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| << | < | > | >> |Indice5 L'Italia del Ventennio 23 Vivere nel regime 63 Gli antifascisti 83 Il decennale 123 Credere, obbedire, combattere 151 La stagione dell'Impero 173 Verso la guerra 184 Foto simbolo 186 Cronologia 190 Letture consiglíate 191 Referenze fotograficbe |
| << | < | > | >> |Pagina 5La ricostruzione fotografica del regime fascista che va dal 1925 al 1939, e cioè dall'avvenuta presa del potere alla vigilia della seconda guerra mondiale, vuole offrire un'immagine quanto piú possibile aderente della società italiana di quel periodo. Non vuole essere solo la rappresentazione del regime come istituzione, con le innovazioni che quest'ultimo introdusse nel campo del rituale e della simbologia politica, ma anche la testimonianza di un paese che visse, pur tra squilibri e contraddizioni notevoli, una stagione di cambiamento e di parziale modernizzazione. In altre parole, si vuol guardare alla società italiana di quel periodo da due punti di vista: dall'alto delle sfere del potere, secondo i canoni della rappresentazione che il fascismo vuole dare di sé, e dal basso, seguendo l'onda dei cambiamenti che si ripercuotono sulla vita quotidiana. Non solo il fascismo nella società italiana, ma anche la società italiana in epoca fascista, seguendo l'ottica storiografica piú allargata ai temi del sociale che si è andata affermando negli ultimi anni. Per questo motivo si è fatto ricorso a fonti fotografiche molteplici e diverse tra loro. Le fonti di regime, certamente piú note al grande pubblico, ci mostrano l'Italia che il fascismo voleva far vedere, anche se un occhio attento riesce a cogliere ciò che si voleva celare. Ma sono riprodotte anche molte foto ricavate da archivi privati, spesso inediti. In questo settore ci si imbatte nelle immagini piú curiose e a volte impreviste, di un'Italia nascosta, marginale (si vedano in particolare le foto del Mezzogiorno): l'altra Italia, se cosí la si può definire, quella della gente comune, su cui l'influenza del regime si esercita in maniera discontinua, dando luogo a singolari forme di commistione o a una reinterpretazione dello stesso fascismo. Nella scelta e nell'accostamento delle immagini si è sacrificato qualcosa dal punto di vista della compattezza tematica e di stile che ogni libro fotografico si propone di avere. La foto ufficiale convive con l'immagine istantanea di un avvenimento familiare. La Roma imperiale si specchia, suo malgrado, in tanti piccoli borghi di provincia. Le adunate oceaniche hanno il loro corrispettivo in artigianali manifestazioni di paese e l'immagine propagandistica, costruita con cura professionale, deve fare i conti con quella scattata dal dilettante. Questa formula ci rivela un'immagine dell'Italia di allora piú discontinua, ma allo stesso tempo piú «sincera» rispetto a una tradizione iconografica consolidata, un'Italia piú vicina a quella reale, grazie allo sguardo «innocente» del fotografo dilettante. Le stesse foto di regime, proprio in virtú dell'accostamento con le foto familiari, acquistano un valore e un sapore diversi. Le foto comuni, d'altra parte, fungono da correttivo e da integrazione rispetto a una immagine convenzionale che è rimasta nella memoria di molte generazioni. | << | < | > | >> |Pagina 6Il fascismo fu un regime di tipo nuovo che si venne consolidando nel corso degli anni attraverso l'uso di vecchi e nuovi strumenti di potere e di propaganda. Ebbe momenti di accelerazione alternati a periodi di normalità o, meglio, di normalizzazione. Nel precedente volume, La nascita del fascismo 1919-1925, curato da Eva Paola Amendola, si è visto come Mussolini riuscí, non senza autorevoli appoggi, a portare a termine con successo la scalata al vertice dello Stato. Dopo di allora, tutti i suoi sforzi furono tesi al mantenimento del potere. Ben presto divenne chiaro a tutti che si era imboccata la strada del non ritorno. Il fascismo divenne un «regime totalitario», come amava definirsi, ma a suo modo duttile, in grado di gestire la propria sopravvivenza e il proprio consolidamento con una notevole spregiudicatezza tattica. Da questo punto di vista si dimostrò tuttavia, nell'ideologia e nella pratica, meno compatto del nazismo, di cui pure fu l'ispiratore. E infatti si dotò di un apparato ideologico dopo la presa del potere mentre il nazismo si presentò sulla scena politica già con un preciso programma che mise poi meticolosamente in pratica, fino alle estreme conseguenze, sintetizzate tragicamente dalla «soluzione finale». Il fascismo seguí una via piú tortuosa. Si serví della violenza nella fase iniziale, fu spietato con chi gli si opponeva, partiti gruppi o singoli individui, e si dedicò alla loro eliminazione attraverso una repressione sistematica. «Leggi eccezionali», «leggi fascistissime», il codice Rocco, un sistema di controllo poliziesco tra i piú efficienti e moderni dell'epoca, la creazione di istituti appositi, come il confino, applicato a livello di massa e con finalità anche preventive. Il fascismo mise in piedi quello che si potrebbe definire un obbrobrio giuridico, e cioè il Tribunale speciale, di cui erano note in anticipo le sentenze e che non prevedeva appello. Dal punto di vista strettamente pratico, un Tribunale speciale era, a dir poco, pleonastico, dal momento che per mantenere l'ordine voluto bastavano gli adeguamenti della legislazione penale. Ma l'istituzione di un tribunale con queste caratteristiche serviva soprattutto a dare il senso preciso dell'implacabilità del nuovo potere. Per questo motivo i suoi effetti si ripercossero ben al di là delle numero delle condanne che furono effettivamente comminate. L'aspetto «pedagogico» di questa come di altre istituzioni repressive, dal confino alle varie forme di censura, era anzi un'ulteriore forma di propaganda indiretta rivolta a tutti gli italiani. Dove il regime raggiunse un primato e un'efficienza assoluti fu nel settore della sorveglianza, prima degli oppositori, reali e potenziali, e poi gradualtnente della gran parte della popolazione italiana grazie a un capillare e sofisticato apparato poliziesco che funzionava con un sistema di controlli incrociati. Fu questo un assetto che il nazismo si affrettò a far suo non appena raggiunse il potere. La censura preventiva e centralizzata su tutti gli strumenti della comunicazione, la revisione epistolare e telefonica, che consentiva di entrare nella sfera privata di chiunque, un sistema di spionaggio esteso a livello di massa, che consentí la schedatura di centinaia di migliaia di ignari cittadini, in Italia ma anche all'estero, permisero a Mussolini il pieno controllo dell'apparato dello Stato, della struttura burocratica e militare, di ogni settore delle istituzioni e della stessa popolazione italiana in maniera capillare.| << | < | > | >> |Pagina 12Dove il fascismo ottenne i risultati forse piú originali e innovativi fu nell'uso degli strumenti della comunicazione. Il solo dispiegarsi della macchina repressiva, pur con la sua comprovata efficienza cui si è accennato, e le stesse affermazioni in politica estera, non gli avrebbero consentito di durare cosí a lungo se le «conquiste del regime» non fossero state sfruttate al massirno grado da un apparato propagandistico all'altezza della situazione. E soprattutto non gli avrebbero guadagnato l'adesione di milioni di italiani, se non fosse riuscito a mettere in pratica quella che si potrebbe definire una politica del coinvolgimento. Si è già accennato all'influenza esercitata dai principali strumenti della comunicazione: stampa, cinema, teatro, editoria libraria, radio. In questi settori il fascismo intervenne in modi e tempi diversi, in ragione della specificità di ognuno di essi ma anche perché, in qualche modo, condizionato dall'evoluzione tecnologica del periodo tra le due guerre. Si tenga presente che, ad esempio, la radio cominciò a muovere i primi passi negli stessi anni in cui Mussolini andava al potere. Fu cosí abbastanza agevole modellarne la struttura e i contenuti secondo un preciso disegno in cui lo stesso Mussolini si ritagliò il ruolo di protagonista.| << | < | > | >> |Pagina 20Ma anche sulla massa di italiani che si lasciò sedurre dalla macchina propagandistica del regime, c'è qualcosa da sottolineare. Si è parlato a lungo di consenso: negli anni passati questo termine ha scatenato violente polemiche tra gli storici, che si sono riversate anche sulla stampa quotidiana. A qualche anno di distanza, si può ritornare sull'argomento con serenità, e soprattutto con un contributo di studi di storia sociale assai piú rilevante, non tanto per chiedersi se c'era o non c'era il consenso (da ciò che si è detto non ci sono dubbi in proposito), ma per interrogarsi sulla qualità del consenso. Non a caso abbiamo adoperato, di preferenza, il tennine «coinvolgimento» e lo abbiamo inserito nel quadro di un preciso disegno politico messo in atto dal regime attraverso una gamma di interventi che facevano leva su motivi diversi: alcuni sulla sfera della convinzione ideologica, altri sulla mera convenienza utilitaristica: dal volontario che andava a morire in Africa in nome di un ideale, a chi aderiva per trovare un'occupazione. Il termine consenso può riferirsi al primo caso, nel secondo facevano presa motivazioni di altro genere, non necessariamente politiche.Molti, soprattutto gli intellettuali, si illusero di attraversare il fascismo, e magari servirsene, senza dover pagare un prezzo. Di solito accadde l'inverso; fu il fascismo a servirsi di loro. Una spiegazione univoca di una realtà complessa, come era la società italiana degli anni Trenta, risulterebbe parziale e, al fondo, errata. Rispecchierebbe piú una visione ideologica che non una seria analisi storica. Gli italiani non erano tutti fascisti convinti, come appariva dalle adunate oceaniche, né tanto meno tutti antifascisti costretti a mostrare entusiasmo per il regime con mezzi coercitivi. La stessa qualità dell'adesione (termine piú adatto di quello abusato di consenso) andrebbe esaminata con piú attenzione di quanto non sia stato fatto finora. Alla fine degli anni Trenta ebbe successo una canzonetta che recitava «se potessi avere mille lire al mese» (che era anche il titolo di un film), in cui le aspirazioni del protagonista e - verosimilmente - di milioni di italiani che la canticchiavano, erano quanto di piú distante ci fosse dai sogni di gloria del regime: un «modesto impiego», una «casettina» alla periferia, una «mogliettina semplice e carina». In pratica, un campionario di aspirazioni piccolo-borghesi. E non era certo un'eccezione. Tutti i prodotti della cultura di massa di quel periodo, dai film dei «telefoni bianchi» alle commedie sentimentali (dello schermo e della scena), dalle canzoni di musica leggera ai romanzi popolari, erano pieni dei sogni tipici di chi aspira a una sistemazione. Le ragazze sognavano di sposare il principe azzurro, che era un giovane con un modesto ma sicuro impiego. I giovanotti, a loro volta, non vedevano l'ora di impalmare una ragazza acqua e sapone e sistemarsi con le sospirate mille lire al mese. Gli italiani cominciavano a scoprire le gioie di alcuni beni di consumo, ascoltavano la radio, familiarizzavano con i ritmi musicali d'oltreoceano (la campagna del regime contro la deprecata musica sincopata di derivazione jazzistica non ebbe successo), cominciavano a far spese ai grandi magazzini (che diedero il titolo a un altro film di successo, con Assia Noris e Vittorio De Sica). Insomma, anche in Italia si affermava, sull'onda di un processo di modernizzazione che pure il regime aveva favorito, una società, una mitologia, un mercato, anche culturale, che non erano molto diversi da quelli delle decadenti e imbelli democrazie occidentali contro cui ci si preparava a combattere. Il tenore di vita non sarà stato al livero dei paesi piú avanzati, ma le aspirazioni certamente si. Come si conciliava questa società, fatta di miti individuali e piccolo-borghesi, con quella collettiva e guerriera, frugale e maschia, propagandata dal fascismo? La risposta è che non si conciliava affatto. Le due società coesistevano in un equilibrio precario, erano sovrapposte, nel senso che il regime aveva cavalcato processi di trasformazione industriale che erano comuni a tutto il mondo occidentale e aveva cercato di utilizzarli per i propri interessi politici. E la società italiana, o almeno gran parte di essa (ma soprattutto i ceti medi urbani), si era adattata accettando i miti politici e quelli portati dalla cultura della modernizzazione. I due aspetti potevano essere presenti in una medesima occasione. Una gita domenicale o una festa danzante organizzata dal Dopolavoro erano una manifestazione politica o un semplice passatempo? A volte, inconsapevolmente, i due aspetti convivevano in uno stesso individuo. Ci si metteva in divisa e si andava alle esercitazioni del sabato fascista e poi si andava a ballare con la fidanzata sulle note di una canzone sincopata. Si ascoltavano i discorsi infiammati del duce e si sognava l'America guardando un film d'oltreoceano. Ci si inorgogliva per la conquista di un impero e si aspirava alla casettina di periferia. Ci si preparava alla conquista del mondo e si cercava un impiego sotto casa. Negli anni della normalizzazione, seppure a fatica, si riuscí a tenere insieme il diavolo e l'acqua santa. Ma il consenso degli italiani si basava su un equivoco. I nodi giunsero al pettine allo scoppio della guerra, al momento delle scelte irrevocabili tra i sacrifici, gli eroismi, le rinunce, il sangue di una guerra totale, e le aspirazioni, le comodità, la sistemazione, i beni di consumo piccolo-borghesi a cui ci si stava abituando. Gli italiani dovevano scegliere, e alla svelta, tra Scipione l'africano e le mille lire al mese. |
| << | < | > | >> |RiferimentiLetture consigliate Per un inquadramento generale del periodo storico si raccomandano alcune opere di sintesi sugli anni della dittatura fascista: A. Aquarone e M. Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Bologna, Il Mulino, 1974; A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi 1965; G. Candeloro, Storia dell'Italía moderna, vol. IX, Il fascismo e le sue guerre, Milano, Feltrinelli, 1986; N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, vol. XXII, Torino, Utet, 1995; D. Veneruso, L'Italia fascista 1922-1945, Bologna, Il Mulino, 1996. [...] | << | < | |