il vicino di casa del 'massimalista' di facebook? Quanti anni aveva? Eh, no, questo attiene alla privacy, mi si rispondeva, con leggera aria di rimprovero: ognuno doveva essere protetto dalle pareti di casa, anzi, meglio, doveva celarsi. Tanto, quando ci fosse stato bisogno di qualcosa, veniva in aiuto... facebook! Senza chiavi da affidare, numeri segreti di cellulare da fornire: insomma, tutto diventava aperto e chiuso a nostro-loro-piacimento. Mentre mi lasciavo andare alla piacevole flānerie che solo le città di fiume possono dare, sempre che le si voglia vivere nel loro essere senza confini, mi tornava alla mente uno scritto di un filosofo-psicologo, tale Galimberti, se non erro, in cui cercava di farci percorrere la via del 'duale'. Non il singolare, con la solitudine dell'anima che, spesso, infrange, a mo' di coltello, ogni tipo di speranza; non il plurale che costringe ad un understatement da miglior causa, ma il 'duale'. Conio? Forse, ma non proprio. Piuttosto, concetto dimenticato, desueto, difficile. Visto che Platone aveva scritto, più o meno, che se qualcuno, con la propria pupilla, guarda quella dell'altro, vede se stesso. Guardare per vedere, per osservare. Perché, poi, anche nella nostra bella lingua, abbiamo tante espressioni per spiegare un modo di dire. Ma, per superficialità o paura, ne facciamo a meno. Quindi duale non soltanto per chi ama, ma anche per l'Amicizia, la cui radice è la stessa. Non per ricevere solo e sempre approvazione, ma per confrontarsi. Magari un confronto che può anche diventare scrigno. Un confronto prima di tutto con se stessi. Scabroso. E fu proprio durante il corso di questi pensieri che scovai sul prezioso banchetto del lungo Senna, una sorta di piccola pergamena su carta tirata a mano - Vaucluse ed Amalfi a fare amicizia -, con un breve poemetto sull'argomento del mio immaginario, ove, tra l'altro, si leggeva, «...non si teme più la solitudine quando possediamo per intero questa piccola porzione di felicità, questo gusto che ci riporta all'infanzia... Si chiama Amicizia». Dunque infanzia, felicità, amicizia, anello di congiunzione l'innocenza. E ricordai subito quando qualcuno, pur rimanendomi Amico, ad un mio racconto di vita vissuta, da me, da altri, non importa, replicò, «oggi ho perso l'innocenza». Il fiume lento, i bateaux mouches, l'atmosfera sempre un po' speciale, mi portarono a cercare un confronto con altre città di fiume, da Vienna a Londra, da Varsavia a Budapest, da Firenze a Belgrado, da Cordoba a Lisbona, a Porto. Perché non Roma? Non so, ma il Tevere, che biondo non è, mi ha sempre dato, come anche il Nilo, un'idea di forza, di storia, non di spleen, di saudade, di abbandono. E, ancor più, sentii forte, il languore dell'Old man river, quel Mississipi che dipana il sapore-sentore della più alta civiltà meticcia, quella di New Orleans. Musica, letteratura, storia.
Fu in quell'attimo che lo vidi: stava leggendo, tra sé e sé, ma non
abbastanza da non essere udito, quegli straordinari versi di Emily
Dickinson, «Io non sono nessuno! Tu chi sei?/ Nessuno-neanche tu?/ Allora siamo
in due!/ Non dirlo! Spargeranno la voce!/».
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