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| << | < | > | >> |Pagina 7«Svegliati! Svegliati, cazzo!» Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine. Una mano gli strinse la gola. «Svegliati! Lo sai che devi dormire con un occhio solo. È nel sonno che t'inculano.» «Non è colpa mia. La sveglia...» farfugliò il ragazzino, e si liberò dalla morsa. Sollevò la testa dal cuscino. Ma è notte, pensò. Fuori dalla finestra era tutto nero tranne il cono giallo del lampione in cui affondavano fiocchi di neve grossi come batuffoli di cotone. «Nevica» disse a suo padre, in piedi al centro della stanza. Una striscia di luce s'infilava dal corridoio e disegnava la nuca rasata di Rino Zena, il naso a becco, i baffi e il pizzo, il collo e la spalla muscolosa. Al posto degli occhi aveva due buchi neri. Era a petto nudo. Sotto, i pantaloni militari e gli anfibi sporchi di vernice. Come fa a non avere freddo? si domandò Cristiano allungando le dita verso la lampada accanto al letto. «Non accenderla. Mi dà fastidio.» Cristiano si accoccolò nel groviglio caldo di coperte e lenzuola. Il cuore gli batteva ancora forte. «Perché mi hai svegliato?» Poi si accorse che suo padre stringeva in mano la pistola. Quando era ubriaco spesso la tirava fuori e girava per casa puntandola sul televisore, sui mobili, sulle luci. «Come fai a dormire?» Rino si voltò verso il figlio. Aveva la voce impastata come se avesse ingoiato un pugno di gesso. Cristiano si strinse nelle spalle. «Dormo...» «Bravo.» Suo padre tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una lattina di birra, l'aprì e la finì in un sorso e si pulì la barba con un braccio, poi l'accartocciò e la buttò a terra. «Non lo senti, il bastardo?» Non si sentiva niente. Nemmeno le macchine che di giorno e di notte sfrecciavano davanti a casa e che se chiudevi gli occhi avevi l'impressione ti entrassero nella stanza. È la neve. La neve copre i rumori. Suo padre si avvicinò alla finestra e poggiò la testa sul vetro umido di condensa. Ora la luce in corridoio gli dipingeva i deltoidi e il cobra tatuato sulla spalla. «Dormi troppo pesante. In guerra a te ti bevono per primo.» Cristiano si concentrò e sentì lontano l'abbaiare rauco del cane di Castardin. Ci si era talmente abituato che oramai le sue orecchie non lo percepivano più. Stesso discorso per il ronzio del neon in corridoio e lo sciacquone rotto del cesso. «Il cane?» «Ce l'hai fatta... Incominciavo a preoccuparmi.» Suo padre si girò di nuovo verso di lui. «Non ha smesso un minuto. Neppure sotto la neve.» Cristiano si ricordò cosa stava sognando quando suo padre lo aveva svegliato. Giù in soggiorno, vicino alla televisione, in un grande acquario fosforescente c'era una medusa verde e gelatinosa che parlava una lingua stranissima, tutta c, z, r. E la cosa bella era che lui la capiva perfettamente. Ma che ore sono? si chiese sbadigliando. Il quadrante luminoso della radiosveglia poggiata a terra segnava le tre e ventitré. Suo padre si accese una sigaretta e sbuffò: «Ha rotto il cazzo». «È mezzo scemo, quel cane. Con tutte le bastonate che ha preso...» Ora che il cuore aveva smesso di marciargli in petto, Cristiano sentì il sonno premergli sulle palpebre. Aveva la bocca secca e il sapore dell'aglio del pollo della rosticceria. Forse, bevendo, quello schifo se ne sarebbe andato, ma faceva troppo freddo per scendere giù in cucina. Gli sarebbe piaciuto riprendere il sogno della medusa lì dove lo aveva lasciato. Si stropicciò gli occhi. Perché non te ne vai a letto? La domanda gli scappava, ma la trattenne. Da come suo padre si aggirava per la stanza non sembrava molto intenzionato ad abbattersi. Tre stelle. Cristiano aveva una scala di cinque stelle per stabilire l'incazzatura di suo padre. Anzi, fra le tre e le quattro stelle. Già in zona "stai molto attento", dove l'unica strategia era quella di dargli sempre ragione e stargli il più possibile lontano dai coglioni. Suo padre si voltò e diede un calcio violento a una sedia di plastica bianca che rotolò per la stanza e finì contro il mucchio di scatoloni in cui Cristiano teneva i suoi panni. Si era sbagliato. Quelle erano cinque stelle. Allarme rosso. Qui l'unica strategia era ammutolirsi e confondersi con l'ambiente. Era da una settimana che a suo padre rodeva il culo. Qualche giorno prima se l'era presa con la porta del bagno che non si apriva. La serratura era rotta. Per un paio di minuti aveva provato ad armeggiare con un cacciavite. Se ne stava lì, in ginocchio, a bestemmiare, a insultare Fratini, il ferramenta che gliel'aveva venduta, i fabbricanti cinesi che l'avevano costruita con la latta, i politici che permettevano d'importare quella merda, ed era come se fossero tutti lì, proprio davanti a lui, e niente, quella porta non ne voleva sapere di aprirsi. Un pugno. Uno più forte. Un altro. La porta sussultava sui cardini, ma non si apriva. Rino era andato in camera, aveva preso la pistola e aveva sparato contro la serratura. Ma quella non si era aperta. Aveva solo prodotto un botto assordante che aveva rintronato Cristiano per mezzora. Una cosa buona c'era stata: Cristiano aveva imparato che è una stronzata quella che si vede nei film, dove se spari alle serrature le porte si aprono. Alla fine suo padre l'aveva presa a calci. L'aveva sfondata urlando e strappando pezzi di legno con le mani. Quando era entrato nel bagno aveva dato un pugno allo specchio e le schegge erano finite dovunque e lui si era aperto una mano ed era rimasto un sacco di tempo a sgocciolare sangue seduto sul bordo della vasca, fumandosi una sigaretta. «E a me cosa me ne frega se quel cane è scemo?» riprese Rino dopo averci pensato un po' su. «Mi ha rotto i coglioni. Io domani devo lavorare...» Si avvicinò al figlio e si sedette sul bordo del letto. «La sai una cosa che mi dà veramente fastidio? La mattina, quando faccio la doccia, uscire fuori tutto bagnato e mettere i piedi a terra, sulle mattonelle gelate, rischiando pure di rompermi l'osso del collo.» Gli sorrise, caricò la pistola e gliela porse reggendola per la canna: «Stavo pensando che ci vorrebbe proprio un bel tappetino di cane». | << | < | > | >> |Pagina 50Gettò a terra il mozzicone e riprese a camminare mentre accanto gli scorrevano macchine e camion sollevando schizzi di acqua sporca.E gli tornò in mente la piccola Peppina, una bastardella lunga lunga e con le zampe alte come barattoli. L'aveva presa sua madre al canile prima di andarsene via. Quante volte Cristiano si era detto che uno può anche abbandonare suo figlio, il marito, ma non il proprio cane. Bisogna essere delle merde integrali per fare una cosa del genere. Rino non voleva Peppina in casa perché diceva che era una bestia scema e appena gli giravano minacciava di ammazzarla. In realtà, secondo Cristiano, non la voleva perché gli ricordava la mamma e infatti alla fine non la dava mai via. A Cristiano invece piaceva Peppina. Faceva sempre un mucchio di feste e se la prendevi in braccio ti mordicchiava i lobi delle orecchie. Viveva per le palle da tennis. Si svegliava pensando alla palla e se ne andava a dormire pensando alla palla. Gliela tiravi e lei te la riportava e quando non ce la facevi più ti si metteva accanto con la palla tra le sue zampette nane e ti dava dei colpetti con il muso fino a quando non gliela tiravi di nuovo. Un giorno, doveva essere estate perché faceva molto caldo, Cristiano era tornato da scuola e lo scuola-bus (che alle elementari arrivava fino a casa sua) ce lo aveva lasciato proprio di fronte, dall'altra parte della statale. Aveva fatto una sorpresa a Peppina, se n'era andato fino al circolo sportivo e dietro le recinzioni dei campi da tennis, in un canale di scolo infestato di erbacce e ortica, aveva fatto incetta di palle. Stava per attraversare la strada quando dal retro della casa era spuntata Peppina correndo come una pazza. Faceva ridere quando correva perché assomigliava a un treno peloso. Chissà come diavolo aveva fatto a sentirlo arrivare? Il cancelletto di legno di solito era chiuso, ma quel giorno era solo accostato. Cristiano aveva capito che quella scema voleva attraversare la strada per raggiungerlo. Aveva guardato a destra e a sinistra e c'erano solo camion. In una frazione di secondo aveva intuito che se le avesse urlato di rimanere ferma la cagnetta lo avrebbe scambiato per un richiamo e si sarebbe gettata sulla strada. Non sapeva che fare. Voleva attraversare e fermarla, ma c'era troppo traffico. Peppina aveva infilato il muso tra il cancelletto e lo stipite e stava cercando di aprirlo. Doveva fermarla. Ma come? Ecco, doveva lanciarle una palla. Lontano. Verso il retro della casa. Ma non troppo in alto, se no la cagna non l'avrebbe vista e sarebbe stato tutto inutile. Aveva preso dalla tasca dei pantaloni una palla da tennis, gliel'aveva mostrata, aveva preso la mira e l'aveva lanciata, e mentre la lasciava andare aveva avuto la certezza di aver sbagliato il lancio. Per un attimo aveva stretto l'aria come a tirarla indietro, ma la palla era volata dritta e tesa e troppo bassa e aveva colpito il muso di un TIR che arrivava nell'altro senso. La sfera gialla era schizzata in alto ed era ricaduta al centro della strada cominciando a rimbalzare impazzita. Peppina, che era riuscita a sgusciare fuori, aveva visto davanti a sé la palla ed era corsa a prenderla. Aveva evitato per miracolo un primo camion, ma il secondo no, le era passato sopra con le ruote sue e quelle del rimorchio. Il tutto era durato pochi secondi e di Peppina era rimasto solo un mucchio di carne e pelo spalmato sull'asfalto. Cristiano, paralizzato dall'altra parte della strada, avrebbe voluto fare qualcosa, raccattarla da terra, ma davanti gli scorreva un fiume di lamiera. Per il resto della giornata era rimasto affacciato alla finestra a piangere e a guardare il cadavere di Peppina trasformarsi in un tappetino. Lui e suo padre avevano dovuto aspettare fino a sera, quando il traffico era rallentato, per tirarne via i resti dalla strada. Non era rimasto quasi più niente, solo una stola di pelo marroncino che suo padre aveva buttato nel cassonetto dell'immondizia dicendo a Cristiano che doveva piantarla di frignare perché un cane che vive per una palla non merita di esistere.
Quindi, si disse Cristiano, la bestia di Castardin
era il secondo cane che ammazzava in vita sua.
Dopo aver chiuso le tre serrature del suo appartamento, Quattro Formaggi salì le scalette che portavano sul corso Vittorio. Faceva freddo e l'alito gli si condensava nell'aria in sbuffi bianchi. Una coperta grigia e compatta di nuvole nascondeva il cielo, e piovigginava. Quattro Formaggi salutò con la mano Franco, un commesso del Mondadori Mediastore che occupava tutta la palazzina. L'edificio era in posizione centrale tra i negozi di abbigliamento e scarpe, a un passo da piazza Bologna e dalla chiesa di San Biagio. Il proprietario precedente, il vecchio notaio Bocchiola, era morto e aveva lasciato l'edificio in eredità ai figli, escludendo un seminterrato dietro gli ascensori che aveva lasciato a Corrado Rumitz, in arte Quattro Formaggi, custode fidato e tuttofare del notaio per oltre dieci anni. Gli eredi, inferociti, avevano tentato in ogni modo di buttare fuori il barbone: offrendogli soldi, altre sistemazioni, mettendo in mezzo avvocati, psichiatri, ma non c'era stato niente da fare. Quattro Formaggi non mollava. Alla fine erano riusciti a vendere sottocosto il resto della palazzina alla Mondadori, che aveva diviso i tre piani nella canonica trinità: musica, libri e video. E anche i dirigenti dell'azienda avevano, più volte, tentato di comprarsi lo scantinato per farne un deposito. Ma era andata male pure a loro. Quattro Formaggi si infilò il casco integrale color pisello, slegò la catena al suo vecchio Boxer verde e con un colpo al pedale mise in moto al primo tentativo. Il motore esplose e il tubo di scappamento sputò una fumata bianca che si allungò come un serpente per la strada e si disperse sotto la tenda a strisce rosse e nere della caffetteria Rouge et Noir. La signora Citran e il colonnello Ettore Manzini, seduti a un tavolino, cominciarono a tossire avvelenati dal fumo fetido della miscela al tre per cento. L'anziana donna sputò un pezzo di fagottino al cioccolato bianco che fu subito spazzolato via da Ottavio, il bassotto a pelo ruvido del colonnello. «Giuliana, ti prego, non respirare! Non respirare! Hai appena avuto la broncopolmonite!» faceva il colonnello premendosi il tovagliolo sulla bocca. «Oddio, mi è entrato tutto in gola! Aiuto!» ragliava la signora Citran cacciando fuori la lingua. I due ci misero un po' a riprendersi e in quel tempo Quattro Formaggi si allontanò in sella al motorino nonostante il divieto assoluto di transito per le vie del centro, giorno e notte, a qualsiasi mezzo munito di ruote, pattini, cuscini d'aria e cingoli. La vecchia e il colonnello per un po' non parlarono, troppo indignati per riuscire a esprimersi. Dopo un sorso di cappuccino finalmente la signora Citran riuscì ad articolare. «È uno scandalo. Hai visto cos'ha fatto?». Il colonnello scosse la testa. «Lascia perdere, Giuliana. Ho saputo che quel disgraziato si porta l'immondizia in casa.» «Che schifo, Ettore! Sto mangiando...» Manzini addentò un krapfen e poi disse: «Scusami cara, ma queste cose mi fanno perdere la ragione. Dicono tanto che il centro di Varrano va rivalutato. Gente così va aiutata, rinchiusa in qualche istituto...». Giuliana Citran si pulì la bocca dalle briciole e domandò: «Ma tu lo sai chi è quello?». Il colonnello prese a dondolare la testa: «Eh, certo». In paese girava la voce che Corrado Rumitz fosse il figlio illegittimo della buonanima di Bocchiola, che lo aveva abbandonato ancora in fasce all'orfanotrofio e poi, dopo vent'anni, si era fatto venire i rimorsi e lo aveva preso a lavorare da lui e gli aveva lasciato quella casa che valeva una fortuna. | << | < | > | >> |Pagina 156Cristiano abbassò le palpebre e quando le sollevò l'espressione di suo padre era cambiata.«Cosa ti sei fatto al labbro?» «Niente. Che mi sono fatto?» Se lo coprì con le mani. «E sulle mani?» «Sono caduto.» «Come?» Dal vuoto della mente di Cristiano uscì la prima, sciocca, bugia. «Sulle scale. Non è niente» minimizzò. Suo padre lo guardò sospettoso. «Sulle scale? E ti sei rovinato così? Te le sei fatte dalla prima all'ultima?» «Sì... Sono inciampato nei lacci...» «Ma come cazzo hai fatto? Sembra che ti abbiano dato un pugno...» «No... Sono solo caduto...» «Mi stai raccontando una stronzata.» Era impossibile mentire a suo padre. Aveva un'abilità speciale nel beccare le bugie. Diceva che le balle puzzavano e lui ne sentiva subito il tanfo a cento metri di distanza. E ti scopriva sempre. Come facesse Cristiano non lo sapeva, ma sospettava che fosse per quel fremito della mascella che lui non riusciva a controllare mentre gli mentiva. Strano, con tutto il resto del mondo era un vero artista della balla. Ne sparava di stratosferiche con una tale sicurezza che nessuno dubitava di lui. Ma con suo padre era tutta un'altra storia, non ce la faceva proprio, sentiva i suoi occhi neri che scavavano alla ricerca della verità. E in quel momento, poi, Cristiano non aveva proprio lo spirito necessario a sostenere un interrogatorio. Le gambe gli tremavano ancora e aveva lo stomaco in subbuglio. Una vocina sensata gli suggeriva che per uscire dal casino dei mille euro l'unico che poteva aiutarlo era suo padre. E, sbagliando, abbassò la testa e con un filo di voce glielo disse: «Non è vero. Non sono caduto. Ho fatto a botte...». Rino rimase in silenzio per un'infinità di tempo, respirando con il naso, poi spense la televisione. Ingoiò la saliva. «E da quello che posso intuire, le hai prese.» Cristiano fece sì con la testa. Non doveva parlare perché sentiva che tutto l'impegno che aveva messo per non piangere fino a quel momento si era esaurito. Gli sembrava che la sua trachea fosse avvolta da spire di filo spinato. Sollevò la felpa e mostrò la schiena scorticata. Suo padre la osservò senza nessuna espressione e poi cominciò a passarsi le mani sulla faccia come qualcuno a cui hanno appena comunicato che tutta la sua famiglia è morta in un incidente stradale. Cristiano rimpianse di aver detto la verità. Rino Zena sollevò la testa e guardò il soffitto e chiese gentilmente: «Quattro Formaggi, per favore, puoi andartene?». Sbuffò. «Devo stare solo con mio figlio.» Ora mi picchia... pensò Cristiano. Quattro Formaggi muto come un pesce si alzò, s'infilò il vecchio cappotto, fece una smorfia incomprensibile a Cristiano e se ne andò. Quando la porta fu chiusa Rino si alzò e accese tutte le luci del soggiorno, poi si avvicinò a Cristiano ed esaminò le sue ferite e la sua bocca come fosse un cavallo. «Ti fa male la schiena?» «Un po'...» «Riesci a piegarti?» Cristiano piegò la schiena. «Sì.» «Non è niente di grave. E la gamba?» «Anche.» «Le mani?» «Non è niente.» Rino prese a girare in tondo per la stanza senza dire nulla, e finalmente si sedette su una sedia. Si accese una sigaretta e lo fissò. «E tu?» «Cosa?» «Gli hai fatto male?» Gli bastò guardare suo figlio negli occhi per capire. «Non gli hai fatto un cazzo!» Scosse la testa disperato. «Tu... tu non sai fare a botte.» Fu una rivelazione. «Non sei capace di fare a botte.» Lo disse con un tono tra lo scandalizzato e il colpevole. Come se non gli avesse insegnato a parlare, a camminare. Come se avesse avuto un figlio con un'allergia mortale ai farinacei e lo avesse obbligato ad abboffarsi di pane. «Ma...» Cristiano provò a interromperlo per spiegare chi cazzo era Tekken. Ma suo padre era partito. «È colpa mia. È colpa mia.» Ora girava afferrandosi la testa con le mani come un penitente a Lourdes. «Non sa difendersi. È colpa mia. Ma che imbecille...» Chissà quanto sarebbe andato avanti così se Cristiano non avesse urlato. «Papà! Papà!» Rino si fermò. «Che c'è?» «Quello è maggiorenne... ed è un campione di boxe thailandese. Ha vinto i regionali.» Suo padre lo guardò senza capire. «Chi?» Tekken!» «Chi minchia è Tekken?» «Quello che mi ha menato.» Rino lo afferrò per il bavero. Aveva la faccia tutta contratta, le narici gonfie e la bocca serrata. Sollevò un pugno. Cristiano istintivamente si riparò la testa con le braccia. Rino lo tenne così, indeciso, poi gli diede una spinta che lo fece finire sul divano. «Sei un coglione completo. Ancora credi alla stronzata che chi sa fare le arti marziali sa fare a botte. Ma tu che minchia hai imparato della vita? Come cazzo ragioni... Ah, ecco! Ho capito! Tu credi a quello che si vede in televisione: è così che impari a vivere. Dillo! È così, no? Vedi i cartoni animati dove la gente fa kung fu e le altre stronzate e credi che bisogna essere Bruce Lee o qualche altro coglione cinese che invece di menare fa le acrobazie e gli urletti. Non hai veramente capito un cazzo. Sai cosa ci vuole per menare? Lo sai o no?» Cristiano scosse la testa. «È tanto semplice. La cattiveria! La cattiveria, Cristiano! Basta essere figli di mignotta e non guardare in faccia a nessuno. Può pure essere Gesù Cristo nel tempio che si fa rodere il culo, ma se sai farci lo butti giù come un birillo. Gli vai dietro, gli dici "scusa?", quello si volta e tu gli dai una sprangata in faccia e quello va giù dritto e se ti va quando è a terra gli dai un calcio in bocca ed è finita. Amen. Se invece è uno che ti caga il cazzo, che incomincia a darti le spinte, ad aprire la bocca e darle fiato, a cercare di farti paura facendo i balletti tu sai cosa devi fare? Niente. Te ne stai fermo. Poi» puntò un piede in avanti «metti il piede così. E quando si avvicina gli colpisci il naso con una capocciata. Come se fosse un pallone, caricando con il collo e le spalle. E lo devi colpire con questa parte qui, se no ti fai male.» Si toccò la parte alta della fronte. «Se gliela dai precisa non ti fai niente. Al massimo un po' di rosso il giorno dopo. Quello cade a terra e poi la solita storia, calcio in bocca ed è finita. Sfido chiunque a rialzarsi, pure quello stronzo di come cazzo si chiama... Ma devi essere deciso e cattivo, capito? Ora vieni qua.» Cristiano lo guardò. «Perché?» «Vieni qua e basta.» Cristiano, titubante, obbedì. «Dammi una capocciata. Fammi vedere.» «Come?» «Ho detto dammi una capocciata.» Cristiano era incredulo. «Io? Io ti devo dare una capocciata?» Suo padre gli afferrò un polso. «E chi? Dammi sta cazzo di capocciata.» Cristiano cercò di divincolarsi. «No... Ti prego... Non voglio... Non mi va.» Rino gli strinse più forte il braccio. «Adesso, però, tu mi devi ascoltare attentamente. Nessuno ti deve picchiare. Mai più. Nessuno al mondo deve permettersi di farlo. Tu non sei un finocchio che si fa menare dal primo stronzo che gli si mette davanti. Io vorrei, non sai quanto vorrei aiutarti, ma non posso. Sei tu che devi sbrigarti i tuoi casini. E per fare questo esiste solo un modo: devi diventare cattivo.» Gli prese un braccio. «Tu sei troppo buono. Sei molliccio. Non sei abbastanza incazzato. Sei fatto di roba morbida. Dove stanno i coglioni?» Lo scosse come fosse una bambola. «Quindi dammi questa capocciata. Non pensare che sono tuo padre, non pensare a niente, pensa solo che mi devi fare male e che devo rimpiangere per il resto della vita l'idea del cazzo di voler fare a botte con te. Lo capisci che dopo che ne hai massacrati un paio si sparge la voce che sei un figlio di puttana e nessuno ti romperà più il cazzo? Lo faccio per te. Se non riesci a darmela a me non sarai mai buono a dargliela agli altri.» Gli fece segno con le dita e disse: «Quindi mena!». Non c'era niente da fare. Cristiano lo sapeva. Doveva dargli quella capocciata. Puntò il piede e tirò indietro la testa, chiuse gli occhi e fece scattare in avanti la fronte. Colpì suo padre sul setto nasale e sentì un rumore sgradevole, come quando si rompono gli ossicini del pollo. Avvertì solamente un leggero formicolio in mezzo alla fronte. Rino fece un passo indietro come un pugile che ha preso una sveglia, si mise le mani sul naso, inghiottì un urlo e divenne tutto paonazzo. Quando se le tolse aveva due rivoli di sangue che gli uscivano dalle narici. Cristiano lo abbracciò. «Scusami, papà, mi dispiace...»
Rino lo strinse a sé, gli carezzò i capelli e con una
voce gutturale disse: «Bravo! Credo che mi hai rotto il naso».
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