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| << | < | > | >> |IndicePresentazione dell'edizione italiana 7 di Rolo Diez Introduzione 15 I. Il sequestro 19 II. Orletti 39 III. L'invasione 51 IV. Punta de Rieles 83 V. La libertà 111 VI. La ricerca 121 VII. Gerardo 143 VIII. L'incontro 155 Bibliografia 173 |
| << | < | > | >> |Pagina 14Questo non è un racconto su Sara, è la storia di Sara. Quasi tutte le vicende riferite sono viste con i suoi occhi, ascoltate con le sue orecchie, sentite con il suo cuore. Suoi sono gli urli e i silenzi. Non c'è neutralità nel punto di vista, bensì impegno dichiarato. Non c'è ricerca graduale di una verità sfuggente. È semplicemente la storia di una madre che cerca suo figlio. È questa la verità.| << | < | > | >> |Pagina 15Buenos Aires, 1976. Esibite o nascoste, le armi mettevano in allarme le strade. La paura e la polvere da sparo impregnavano l'aria, i muri e le facce. La violenza, in realtà, non era una novità in Argentina, durava almeno da quarant'anni. Adesso però era diverso, si trattava di vero terrore. La sinistra AAA (Alianza Anticomunista Argentina), organizzazione che riuniva poliziotti, peronisti di destra e fondamentalisti di estrema destra, fondata dall'allora ministro della Previdenza sociale José López Rega - noto anche come «el Brujo», lo stregone, per la sua devozione alla pratica di culti esoterici - e dal nazista Aníbal Gordon, aveva già inaugurato nel 1974 il metodo del sequestro degli oppositori, cui seguivano l'assassinio o la scomparsa. López Rega era stato un oscuro caporale di polizia a riposo prima di guadagnarsi la fiducia di Juan Domingo Perón durante l'esilio e, soprattutto, quella di sua moglie, María Estela Martínez Perón, «Isabelita» per il popolo. Nel maggio 1974, alla presidenza della Repubblica, Perón lo promosse da caporale a commissario generale, facendogli saltare quindici gradi. Nel luglio 1974, dopo la morte del «Generale», «Isabelita» assunse la presidenza, e insieme a lei i settori fascisti del peronismo. Nel settembre di quello stesso anno si contavano già centotrenta assassinati dalla «Triple A» e numerosi intellettuali, docenti e artisti avevano preso la via dell'esilio dopo aver ricevuto minacce di morte. Il governo di «Isabelita» chiuse giornali, si intromise nelle università e coprì il massacro degli oppositori, mentre veniva sommerso da accuse di corruzione. Intanto i movimenti guerriglieri - fondamentalmente, l'Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP), trotzkista, e i Montoneros (peronisti di sinistra) - intensificavano le attività e gli attentati. López Rega cadde in disgrazia nel luglio 1975, in seguito a lotte interne al peronismo, e si ritirò negli Stati Uniti, ma non per questo l'AAA smise di operare. I militari continuarono a conquistarsi progressivamente spazi finché si fecero carico della lotta contro la guerriglia in tutto il Paese. Il governo era in bilico. Agli inizi di marzo del 1976 il quotidiano del mattino di Buenos Aires, «La Prensa» informò che, secondo un calcolo delle «forze di sicurezza», negli ultimi tre anni erano morte «per motivi politici» 1.358 persone, fra cui 1.122 civili. I militari argentini, abituati a un ruolo da protagonisti nella vita politica del Paese, destituirono il governo peronista il 24 marzo 1976 e una giunta di comandanti militari designò presidente della Repubblica il generale Jorge Rafael Videla. A partire da quel momento le bande paramilitari furono integrate in un vero e proprio piano di sterminio orchestrato dalle forze armate stesse. I gruppi operativi congiunti ebbero a disposizione non solo l'infrastruttura militare, ma anche le risorse e la copertura dello Stato. I commando sequestravano gli oppositori di giorno e di notte, nelle loro case, sui posti di lavoro o per strada, e godevano di assoluta impunità. I militari uruguayani, al potere già dal 1973, erano riusciti a stabilire qualche contatto con le prime bande paramilitari argentine. Grazie a ciò, nel 1975 riuscirono ad ammazzare diversi oppositori loro connazionali che vivevano in esilio a Buenos Aires. Ma questa era l'occasione per operare su grande scala. E non la sprecarono. Il 7 maggio, quarantacinque giorni dopo il colpo di Stato, l'allora cancelliere uruguayano Juan Carlos Blanco si recò a Buenos Aires, dove incontrò il suo omologo argentino e le alte gerarchie militari, forse per concordare qualche dettaglio politico e diplomatico prima di scatenare la muta. L'accordo fu siglato: i commando uruguayani furono autorizzati ad agire liberamente in territorio argentino godendo dell'appoggio logistico delle forze locali. I risultati non si fecero attendere: quindici giorni dopo quell'incontro furono sequestrati nei rispettivi domicili a Buenos Aires e successivamente assassinati il senatore Zelmar Michelini, ex ministro e figura di primo piano del tradizionale Partido Colorado, che aveva abbandonato nel 1971 per fondare insieme ad altri esponenti politici il Frente Amplio, e il deputato Héctor Gutiérrez Ruiz, giovane e brillante parlamentare del Partido Nacional. I loro cadaveri furono ritrovati in un'auto accanto a quelli di altri due uruguayani: Rosario Barredo e William Whitelaw. Il candidato alla presidenza del Partido Nacional, Wilson Ferreira Aldunate, era il quinto nella lista nera di quella notte, ma riuscì a sfuggire miracolosamente e cercò rifugio in Europa. Come tanti altri uruguayani, anche loro dopo il colpo di Stato avevano optato per l'esilio, e di lì denunciavano costantemente il regime militare. Da quel momento in poi, centinaia di uruguayani esiliati a Buenos Aires avrebbero subìto persecuzioni, torture, esecuzioni o sarebbero scomparsi come risultato di un piano di sterminio degli oppositori divenuto noto come «la guerra sucia», la guerra sporca, che contemplava fra l'altro la cooperazione fra gli eserciti delle dittature della regione, un coordinamento delle forze repressive denominato «Operazione Condor». La guerra sporca regionale - il cui scenario principale fu Buenos Aires - aveva vari obiettivi. Forse il più sinistro era quello concernente i bambini: anche contro di loro venne applicata una politica sistematica di sequestri e sparizioni, con la variante che spesso erano tenuti in vita e consegnati a famiglie di responsabili della repressione. I bambini erano considerati alla stregua di «bottino di guerra», e il loro sequestro acquisiva il significato di aggiungere all'eliminazione fisica una sorta di «scomparsa morale» del «nemico», poiché i suoi discendenti sarebbero stati educati in un sistema di idee e valori che non solo giustificava l'assassinio dei loro veri genitori, ma proclama altresì la volontà di rifarlo nel caso lo si fosse ritenuto necessario. L'effetto più perverso di quella politica è che sicuramente molti dei bambini che non sono ancora stati ritrovati interpretano quella fase della storia recente secondo il punto di vista dei loro carnefici: inconsapevolmente, forse giudicheranno i veri genitori alla stregua di «terroristi», «assassini», «traditori della patria», utilizzando gli stessi concetti di discriminazione politica con i quali si è preteso giustificare un genocidio di cui essi sono, in realtà, vittime. A quell'epoca scomparvero in Argentina (secondo un elenco parziale elaborato dalle Abuelas di Plaza de Mayo*) settantadue bambini: quaranta sono stati ritrovati, sei sono risultati morti, ventisei non sono ancora stati individuati. Furono inoltre sequestrate centotrentuno donne incinte e vi sono prove che la maggioranza partorì. Di quei bambini nati in cattività finora ne sono stati identificati solo quattro. La guerra sporca fu condotta anche contro i bambini. Sara e Simón sono due delle sue vittime. | << | < | > | >> |Pagina 19Quella sensazione contraddittoria in certi momenti s'impadroniva di tutta la sua coscienza. L'aria, eccezionalmente fredda e asciutta, le entrava dritta nei polmoni, accrescendo il senso di benessere del suo corpo ben coperto, protetto. Le piaceva immaginare di essere il cappotto umano del bambino che portava nel grembo in quell'inverno quanto mai minaccioso. E le piaceva ancor di più pensare che entro un paio di settimane, finalmente, avrebbe conosciuto il suo primo figlio. Le cose erano cambiate parecchio nel giro di pochi mesi. Era il giugno del 1976, l'inizio del periodo più critico della guerra sporca a Buenos Aires. Sara però, che era incinta, aveva l'impressione di essere quasi invulnerabile. Il carrello della spesa carico di frutta e verdura che si trascinava dietro rivelava tutte le mattonelle sconnesse, tutte le irregolarità del sentiero. Camminava lentamente, guardando il cielo fra i rami spogli, ascoltando i rumori attutiti delle persone che vivevano dietro le finestre chiuse, i frammenti delle conversazioni fra vicine di casa che a quell'ora si mettevano già a spazzare il marciapiede. Aveva sempre odiato le confidenze di scopa, ma adesso ne aveva nostalgia; appartenevano a un paesaggio, a uno stile di vita che non avrebbe mai abbandonato se non fosse stato per la minaccia del carcere e della morte. Aveva ventinove anni, nell'aprile 1973, quando le Fuerzas Conjuntas uruguayane (un organismo di coordinamento fra polizia e forze armate) avevano sollecitato pubblicamente la sua cattura. Da allora, come altre migliaia di suoi connazionali, viveva in esilio in Argentina. Non era pentita della scelta fatta quand'era ancora una ragazzina: appena iniziati gli studi per diventare maestra aveva deciso di impegnarsi nelle lotte sociali e politiche e si era inserita nell'attività sindacale con la Agrupación 3, un'organizzazione con tendenze anarchiche. Il suo carattere l'aveva sempre indotta a preferire le opzioni chiare, a rifiutare i patteggiamenti, che a suo modo di vedere finivano sempre per compromettere i principi. Fra gli anarchici, inoltre, aveva trovato un amore sconfinato per la libertà, una libertà che la sua vita personale reclamava a gran voce. Cominciò a militare con loro perché le piaceva la loro compagnia, il loro modo particolare di mettere tutto in discussione e di proporre un mondo così nuovo che a volte non riusciva nemmeno a immaginarlo. Si sentiva in profonda sintonia con i concetti di generosità e solidarietà praticati nella loro vita quotidiana dagli anarchici più anziani, che molti chiamavano «i maestri». | << | < | > | >> |Pagina 33I membri del commando abbandonarono per il momento le due donne e con la stessa violenza che avevano esercitato contro di loro si misero a perquisire minuziosamente tutt'intorno. Spaccarono i mobili, sventrarono i materassi con i coltelli, fecero saltare gli infissi delle porte, sfondarono gli armadi a muro. Nulla sfuggì alla perquisizione. «Signora, prenda il bambino» disse Gordon, che fino a pochi minuti prima l'aveva picchiata brutalmente. Voleva perquisire la culla. Sul letto c'era un bambolotto che Mauricio aveva comprato per Simón. Uno degli uomini lo prese per i capelli e con una mossa rapida e brusca gli tagliò la testa con un coltello per controllare l'interno. Non ci trovò niente.Sara era seduta sul pavimento, rannicchiata in un angolo della camera da letto. Le sanguinavano la bocca e il naso, ma non se ne rese conto finché non vide le macchie sugli indumenti di Simón. Non sentiva dolore. Sapeva che poteva sperare di vivere ancora solo pochi giorni e che l'avrebbero torturata selvaggiamente. Il suo nome sarebbe stato uno in più nella lista dei desaparecidos. Pensò alla sua famiglia, a Mauricio, e si aggrappò al corpicino del figlio. Lui doveva sopravvivere. Simón doveva vivere. Se lo stringeva al petto. Ormai non sarebbe più stata il suo cappotto. Ormai non avrebbe più potuto proteggerlo, allattarlo, crescerlo. Ma voleva credere che quella non sarebbe stata la sua fine. Sentì qualcuno dire qualcosa a proposito del «trasferimento». Strinse Simón più forte e chiuse gli occhi. Gavazzo entrò nella stanza. «Meglio se lo lasci, dove vai non puoi portarlo con te. Lui starà bene, non preoccuparti. Questa guerra non è contro i bambini». Sara non rispose. Si prese tutto il tempo che poté, ma il tempo finì. Alcune mani si avvicinarono per toglierle Simón, ma lei gli si aggrappò e dovettero colpirla per strapparglielo. Fu l'ultima volta che Sara e Simón si abbracciarono, si baciarono. Molto tempo dopo, quando ebbe sufficiente tranquillità di spirito per analizzare tutto quello che aveva vissuto, Sara si fece dei sensi di colpa per non aver lottato con maggior forza per impedire che la separassero da suo figlio. Aveva impresso nella memoria il caso di Margarita Michelini, sequestrata anche lei quella stessa notte da un altro gruppo: la donna urlò e si dibatté tanto che gli uomini che la catturarono le permisero di consegnare il figlioletto a dei vicini di casa prima di salire sull'auto che l'avrebbe portata verso una destinazione ignota. Pochi giorni dopo il bambino fu recuperato dalla famiglia Michelini. Era una conclusione talmente dolorosa che Sara ci arrivò lentamente, nel corso di vari anni. Alla fine si rese conto che il suo atteggiamento era stato originato dal fatalismo con cui aveva vissuto quel momento: era convinta che la sua vita sarebbe terminata in qualche meandro della lotta e in quell'istante supremo sentì che portare con sé Simón equivaleva a trascinare anche lui verso una morte certa. Ma le sarebbe sempre rimasto un dubbio: quello di non aver utilizzato tutte le possibilità di negoziare che forse esistevano e che lei non aveva esplorato. Le due donne vennero gettate in un furgone con i piedi e le mani legate, imbavagliate e con un sacchetto di nylon sulla testa. Poi i militari caricarono tutti gli oggetti che non erano stati distrutti. Era la loro fetta di bottino. L'automezzo fece varie fermate, e ogni volta si aggiungevano nuovi prigionieri. Nella parte posteriore del furgone non c'era più posto neanche per la paura. Immobilizzata dalle corde e sul punto di soffocare, Sara teneva occupata la mente con una sola idea: risparmiare al massimo tutte le sue energie per tentare la fuga alla prima occasione. Non sapeva da quanto tempo fosse distesa sul fondo del furgone. D'improvviso si accorse che il mezzo si fermava di nuovo; sentì alzarsi una saracinesca e poi il rumore del motore che entrava in un luogo chiuso. Lei non poteva vederla, ma sopra la saracinesca c'era una grossa insegna di latta su cui era dipinta la scritta «Automotores Orletti». Era un centro di detenzione illegale mascherato da officina meccanica che i comandi dell'esercito argentino condividevano con i loro colleghi uruguayani. Fra le abitudini del posto c'era quella di accogliere i nuovi arrivi con un pestaggio. Sara e Asilú non fecero eccezione. | << | < | > | >> |Pagina 65I primi a essere condotti nell'ufficio di «306» - il capitano Martinez - furono Raúl Altuna, Margarita Michelini ed Enrique Rodríguez Larreta junior. L'ufficiale presentò, già scritta, la confessione che dovevano semplicemente firmare. Si voleva fargli sottoscrivere, fra l'altro, che avevano finto di essere stati sequestrati a Buenos Aires in modo da entrare illegalmente in territorio uruguayano per compiere la prima fase di un vasto piano che includeva assassinii, atti di sabotaggio e attentati dinamitardi. Inoltre, dovevano dichiarare che le campagne di denuncia all'estero circa sequestri e sparizioni di cittadini uruguayani in Argentina erano infondate e costituivano soltanto un altro aspetto del medesimo piano.Dopo aver letto il documento, i tre si rifiutarono di firmarlo. Sostennero che, più che una confessione, quel testo era un'accusa contro i loro compagni all'estero. Erano disposti a incolparsi di qualsiasi cosa, ma non si sarebbero prestati a partecipare a una manovra tesa a screditare le organizzazioni di uruguayani in esilio. Del resto - anche se questo non lo dissero - sapevano che quelle denunce erano forse l'unico ostacolo che si frapponeva fra i loro compagni sequestrati e rimasti a Buenos Aires e la morte. «306» rimase sconcertato. Telefonò a Gavazzo e gli raccontò cosa stava succedendo. Per quel pomeriggio non fece più portare prigionieri nel suo studio. Ma di notte, quando erano già state spente le luci, Gavazzo entrò nello stanzone come un turbine, completamente fuori di sé, e ordinò a tutti i prigionieri di alzarsi. La violenza che emanava dalla sua persona era di una tale intensità che perfino i suoi uomini tremavano in simili occasioni. Insultò per diversi minuti i prigionieri e minacciò di ucciderli tutti con le proprie mani se avessero continuato a rifiutarsi di firmare le confessioni, ricordando loro che erano ufficialmente scomparsi e che le loro vite non valevano nulla. Alla fine ordinò di portar via Altuna e Michelini, accusandoli di aver fomentato la ribellione degli altri detenuti e disse che li avrebbe fatti fucilare subito. Edelweis Zahn, che faceva parte del gruppo dei «rimpatriati», cadde a terra svenuta e Gavazzo in persona la fece tornare in sé a furia di sberle. Sara era molto vicina ad Altuna e Michelini e sentì i discorsi della guardia che li stava ammanettando con le mani dietro la schiena per portarli via. Con voce spaventata li incitava a tornare sulla loro decisione, ricordando loro che avevano dei figli, e a non lasciarsi ammazzare per una cosa del genere. Nessuno, in quel momento, né i detenuti né la guardia, dubitava che Gavazzo avrebbe messo in atto la propria minaccia.
Qualche ora dopo, diversi soldati tornarono
trascinandosi appresso Altuna e Michelini. Entrambi erano stati selvaggiamente
torturati da Gavazzo in persona. Sara, sebbene fosse sollevata vedendo che i
suoi compagni erano ancora vivi, quella notte non riuscì a prendere sonno,
soffocata dai sensi di colpa. Si domandava perché nessuno di loro avesse tentato
di impedire quello che tutti pensavano che sarebbe successo. Perché nessuno
aveva almeno gridato che quegli omicidi non sarebbero passati sotto silenzio?
Sapeva che se avessero ammazzato qualcuno di loro, la logica voleva che prima o
poi sarebbe toccato a tutti. Quindi non c'era niente da perdere scatenando una
reazione collettiva per tentare di evitarlo.
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