Copertina
Autore Niccolò Ammaniti
Titolo Il momento è delicato
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Stile Libero Big , pag. 370, cop.fle., dim. 13,8x21,6x2,2 cm , Isbn 978-88-06-21240-7
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa italiana
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Indice


  V  E se...

     Il momento è delicato

  3  Giochiamo? scritto con Antonio Manzini
 43  Un uccello molto serio
 55  Amore e pipistrelli
 61  La medicina del momento
 69  Respira. Piano. Ma respira
 77  Alba tragica
 97  A letto col nemico
109  La figlia di Shiva
119  Fa un po' male
161  Rane e girini
257  L'amico di Jeffrey Dahmer è l'amico mio
285  Gelida manina
297  Racconto per bambini cattivi
303  Il Festival Piú Importante Del Mondo
317  Sei il mio tesoro scritto con Antonio Manzini
363  Apocalisse


 

 

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Pagina 5

Giochiamo?



I.

Nonna Flaminia a ottantasei anni teneva ancora botta. Le avevano portato via un paio di metri d'intestino, ma resisteva in quel letto del policlinico, attaccata alla vita come una zecca.

Suo nipote, Fabietto Ricotti, le era seduto accanto. In mano stringeva un libro ingiallito dall'uso. - Nonna, allora, vuoi che ti leggo una favola?

La donna con le braccia lungo i fianchi respirava a fatica nella maschera a ossigeno.

Fabietto spostò lo sgabello e si fece piú vicino.

Aveva gli occhi socchiusi e non si capiva se fosse sveglia o stesse dormendo.

Il padre a Fabietto l'aveva detto: «Tua nonna è una Ricotti. Ricordati che al tuo bisnonno sul Grappa gli hanno sparato in petto, è tornato a casa e ha fatto sei figli. Noi siamo duri a crepare».

- Nonna, sei sveglia?

L'avevano imbottita di morfina e chissà se capiva qualcosa.

Vabbè, io gliela leggo, almeno passa il tempo... si disse Fabietto e attaccò a leggere.


Tutti i giorni dopo la scuola i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta. Qua e là spuntavano fiori simili a stelle. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini smettevano di giocare per ascoltarli.

- Quanto siamo felici qui! - si dicevano.

Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, una visita che era durata sette anni.

- Che fate voi qui? - domandò con voce burbera e cosí i bambini scapparono.

- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante. - Lo sanno tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro.

Cosí costruí un muro tutto 'intorno e vi affisse un avviso:

GLI INTRUSI SARANNO PUNITI

Era un gigante molto egoista.

I poveri bambini non sapevano piú dove giocare. Cercarono di giocare in strada, ma era polverosa e piena di sassi. Dopo la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del giardino.

- Com 'eravamo felici! - si dicevano.

Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini.

Solo nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi si scordarono di fiorire.

Soltanto la neve e il ghiaccio erano soddisfatti. - La primavera ha dimenticato questo giardino! - esclamarono. - Perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.

Invitarono il vento del Nord. Esso arrivò, avvolto in una pesante pelliccia, e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.

- È un luogo delizioso, - disse. - Dobbiamo invitare anche la grandine.

E la grandine arrivò. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole.

- Non capisco perché la primavera tardi tanto a venire, - diceva il gigante egoista guardando dalla finestra il suo giardino gelato e bianco. - Mi auguro che il tempo cambi.


Fabietto sbuffando chiuse il libro.

Troppo caldo. Magari la neve e il ghiaccio venissero ad abitare al policlinico.

Nonna Flaminia russava. E pensare che nemmeno quindici anni prima era lei a leggergli le favole d'estate nell'appartamento vicino alla pineta di Torvajanica.

Proprio da questo libro qua. Lo poggiò sul tavolino e guardò l'orologio. Mancavano ancora tre ore prima che sua sorella Lisa gli desse il cambio.

Raccattò da terra «Quattroruote». Sfogliò per la centesima volta la maxiprova dei Suv.

Non c'era storia, il Cayenne dava in culo a tutti.

Solo che il Cayenne gli albanesi te lo inculano che è una bellezza e te lo ritrovi a Tirana carico di cipolle. Mi potrei fare il Rav4 della Toyota. Ha un ottimo rapporto qualità prezzo.

Erano pensieri in libertà. Le condizioni economiche di Fabietto Ricotti sfioravano l'indigenza. Non era nemmeno riuscito a rimediare cinquecento euro per farsi una settimana a Creta con la fidanzata Alexia.

Prese il cellulare e cercò sulla rubrica il numero di Alexia, ma rimase a lungo con il dito sul tasto di chiamata e poi rinunciò.

Costava troppo e quella cretina non aveva attivato nemmeno l'offerta Summer Passport.

Ma un sms però potrei mandarglielo.

Era partita da tre giorni e non era riuscito ancora a parlarci. Le aveva spedito una decina di sms senza ricevere uno straccio di risposta.

Forse a Creta non c'è campo. O forse li legge e non risponde.

Al pensiero di essere ignorato, gli risali un gas acido dallo stomaco.

I cornetti mi fanno venire la gastrite, perché continuo a mangiarli?

La verità era che gli mancava da morire la sua puffetta e questa cosa gli procurava la colite nervosa.

Io non sono mai stato male per una donna in vita mia, che è 'sta novità?

Era sempre stato un sostenitore accanito della coppia aperta.

«Alexia, ascoltami, se stiamo sempre appiccicati ci stufiamo subito. Se uno vuole farsi un viaggio da solo, o uscire due volte a settimana con gli amici, è una cosa normale. Se uno si fida dell'altro che problema c'è?» le aveva detto quando si erano fidanzati sei mesi prima.

Il problema invece c'era.

Alexia aveva preso un po' troppo alla lettera questo discorso. Si faceva i cazzi suoi alla grande, talmente alla grande che a Fabietto cominciavano a girare le palle.

Questa impostazione moderna al rapporto, Fabietto l'aveva data pensando di farsi l'estate a Minsk con gli amici a rimorchiare le bielorusse e che Alexia sarebbe andata come sempre a Soverato dai nonni.

Ma il destino aveva scompigliato tutti i suoi progetti.

Lei se n'era andata con quelle della palestra in Grecia, e lui era inchiodato al capezzale di sua nonna senza una lira.

Topolone, un amico che la sapeva lunga, lo aveva avvertito. «A Fabie', ma che stai a fare? Se te alle donne gli dai la libertà, quelle se la prendono e non le rivedi piú».

La prova che Topolone aveva ragione era che Alexia non rispondeva ai messaggini. E che a Creta non c'era campo era una stronzata, quelli del punto Tim di piazza Bologna gli avevano detto che l'isola era coperta.

Se la vedeva Alexia insieme a Lalla e Loredana con le tette all'aria sulla spiaggia di Xanià a fare le idiote coi turisti tedeschi.

Si mise una mano sulla fronte.

Che cazzata che ho fatto!

Devo raggiungerla. Cosí non posso andare avanti. Le faccio una bella sorpresa. Sai come ci rimane contenta Alexia?

Il problema però era che i soldi per andare in Grecia pure con il piú sfigato dei charter non li avrebbe mai trovati. Li aveva chiesti in prestito a Lisa, ma quella stava messa peggio di lui.

Non gli restava che friggere e guardare sua nonna che moriva.

Se almeno mi facessi una storiella estiva con una rizzacazzi qualsiasi.

Ma Roberta era a Riccione e Giovanna era partita per la Spagna. Aveva conosciuto li al reparto un'infermiera, una biondina di Ceccano che forse ci stava, ma era andata in ferie pure lei.

Fabietto si passò le mani nei capelli. Erano bagnati. C'era un'umidità in quel posto che ci crescevano i licheni sulle pareti. Aveva letto da qualche parte che con l'umidità il calore si moltiplica per tre, una cosa del genere.

Questa è la sanità italiana. Bravi. E noi ancora che paghiamo le tasse.

Si alzò e cercò di regolare il condizionatore d'aria. Era scassato. Faceva il rumore di un'impastatrice di cemento.

- Flavio! Flavio! Il cane non deve stare sul letto. Fabietto fece un salto per lo spavento.

La mummia nel letto accanto a sua nonna era resuscitata.

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Pagina 163

Rane e girini



Michele entrò in camera. In mano stringeva un manico di scopa spezzato. Come prima cosa prese a bastonate un po' tutti i mobili della stanza. Poi sali in piedi sulla vecchia poltrona di pelle vicino alla finestra.

- Pippo, Pippo, guarda che ho inventato! - disse.

Suo fratello Filippo stava sdraiato sul letto a leggere per la centesima volta Asterix in Corsica.

- Che vuoi?

- Ho fatto un'invenzione nuova. Vieni a vedere.

Michele inventava di tutto: un frullatore che funzionava da ventilatore, una scatola di scarpe con dentro un kit di sopravvivenza nel caso in cui uno si fosse perso in bagno o in cucina, una slitta di stracci con cui aveva rotto la vetrata del corridoio e uno spara-batterie fatto con un tubo dell'acqua con cui aveva quasi fatto secca sua sorella Roberta.

Michele aveva dieci anni e Filippo dodici.

- Ho inventato un telecomando. Un telecomando per la televisione.

Quella del telecomando era un'annosa e lunga questione.

La famiglia di Filippo aveva da tempo immemorabile un vecchio e scassato televisore in bianco e nero Grundig.

Sembrava sempre che dentro quell'apparecchio nevicasse. Tutto: i film, i documentari, il telegiornale avevano qualcosa di nebbioso, come se i programmi si svolgessero in mezzo a una bufera di neve.

L'acquisto di un televisore a colori veniva rimandato dal padre di Filippo con regolarità al Natale successivo ma a pochi giorni dal 25 dicembre spuntavano fuori spese impreviste: tasse, debiti, rate e l'acquisto si rimandava all'anno successivo.

Filippo e Michele invidiavano un sacco Pietro, il bambino che abitava al terzo piano. I suoi genitori avevano in salotto una specie di gigantesco scatolone americano con un telecomando che sembrava una macchina da scrivere.

- Vieni, vieni, - lo pregò Michele con la sua voce lamentosa.

Afferrò per una manica il fratello e lo trascinò a forza in salotto.

- Guarda.

Si sedette a tavola.

Allungò un braccio e con la mazza colpi il televisore un paio di volte facendo un baccano infernale. Alla terza botta, finalmente, centrò il pulsante di accensione. La tele si illuminò.

Furia, il cavallo del West, nitrí dallo schermo.

- Guarda.

Colpi ancora la grossa pulsantiera dei canali. Primo, secondo, reti private.

- È un telecomando.

- Come è un telecomando?

- Si, è un telecomando di legno, - disse Michele mentre un sorriso che andava da un orecchio all'altro gli deformava la faccia. Si aggiustò gli occhiali di ferro sul naso e si rimise su la frangetta.

- Com'è questa invenzione? - continuò.

Filippo prese il manico della scopa, si sedette anche lui a tavola e assestò un paio di colpi all'apparecchio facendolo vacillare.

Sí, si riusciva a cambiare. Si poteva mangiare e comodamente cambiare canale.

Suo fratello era un genio.

- Molto buona. Sai che facciamo? La regaliamo a papà questa sera.

- Va bene. Però gli dici che l'ho inventata io.

- Si.

Il padre di Michele e Filippo, il signor Mario D'Antoni, non si vedeva spesso a casa in quel periodo. Aveva da poco aperto con un suo amico un'agenzia di viaggi e tornava la sera distrutto e spesso di malumore. Gli affari non gli andavano molto bene.

Ma quella era una giornata particolare e il signor D'Antoni sarebbe stato conciliante.

Era sabato. E il sabato alla tele c'era Sandokan e i pirati della Malesia. Filippo contava i giorni tra una puntata e l'altra.

Per cena si riuní tutta la famiglia.

Filippo, Michele, Roberta, la sorella di sedici anni, la signora e il signor D'Antoni. Tutti appiccicati allo schermo a guardare lo sceneggiato. Sandokan piaceva a tutti e la mamma di Filippo preparava per l'occasione la famosa «pasta alla Sandokan», che poi non era nient'altro che pasta al burro, parmigiano e basilico.

Filippo era molto eccitato e contento anche perché il giorno dopo, domenica, era in programma una gita in campagna.

La famiglia D'Antoni era alla ricerca del posto ideale per fare un picnic. Una consuetudine smentita solo dalle domeniche piovose o troppo fredde.

Filippo adorava la campagna e quello che piú gli piaceva era fare da avanguardia al suo drappello di parenti e cercare i posti migliori dove farli accampare. Correva in avanti con suo fratello alle costole e lanciava bombe a mano, guardava la bussola e ogni tanto saltava in aria colpito dalle mine antiuomo.

- Domani dove andiamo a fare la gita? - domandò al padre.

- Domani andremo vicino Tuscania, risaliremo un torrente a valle e cercheremo le famose grotte dove vive l'orso laziale dai denti a sciabola.

Il padre di Filippo e Michele riusciva sempre a dare un tono epico alle loro gite fuori porta. La settimana prima erano stati a Tarquinia nella necropoli a cercare il fantasma del «lucumone», l'antico re degli Etruschi.

Entrò la madre di Filippo con una zuppiera tra le mani. La posò al centro della tavola.

Filippo si gettò sul cibo. Si riempi il piatto e se lo mise davanti.

- Aspetta Filippo! Servi prima gli altri. Io non capisco come mai sei cosí maleducato, - gli disse la madre sbuffando.

Filippo prese il piatto che aveva davanti e lo passò a suo fratello. Poi cominciò a prepararne un altro per la sorella.

- Papà. Papà. Abbiamo un regalo per te, - disse improvvisamente Michele con il boccone in bocca.

Il bambino si alzò e tornò poco dopo con il manico di scopa avvolto nella carta da pacchi. Si sedette.

- Tieni.

- Che cos'è? - fece il padre poco convinto. C'era il telegiornale.

- Apri.

Il signor D'Antoni strappò rapidamente la carta e tirò fuori il manico di scopa. Poi lo poggiò contro il muro e riprendendo a guardare la televisione disse:

- È un bellissimo regalo ma ora mangia la pasta perché se no si raffredda. E poi non ti alzare da tavola.

- Guarda papà.

Michele scese di nuovo dalla sedia e corse dal padre.

- Ho detto di non alzarti da tavola. Cristo.

Michele afferrò con due mani il manico, lo portò sopra la testa, si alzò in punta di piedi e prese la mira.

E poi colpi.

- Guard... - la parola gli si ruppe in bocca.

Non colpi il televisore.

Era troppo lontano e Michele era troppo in basso. Colpí la tavola. Il manico della scopa come una mannaia si abbatté sul centro della tavola.

La zuppiera con la «pasta alla Sandokan» si apri in due spargendo pasta sulla tovaglia. Il bicchiere di sua sorella Roberta schizzò in aria in mille pezzi. La bottiglia dell'olio rotolò fino al bordo del tavolo e precipitò sulla camicia del padre.

Ci fu un attimo di silenzio. Tutto sembrava essersi fermato nella stanza.

La signora D'Antoni a bocca aperta con la bottiglia di vino in mano. Il signor D'Antoni che si reggeva orripilato la camicia unta. Roberta D'Antoni che guardava i pezzi di bicchiere sparsi tra gli spaghetti.

- Micheleeeee! - urlò Mario D'Antoni.

- Michele sei il solito deficiente, - gli ragliò dietro Roberta.

- La mia zuppiera di Vietri, - si lamentò la signora Gabriella.

Filippo si mise le mani nei capelli.

È morto. Mio fratello è morto.

Si sentiva vagamente colpevole, mortificato, per quello che aveva fatto suo fratello. Lui non c'entrava niente se suo fratello era un cretino ma nonostante questo aveva dentro qualcosa simile alla colpa.

È colpa mia. Gliel'ho detto io.

Michele fu il primo a riprendersi.

- Mamma! Mamma te la incollo io la zuppiera. Che ho fatto! - miagolò. Poi guardò meglio il disastro che aveva combinato e scoppiò a piangere.

Filippo si alzò e cominciò a raccogliere la pasta dal tavolo.

- Non mettere le mani lí! È pieno di vetri. Ti tagli, - gli urlò sua madre.

Michele continuava a piangere. Roberta dall'orrore era passata al riso che nascondeva con una mano davanti alla bocca.

- Smettila di frignare. Ma sei impazzito. Guarda che hai fatto, - fece il signor D'Antoni. Stava seduto al suo posto con un ghigno sulla bocca a metà tra il disperato e il furioso.

- Ma papà... - singhiozzava Michele.

- Guarda che mi ha fatto alla camicia. È da buttare. Gabriella non dirmi che non si può lavare.

- E che ti devo dire, Mario. Quella neanche in lavanderia...

Filippo si avvicinò al fratello e cercò di consolarlo. Ma Michele aveva attaccato con uno di quei pianti diluviali che non terminavano mai.

- Dài Michi, smettila. È solo che hai sbagliato il col- po... Ma il telecomando è mitico.

Gli faceva pena suo fratello. Non ne combinava mai una buona. Aveva delle intuizioni geniali che finivano sempre in un guaio. E questo era proprio bello grosso.

- Io sono stanco. Non ce la faccio piú. Lavoro come uno schiavo. Voi mi volete far morire... Questi due mi faranno venire un infarto... Non imparano niente, - continuò affranto il signor D'Antoni.

Perché mi ci mette dentro sempre anche me quando si arrabbia con Michele? Io che cosa c'entro? pensò Filippo. Voleva chiederglielo ma non era il caso. Era meglio farlo sfogare. Era meglio stare zitto e aspettare che la bufera passasse, che cacciasse fuori tutto il nero che aveva dentro, poi forse ci poteva parlare di nuovo.

Intanto alla televisione era incominciato Sandokan. Nessuno sembrava farci caso.

Roberta e la madre sparecchiavano. Il padre continuava a strillare. Era una specie di ciclone che si autorigenerava.

- Papà guarda che Michele ti voleva fare un regalo, - balbettò timidamente Filippo.

Il signor D'Antoni si voltò e guardò il figlio con una smorfia ironica e cattiva. Sí, sembrava veramente cattivo.

- Ah, un regalo? È un regalo prendere a bastonate la tavola?

- No, papà, lui voleva solo cambiare canale. Il bastone può funzionare come un telecomando.

- Adesso basta. Stai zitto. Non voglio piú sentirvi, - e poi rivolgendosi alla moglie: - Gabriella portami una camicia pulita.

- Ma io che c'entro? Io non ho fatto niente, - continuò Filippo. Sentiva la gola chiudersi e il pianto montargli su come una marea inarrestabile. Stava per piangere. E non voleva piangere.

- Ho detto che non voglio sentirvi. Andate in camera.

- Ma io che c'entro?

- Sei grande. Non sei piú un bambino. Ti devi occupare di tuo fratello. Se lui fa delle stupidaggini, tu devi dirgli di non farle. Hai capito?

- Ogni volta, alla fine, è colpa mia. È sempre colpa mia, - disse Filippo piangendo.

Il pianto era arrivato e con questo la rabbia. Rabbia verso suo padre che non capiva. Che ogni volta non capiva. Che ogni volta lo incolpava ingiustamente.

Perché?

Perché?

Senti dentro una strana voglia. Una voglia perfida di riprendere il bastone e incominciare a menare colpi sul tavolo, sul televisore fino a farlo esplodere, su tutto. Ricacciò a forza le lacrime dentro.

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Pagina 230

5.


    Matematica          4
    Fisica              5
    Scienze naturali    6
    Storia              4
    Filosofia           5
    Italiano            5
    Rel...

Lorenzo finí di leggere la pagella. La chiuse, la mise sul banco e ci poggiò le mani sopra.

Si morse un labbro.

Bene. Peggio di cosí non poteva andare. Ho fatto lo schifo. Roba che se mio padre la legge lo portano diretto al policlinico.

Aveva fatto bene a prepare la valigia e prendere con sé tutti i risparmi. L'aveva sotto il banco, la valigia, tra le gambe. Gli dava sicurezza. Là dentro aveva tutto l'indispensabile.

Quella vecchia troia della professoressa di italiano gli si avvicinò quasi rimbalzando e lo guardò attraverso i suoi orrendi occhiali con i diamantini appiccicati sulla montatura. Strizzò placida gli occhioni da soriano castrato.

Lorenzo le sorrise buono.

Bastarda!

Tutti gli alunni della II C puntavano lo sguardo sopra la propria pagella.

Alcuni con un sorriso di soddisfazione sulla bocca e altri, come Lorenzo, meno.

La Rossi con uno slancio che voleva essere giovanile si sedette su un banco vuoto in fondo all'aula. Aveva una minigonna spaventosa da cui uscivano due cotechini infilati dentro calze a rete color crema.

- Silenzio. Ascoltatemi! - gracchiò rauca alla classe.

La classe si fece zitta e ventitre teste si girarono verso il banco su cui era seduta la professoressa.

- Devo dire che quest'anno le cose sono andate un po' meno peggio dell'altro anno. Non so come mai, non credo che sia dovuto a un maggiore impegno da parte vostra, piuttosto preferisco pensare a qualche contingenza astrale o che so io. Ma la media di questa classe è senz'altro migliorata. Me ne rallegro.

Ci fu un brusio che doveva essere la media soddisfazione della classe. La Rossi aspettò che passasse e poi riprese:

- Aspettate. Aspettate. Esistono comunque dei casi irrecuperabili che si contraddistinguono per la loro capacità di fare male con costanza. Vorrei parlare, ad esempio, del nostro benamato Valli, il nostro campione...

Gli sguardi della classe si spostarono dalla professoressa a Lorenzo. Risate.

Lorenzo, con tutto il suo metro e ottanta, si chiuse su se stesso, si aggiustò gli occhiali tondi sul naso ossuto e tagliente e poi accennò come un inchino di ringraziamento levandosi un immaginario cappello.

La classe scoppiò in un boato.

- Fortunatamente Valli ha dello spirito. Non credo comunque che per lui ci siano grandi possibilità di passare l'anno. Anzi, anche se mancano quattro mesi alla fine dell'anno, gli consiglio di non studiare piú... tanto! Quelle di Valli sono braccia rubate all'agricoltura. Non tutti devono studiare e il liceo non è una scuola dell'obbligo ricordatev...

- Professoressa posso dire una cosa? - la interruppe Lorenzo con la voce un poco tremula. Steso sul banco, teneva la mano alzata e la reggeva con l'altra.

- Come no! Parla... parla, ti prego!

La Rossi sembrava incuriosita. Una smorfia vagamente compiaciuta le si dipinse sulla bocca. Nella classe ora non volava una mosca.

- Be' vorrei dirle che lei ha ragione. È inutile che io studi. Riconosco le mie colpe. Ma le devo dire un'altra cosa. Lei è una zitella inacidita da troppi anni d'insegnamento. Lei non capisce niente... Non sa niente di me. Ripete a pappardella ogni anno sempre le stesse cose. Lei non è una donna, è un computer. Lei non ama quello che insegna. Lei non lo sa ma è morta da un sacco di tempo. A lei Dante fa schifo piú che a me...

La Rossi spalancò gli occhi da tartaruga fino a trasformarli in due fari. La bocca aperta su residui di denti. Le mani, due chele di granchio. Non riusciva a parlare. Prese fiato e per un attimo alla classe sembrò che svenisse sul banco, li come un rinoceronte a cui hanno sparato un proiettile narcotizzante, ma poi:

- DAL PREEESIDEEE!!!

Un grido rauco, distorto, da bufalo ferito a morte.

Lorenzo prese la sua valigia, si infilò il cappotto, si annodò la sciarpa in un silenzio innaturale. Ora gli occhi dell'intera classe erano puntati su di lui, ma in maniera diversa, con rispetto.

Un pezzo da pazzo cosí non l'aveva mai fatto.

Apri la porta, usci e se la chiuse alle spalle. Riprese fiato. Aveva detto tutto quello in apnea.

Improvvisamente, oltre la porta, rimbombarono le grida dei suoi compagni. La Rossi urlava:

- Basta! Basta! State seduti. Anche tu e tu dal preside!

Ora Lorenzo correva con passi lunghi e molleggiati nel corridoio mentre le porte delle aule si aprivano e ne uscivano fuori i professori allarmati. Cos'era quel bordello?

Balzò. Con una mano colpi la vecchia lampada di alluminio all'ingresso del corridoio. Una perfetta schiacciata. La lampada ondeggiò paurosamente fino a infrangersi nei vetri della finestra. Lorenzo ricadde a terra sotto una pioggia di cristallo. Gli urlarono dietro di fermarsi.

Attraversò il cortile, il campo da basket, con la valigia appoggiata alla schiena.

Dalle finestre della sua classe si sporgevano i compagni. Lo salutarono e gli fischiarono. Gli urlarono che era un mito e lanciarono le cartelle di sotto.

Un autobus passò davanti alla scuola. Lorenzo lo inseguí di corsa fino alla fermata. Ci montò sopra. Era pieno di gente, gente che andava a lavorare. Si mise in un angolo e chiuse gli occhi. Rivide mille volte la scena di lui che usciva dalla classe, della Rossi paonazza.

Avrebbe voluto ascoltare i commenti fatti a ricreazione e nei giorni dopo a scuola sul suo gesto eroico.

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