Copertina
Autore Gafi Amir
CoautoreO. Castel-Bloom, G. Hareven, E.G. Hayim, J. Katzir, A. Kimhi, S. Liebrecht, M. Magen, R. Matalon, E. Mazya, N. Semel, S. Smith, R. Talshir
Titolo Israeliane
SottotitoloL'universo femminile raccontato da 13 scrittrici contemporanee
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2005, Fiabesca 81 , pag. 298, cop.fle., dim. 120x170x20 mm , Isbn 978-88-7226-861-2
PrefazioneElena Loewenthal
TraduttoreOfra Bannet, Raffaella Scardi, Alessandro Guetta
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa israeliana
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Indice

  5 Un sano distacco
    di Elena Loewenthal

  9 Israeliane

 11 Gafi Amir, Dio 90210
 27 Orly Castel-Bloom, Fischietti
 34 Gail Hareven, L'uomo col cappello
 47 Esty G. Hayim, You should eat something
 57 Judith Katzir, Stanno chiudendo il mare
115 Alona Kimhi, Film
154 Savyon Liebrecht, Ma io parlo cinese?
183 Mira Magen, Gerbere a metà prezzo
211 Ronit Matalon, Fratello piccolo
233 Edna Mazya, Una pastiglia e mezzo di sonnifero
254 Nava Semel, Una piccola rosa nel Mediterraneo
277 Shoham Smith, Guadalupa
284 Rachel Talshir, Il marito, l'amante e il re

 

 

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Pagina 11

GAFI AMIR
Dio 90210



Mi hanno rovinato completamente il Giorno della memoria dell'Olocausto. Avrei dovuto lavorare solamente mezza giornata, ma Shirhaz mi ha costretto a restare fino alle cinque. Sono diventata blu quando ha parcheggiato le sue scarpe di Gucci sulla porta del mio cubicolo: «Ah, Sarah, perché ti ho voluta? Perché, perché. Ah! Mi fai un favore? Dai un'altra occhiata al backup della Divur? Si sono lamentati un'altra volta che il software è andato in crash».

Shirhaz va matto per gli acronimi. Gli sembra un modo più sintetico di parlare. Adesso si è inventato un nuovo stile: termina ogni frase con un punto interrogativo. Ero talmente scocciata che ho fatto una piccola imitazione dei suoi ordini-domande e gli ho risposto umilmente (ovviamente senza che lui notasse la sottigliezza).

«Lo prendo subito?».

E pensare che solo ieri notte ero lì a fantasticare su di lui. A volte è un compito difficile essere una ragazza simpatica e anche, beh, ebrea. Ebrea: suona talmente poco chic che ti si blocca in gola. Totalmente fuori dal bon ton, mentre io in fondo cerco semplicemente di essere a posto con Quello Lassù, che non mi mandi contro l'ardore della sua ira, lo sdegno, la collera, la sventura e una turba di angeli malefici.

È da un anno ormai che sto cercando un qualche Dio. E non per i miracoli, no, solo per l'ispirazione. E allora com'è che ogni volta mi ritrovo nel letto di uno che è tutto fuorché indulgente, tutto tranne che compassionevole, e l'unica maniera di adorarlo è comperare da Zara un miliardo di top, iscrivermi in palestra e abbronzarmi?

Se non trovo al più presto qualcuno da adorare, non so cosa ne sarà di me. Per esempio Shirhaz, il mio esotico capo. Dapprincipio lo ammiravo, solo che è troppo alla moda per prestarmi attenzione. Non c'è speranza che mi veda, è il campione nazionale di controllo sui sentimenti. I resti del mio amore per lui si sono dissolti nel momento in cui, questa mattina, mi ha distrutto l'intera giornata. Nessuno che abbia avuto almeno pietà di me, proprio il Giorno dell'Olocausto mi piantano a testare trenta dischetti per controllare che cos'è che non funziona. Il mausoleo high tech del quale "Maof e Zror" hanno affittato un piano con vista sul Mediterraneo è talmente costoso, che siamo tutti schiacciati in minuscoli cubicoli con pareti di perspex, il sistema di sepoltura del futuro. Negli anni Novanta, quando ero ancora una carrierista convinta, avevo un approccio più faraonico: se ero comunque destinata a passare l'intero terzo decennio della mia vita sepolta in un ufficio, tanto valeva organizzarmi per starci bene. Mi ero portata dietro tutto l'equipaggiamento, pompon e tutto il resto. Ma adesso è proprio il contrario. Proprio questa mattina mi sono trovata con Shosh nello spazio caffè, e lei mi ha bloccata con un discorso di tre ore su come Shirhaz le ha detto che ha fatto davvero, ma davvero, molti progressi. Per premiarla ha intenzione di incaricarla, da oggi in avanti, di occuparsi delle pratiche "Argaman" e "Tochelet". La gente nel nostro ufficio scoppia di ambizione, così quando qualcuno li informa che da oggi in avanti il loro tempo libero consisterà nel respirare l'aria riciclata dei condizionatori di "Maof e Zror", credono che si tratti di un colpo di fortuna. Per la maggior parte dei miei vent'anni anch'io ho pensato di voler fare carriera, ero proprio la stella del mio campo, e Maof ecc. mi hanno comperata per un mucchio di soldi quando hanno messo su il loro start-up, ma senza che io me ne sia resa conto tutta la mia ambizione è scivolata via. Una mattina ero una femminista capitalista assetata di sangue e in cerca di preda, e l'indomani tutto quello che chiedevo dalla vita era trovare un ragazzo carino, fare dei figli e stendere dalla mattina alla sera lenzuola di cotone. Improvvisamente tutto il resto era completamente privo di significato.

Non so cosa sia: o mi è crollata la personalità, o mi sono beccata la malattia dello yuppie. Ho solamente voglia di sognare uomini che valgono qualcosa e di tingermi i capelli. Di cosa saranno i sintomi? Il mondo è talmente precario e le mie possibilità di sposarmi così poche, con tutti i microbi che si possono inghiottire per errore e con tutti i camion che potrebbero investirmi, che per pararmi il culo e andare sul sicuro bacio mezuzà e digiuno il giorno di Kippur, mentre continuo a sperare che in cambio non mi prenderò un cancro, che non arriverò improvvisamente al capolinea, e che voi-sapete-chi mi combinerà un amore vero.

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Pagina 57

JUDITH KATZIR
Stanno chiudendo il mare



Il pullman per Tel-Aviv si fermò al Carmel Center di Haifa, inghiottì Ilana e altre tre persone, e ripartì. Alla fermata rimase solo la ragazza con il bikini rosa, eternamente bella e sorridente. Fino a quando qualcuno deciderà di annerirle un dente o di disegnarle i baffi, pensò Ilana. Pagò il biglietto all'autista e guardò bene all'interno del pullman, per paura di incontrare qualcuno che la conosceva. Preso il resto, si fece strada tra i pacchi e le borse e si mise a sedere nel penultimo posto a destra, accanto al finestrino, così dopo la discesa dal monte e la curva avrebbe potuto vedere il mare. Appoggiò come al solito la sua vecchia borsa marrone sul sedile alla sua sinistra, per ridurre le possibilità che qualcuno le si sedesse accanto, ci ripensò subito e si mise la borsa sulle ginocchia, ma nessun passeggero salito dopo di lei scelse quel posto. Malgrado ciò continuò a tenersi la borsa contro la pancia guardando fuori, e le sue dita sottili e pallide, con le unghie corte, aprivano e chiudevano inconsciamente la chiusura-lampo.

[...]

«Posso esserle utile signora?» gracchiò una voce dietro di lei. Ilana girò la testa sussultando e vide una donna molto grassa in minigonna nera e scarpe nere di pelle lucida, capelli corti tinti di arancione e rossetto spalmato sulle grosse labbra come resti di una salsa di pomodoro. Ilana guardò rapidamente in direzione della cassa, ma la sedia era vuota e si chiese stupita come la proprietaria avesse potuto sparire così. «No, grazie, dò solo un'occhiata» bisbigliò, e la commessa grassa gridò «Cosa?». «Ho detto che dò solo un'occhiata» ripeté Ilana più forte. La commessa prese senza guardare un abito dall'attaccapanni e ordinò «Provi questo». Era un vestito di seta nero, stretto, che terminava con un grande sbuffo a pallone plissettato, rosso come le labbra della commessa. Ilana prese il vestito e andò dietro la tenda, dicendosi che l'avrebbe provato giusto per cortesia e poi se ne sarebbe andata. Si spogliò e cercò di indossare il vestito senza sbagliare i buchi. Le sue dita umide non riuscivano ad agganciare i bottoni e la commessa grassa aprì la tenda dicendo «Venga qui, l'aiuto io». L'abbottonò con dita impazienti, le cui unghie piegate e rosicchiate sembravano crescere dentro la carne, trascinò Ilana davanti a un grande specchio e disse «Guardi, non le sembra splendido?». Ilana si guardò le gambe magre e bianche con i sandali che spuntavano da sotto il pallone di seta rossa come zampe di gallina e sussurrò «Non credo», ma a quanto pare la commessa non la sentì e disse «Guardi come sta bene con una cintura». Le comparvero improvvisamente tra le mani cinque o sei cinture, come tenesse una frusta multicolore dalle molte teste, e cominciò a provarle una dopo l'altra stringendo forte la vita di Ilana; la quale, intanto, aveva visto allo specchio che la padrona era tornata e si era messa dietro di lei. La bionda elegante la scrutò per un attimo, storse la bocca in un sorriso e disse «Splendido». «Vero?» si entusiasmò la commessa grassa. «Glielo avevo detto. Con un corpo come il suo sembra tutto fantastico, e il nero è proprio il colore adatto a lei. Dovrà solo portare delle scarpe nere con il tacco, come le mie». Mise avanti la sua grassa gamba e disse «Allora si occupa lei della signora, va bene?», si piegò per tagliare con le forbici il cartellino con le istruzioni per il lavaggio e il prezzo, e Ilana ricordò che Tami le aveva detto tanto tempo prima «Ma perché non ti vesti mai di nero?». «Quanto costa?» chiese a voce bassa. «Non è caro» disse la grassona, «sulla cintura c'è uno sconto del dieci per cento». E sparò una cifra che a Ilana sembrò enorme, quasi la metà del suo stipendio. Esitò un attimo ma poi si disse che a Tel-Aviv era difficile trovare cose belle per meno. Mentre compilava l'assegno, cercando di scrivere accuratamente tutti i dati, suonò il telefono, e rispose la bionda elegante. «Vogliono parlare con la proprietaria della boutique» disse alla grassona, e le passò il ricevitore. Ilana le guardò stupita e capì che si era sbagliata, la proprietaria era la grassa. Prese il sacchetto di plastica dove aveva messo il suo vestito a fiori, con il nome della boutique scritto in ebraico e in inglese, disse grazie e arrivederci, ma la proprietaria era occupata al telefono e non sentì, solo la commessa bionda storse la bocca in un sorriso e le disse «Buona fortuna».

Ilana uscì dal negozio a passettini prudenti, come le permetteva la gonna stretta. Le passavano davanti rapidamente uomini in cravatta, donne anziane con camicette abbottonate fino al collo e chiuse con un nastrino, ragazze in jeans e scarpe da ginnastica. Si irrigidì. La guardavano tutti, era evidente. Nessuno era vestito in quel modo, e lei stava ricevendo una quantità di sguardi come schegge di uno specchio in frantumi. Il suo corpo era un lungo tubo nero, le gambe sottili e bianche come ossa con sopra una palla rossa che andava su e giù come un sedere di pagliaccio a cui rivolgono tutti risate di scherno in una gara di tiro a segno in cui nessuno può perdere. Ilana sentì che le lacrime cominciavano a coprirle gli occhi, come nel cortile della scuola durante l'ora di ginnastica in terza o in quarta, quando facevano dei giri di corsa e una bambina cattiva che le correva dietro le tirava l'elastico dei pantaloncini celesti così che tutti potevano vederle le mutande.

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Pagina 115

ALONA KIMHI
Film



Per un periodo, quest'ultimo inverno, Shachar e io non siamo andati per niente d'accordo. Io ero disoccupata e gli affari di Shachar stavano andando a rotoli. Perdeva soldi e litigava continuamente con il suo socio, Doron, ma non poteva darci un taglio per varie ragioni che non mi erano del tutto chiare. Se ne andava di mattina e la sera rientrava col viso scuro, non aveva nemmeno la pazienza di mettermi a parte dei suoi problemi; per la verità la cosa non m'interessava neanche un granché. Ero in attesa di una risposta dalla Fondazione riguardo a una sceneggiatura da me proposta, che aveva per argomento il Golem e il legame fra Praga e Gerusalemme. Aspettavo, malgrado mi sentissi certa che il film non sarebbe stato accettato. Trascorrevo gran parte della giornata dormendo, e nelle ore in cui ero sveglia mi domandavo cosa ne sarebbe stato di me, cos'avrei fatto; siccome non avevo risposte, tornavo a dormire sul divano del soggiorno. Chiudevo tutte le tapparelle e accendevo il riscaldamento al massimo, per addormentarmi più facilmente.

[...]

L'indomani siamo andati a visitare la madre di Shachar a Cesarea. Mi piaceva andare da lei, lì era sempre tutto pulito e ci preparava da mangiare. Sui muri erano appesi molti quadri, per lo più pecore in varie pose, dipinte dal famoso pittore Kadishman, che creavano una merdosa aria da pascolo, ma dopo il nostro sudicio appartamento in città, l'atmosfera pastorale ci stava proprio bene. La madre di Shachar si chiamava Dina, era alta un metro e ottanta, calzava scarpe coi tacchi alti anche in casa, profumava di "Opium" e portava giganteschi gioielli d'argento; sulla cima di quella torre agghindata s'innalzava una criniera rossa e arricciata che sembrava una parrucca da carnevale di Rio. Da giovane Dina era stata sul punto di diventare una ballerina ma, dato che già allora il suo posteriore era largo come un tavolo da biliardo, aveva preferito dedicarsi a studiare medicina. Qualche anno prima aveva lasciato il padre di Shachar, un pilota, e si era sposata con un importatore di zucchero di nome Reinhorn, che per qualche ragione insisteva a chiamare Shachar "figlio mio". Il padre di Shachar invece viveva in Tailandia. Lì aveva aperto un pub per turisti israeliani e si era sposato con una splendida tailandese di vent'anni che non sapeva una parola d'inglese. Il suo sogno era tornare dalla mamma di Shachar, o per lo meno questa era l'opinione di lei. Naturalmente il padre di Shachar non aveva nessuna speranza di tornare da Dina, per la semplice ragione che lei non lo sopportava. Proprio non lo poteva soffrire. Quando Shachar non sentiva, lo chiamava: "quello stronzo volante", epiteto che, quando Shachar era nei paraggi, cambiava in "tuo padre, il pilota" per essere educativa. Shachar aveva anche una sorella maggiore, Noya, che viveva negli Stati Uniti. Noya era sposata con un noto criminale scappato da Israele a causa di evasioni fiscali sufficienti a farlo sbattere dentro per vent'anni. Il marito si chiamava Yoram, un nome da bravo ragazzo, del tutto inadatto a un delinquente. Quando chiedevamo notizie di Yoram e Noya, Dina con una manovra da prestigiatore estraeva le ultime foto mandate dalla figlia. Vi si vedeva Noya con degli enormi occhiali da sole e una pancetta che sporgeva al di sopra della parte inferiore del costume da bagno, intenta ad accendere il barbecue sul bordo della piscina, o Noya coi suoi due bambini, tutti a giocare a frisbee sulla spiaggia privata della casa di vacanza che Yoram aveva acquistato a Malibù.

Per pranzo la mamma di Shachar aveva cucinato pollo in salsa di tariaki, agnello in salsa di menta e rosmarino, un'insalata mista con quattro diversi tipi di foglie, mousse di salmone e capperi e una quiche di un formaggio di capra speciale portato da Cipro. Era seduta di fronte a me. Aveva dei frammenti di pollo incastrati fra i denti, e una goccia della salsa dell'insalata le era colata sul mento. Lei non se n'era accorta, e io ho passato tutto il pranzo a guardarle dentro la bocca, con la sensazione che se l'avessi fissata abbastanza a lungo il macello che aveva fatto si sarebbe risolto da sé. Masticando, Dina ci ha raccontato di un nuovo paziente che aveva in cura, un uomo con un tumore al seno. Dina lavora come medico oncologo all'ospedale psichiatrico Geha, e le piace descrivere i casi più interessanti. Siccome le sembravamo troppo indifferenti, ha deciso di approfondire l'argomento spiegandoci che il tumore al seno è veramente raro negli uomini, e ha descritto in maniera pittoresca e dettagliatissima come ha operato il paziente in questione per asportare il tumore maligno; gli ha anche trovato metastasi in altre parti del corpo, che sono state curate con chemioterapia e radiazioni. Poi si è pulita la bocca con un tovagliolo bianco, inamidato, e ha servito il dessert: un parfait di fragole in Armagnac, che non sono riuscita a mangiare.

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Pagina 183

MIRA MAGEN
Gerbere a metà prezzo



«Che razza di scema sei» mi hai detto mentre chiudevo la valigia grande e mi affaccendavo sulla lampo del borsone nero che abbiamo comperato a Londra. Non riuscivi a capire come potessi scegliere di restringere improvvisamente i miei orizzonti. Nonostante ne avessimo già discusso più volte, pensavi che la probabilità che io un giorno osassi davvero prendere le mie cose e andarmene fosse inferiore all'eventualità di una pioggia ad agosto.

Da allora sono passati sette mesi, ma ricordo con chiarezza il silenzio calato fra noi dopo quel «che razza di scema sei». Eri fermo accanto alla porta e non ti sei neppure offerto di aiutarmi a chiudere la lampo del borsone che si ostinava a bloccarsi, mentre a me non pareva il caso di tornare a spiegarti che ero stufa degli orizzonti infiniti della nostra vita, di quella corsa nel gigantesco vuoto che chiamiamo libertà. Non volevo ripeterti per l'ennesima volta che me ne andavo là dove i confini sono tangibili. Dove tutti sanno quando bisogna fermarsi, e chi non rimane dentro i limiti stabiliti si ferisce. Dove non tutto è esposto al vento.

[...]

La donna le cui cosce sfregavano l'una contro l'altra mentre attraversava la zona pedonale da est a ovest è passata di lì quando il sole era ancora caldo e le nostre tazze mezze piene di caffè. Aveva le mani cariche di sacchetti di plastica stracolmi, da uno dei quali spuntavano delle gerbere di quelle con l'estremità delle foglie già raggrinzita, che il venerdì pomeriggio si vendono a metà prezzo. Camminava guardando dritta davanti a sé, con indosso una camicia a quadretti e una gonna a fiori sbiadita il cui tessuto economico obbediva alle membra pesanti arrotondandosi, allargandosi e stirandosi. Portava scarpe pesanti e senza tacco, simili a quelle delle soldatesse, e le gambe dalle vene gonfie erano avvolte in calze spesse; si affrettava verso l'autobus numero ventiquattro, tre ore prima dell'accensione delle candele di Shabbat, del Sabato. Quel giorno ti ho detto: «Guarda». Tu l'hai osservata e mi hai chiesto: «Cosa c'è da vedere?», e ti sei rigirato verso il tavolo. Non ho avuto il coraggio di alzarmi e seguirla, benché fosse proprio quello che avrei voluto fare. Morivo dal desiderio di scoprire quale forza la spingesse avanti con tutti quei sacchetti, indifferente a quel che le accadeva attorno, libera dal bisogno di fare buona impressione.

Dalla finestra vedo il cortile che si stende oltre il muro esterno della cucina, e il cartello che vieta l'entrata alle macchine durante il Shabbat. Fuori i bambini giocano a nascondino. Ori è fermo a guardarli, sulla testa porta un copricapo armeno ricamato che gli ho comprato a Gerusalemme, nella città vecchia. Convincerlo a coprirsi la testa è stata dura, mi ha chiesto perché avrebbe dovuto farlo e devo ammettere di non aver trovato una risposta soddisfacente. Eliezer, il figlio di Grossman, cerca di convincerlo a partecipare, ma lui, piccolo immigrante, se ne sta in disparte e impara il loro linguaggio. Il giovane Grossman ha le spalle larghe del padre, e un giorno avrà anche le gambe solide e la nuca grossa, ma gli occhi azzurri li ha ereditati dalla madre. Ha uno sguardo aperto e chiaro, non come quello di suo padre Yechiel, che tiene gli occhi quasi sempre fissi a terra. Una volta, un paio di giorni dopo il mio arrivo qui, Yechiel ha aperto la porta d'ingresso del palazzo proprio mentre arrivavo dall'esterno. I suoi occhi, inaspettatamente colpiti dalla luce improvvisa, hanno incrociato i miei, due scuri cerchi verdi che lui si è affrettato a spostare verso la griglia metallica dell'ingresso, quella che usiamo per pulirci le scarpe dal fango; poi si è addossato al muro per lasciarmi libero l'intero vano dell'entrata. Benché non sia ancora buio i lampioni sono già accesi, ed Eliezer Grossman salta in alto cercando di toccare i dischi metallici che li circondano.

Ricordi la lampadina che hai cambiato, in bagno? È successo un mese e mezzo prima che me ne andassi da casa. Hai sostituito quella fulminata con un'altra da cento watt, che ha illuminato la stanza di una luce bianca e crudele e io, una donna di poco più di quarantun anni, sono rimasta ferma sotto quel proiettore, di fronte allo specchio onesto e spietato, che mi rifletteva senza celare alcun dettaglio. Mentre me ne stavo lì in bagno è comparsa la baby sitter di Ori, una ragazzina di sedici anni, una splendida gemma, esattamente nel momento in cui scoprivo una nuova linea sulla mia fronte e due borse scure sotto gli occhi. Mi sono resa conto che quel che stava sfiorendo nel mio corpo cominciava a sbocciare nel suo, e ho sentito un moto di ribellione verso quest'ordine di cose. Io me ne sto lì, con un dito immerso nella crema da spalmarmi intorno agli occhi, mentre la baby sitter è in sala con i suoi bei ricci scuri sparsi sulle spalle, e improvvisamente mi è chiaro che nessun cosmetico al mondo potrà salvarmi: da questa battaglia uscirò sconfitta. Era assolutamente ridicolo cercare di costringere il mio corpo a deviare dal suo corso naturale, idratarlo a forza e obbligare i pori a produrre follicoli giovanili. Lì, sotto quel proiettore da cento watt, ho di nuovo pensato che la vita vera si svolgeva nel luogo in cui era diretta quella donna con le gerbere. Ho preso un fazzoletto, ho ripulito il dito dalla crema costosa, e ho spento la luce.

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Pagina 254

NAVA SEMEL
Una piccola rosa nel Mediterraneo



«Le promesse non vanno prese alla leggera» diceva mia nonna, «soprattutto se sono state fatte con molto amore». A quell'epoca io non capivo di chi parlasse: chi promette e chi mantiene? La nonna diceva anche: «Bisogna sempre ringraziare, perfino per un piccolo ramo di pruno».

Le parole le sgorgano di bocca come pesciolini mentre il fazzoletto stretto in testa gronda acqua. Non se l'è mai tolto, fino al giorno della sua morte. Un tessuto grigio le copriva il cranio e le orecchie, senza lasciare via di fuga a una singola ciocca ribelle. Ancora mi domando quale fosse il colore dei suoi capelli. Nemmeno di notte se lo scioglieva.

«Movimenti piccoli e discreti» ordina, «calmi e controllati, che il mare non pensi, per carità, che sei venuta a dominarlo o a importi».

Io taglio l'acqua, in preda a un'ansia esplosiva. Tengo le mani tese e, quando avvicino le braccia al petto le dita toccano casualmente i bottoni della camicia; come sarebbe facile aprirli!

Sotto il suo sguardo vigile traccio cerchi contro voglia. Ho le gambe piantate nel fango fra frammenti di sassi, ma non scivolo perché la sua presa è solida. Mi mette in guardia dagli scogli, mi piega le braccia con decisione, come se si trattasse di remi, pronta all'arrivo della prossima onda. «Non dimenticare che non devi lasciarti trascinare come un oggetto inanimato, ma rispondere alla voce silenziosa che mormora da là sotto».

Siamo attorniate da donne che fanno il bagno. Un folto gruppo saltella nell'acqua. Si spruzzano a vicenda, esultanti come scolarette che si godono una vacanza fuori programma. Nemmeno sulla spiaggia comune c'è una tale agitazione. Una massa di copricapi, fazzoletti, cappelli, pagliette. Le teste sembrano palle variopinte che galleggiano sull'acqua; fanno tutte il bagno vestite, abbottonate fino al collo.

Lancio uno sguardo verso la capanna del bagnino. L'unico uomo in tutta la spiaggia. Ha gli occhi nascosti dietro il binocolo e un fischietto giallo sul petto. Per rispetto al loro pudore, anche lui indossa una camicia. Chissà se di nascosto si gode la bellezza delle membra celate dagli abiti? Forse dietro la maschera ridacchia fra sé e sé di queste donne per le quali la decenza è così importante. Oppure è, come me, occupato solo a cercare qualcuno da salvare.

«T'insegnerò io» aveva dichiarato mia nonna; più che una promessa a me si trattava di un giuramento a se stessa, così mi aveva portata alla spiaggia delle donne religiose. Nessun uomo oltrepassa il telo che la delimita. Solamente i bambini più piccoli, quelli che non hanno ancora compiuto tredici anni. I loro cernecchi immersi nella spuma si arricciano ancora di più. Si fissano la kippà in testa con delle mollette, e ogni tanto uno dei piccoli scoppia in lacrime perché la sua kippà è stata inghiottita dall'acqua. Quando costruiscono torri e scavano fossati, le loro frange spuntano e si sporcano di sabbia.

Dov'è che la nonna ha acquisito questa competenza nella pratica del nuoto? Hanno già provato a insegnarmi, e ogni volta lo stesso terrore paralizzante mi piomba addosso, impedendomi di immergermi. La gonna lunga e ridicola mi si attacca ai polpacci, colpisce i talloni quando l'onda assale e, come un peso, mi trascina nell'abisso. Solo la nonna è leggera come la schiuma. Le onde le gonfiano il vestito, e io trattengo a stento una risata perché sembra un fiore rovesciato che galleggia sull'acqua. In effetti il significato del suo nome è proprio questo: piccola rosa. Benché gli abiti impediscano i movimenti, nulla ostacola il ritmo deciso delle sue bracciate, come pure la nitidezza della sua memoria. La nonna avanza, mentre io resto bloccata sul posto, sforzandomi disperatamente di ascoltare.