Copertina
Autore Tahmima Anam
Titolo I giorni dell'amore e della guerra
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Narratori moderni , pag. 334, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3,3 cm , Isbn 978-88-11-66593-9
OriginaleA Golden Age [2007]
TraduttoreBarbara Bagliano
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa pakistana , narrativa bengali
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Marzo 1959. Prologo                                  11

Marzo 1971. Shona con il sole alle spalle            25

25 marzo 1971. Operazione Searchlight                69

Aprile. Radio Free Bangladesh                        87

Maggio. Tikka Khan, il macellaio del Bangladesh!    119

Giugno. I Loves You, Porgy                          155

Luglio. L'uccello con le ali dalle punte rosse      187

Agosto, settembre, ottobre. Salt Lake               243

Novembre. Prendi il mio dolore                      283

16 dicembre 1971                                    313

Ringraziamenti                                      323

Una conversazione con Tahmima Anam                  325


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

Caro marito,
oggi ho perso i nostri figli.


Rehana comprò due aquiloni, uno rosso e uno blu, nell'emporio-pasticceria dei fratelli Khan davanti al tribunale. L'uomo dietro al bancone li avvolse nella carta da pacchi legandoli con uno spago di iuta. Rehana si infilò le confezioni sotto il braccio e chiamò un risciò. Mentre stava salendo sul mezzo, vide l'avvocato correrle incontro.

«Signora Haque, sono veramente dispiaciuto.» Sembrava sincero.

Rehana non riuscì a dire che era tutto a posto.

«Deve trovare i soldi. È l'unico modo. Trovi i soldi e poi ci riproviamo. Quei bastardi non muovono un dito senza una bustarella.»

Soldi. Rehana salì sul risciò e alzò il tettuccio. «Dhanmondi», disse con voce tremante. «Road 5.»

Quando arrivò a casa, i bambini erano seduti composti sul divano. I piedi di Maya non arrivavano al pavimento. Sohail si stava guardando i palmi delle mani contando le minuscole linee che li attraversavano. Vide Rehana e sorrise, ma non si alzò dal suo posto, né strillò come fece Maya: «Ammoo! Perché ci hai messo tanto?».

Rehana aveva deciso che non era il caso di scoppiare in lacrime davanti ai bambini, così si era sfogata sul risciò, singhiozzando tanto da doversi tenere aggrappata alla stretta sbarra del sedile, la bocca spalancata in una smorfia di dolore. Il conducente, che sembrava davvero preoccupato, si era girato a chiederle se voleva fermarsi per bere un bicchiere d'acqua. Rehana non aveva mai assaggiato l'acqua che vendevano lungo le strade. Aveva rifiutato con un cenno del capo, chiedendosi se lui avesse dei figli, e a quel pensiero aveva posato la testa contro il tettuccio del risciò, lasciandola sussultare a ogni sobbalzo del mezzo sulla strada. Ora, trovandoseli davanti, combatté la tensione dei muscoli del volto e il gusto acre che le riempiva la bocca. Combatté il bruciore agli occhi, il nodo in gola. Combatté tutto questo mentre porgeva loro i pacchetti triangolari.

«Grazie, ammoo jaan», gioì Maya, scartando con foga il pacchetto. Sohail non aprì il suo. Se lo mise in grembo, accarezzando la carta da pacco.

«Andrete a stare da Faiz chacha», annunciò Rehana in tono piatto. «A Lahore.»

«A Lahore?» esclamò Maya.

«Mi dispiace tanto», disse Rehana al figlio.

«Quando torneremo?»

«Presto, ve lo prometto.» A Dio piacendo, fu sul punto di dire. «Vengono a prendervi giovedì.»

«Non voglio andarci.»

Rehana si morse la lingua. «Dovete farlo», replicò. «Dovete essere coraggiosi. Puoi far volare il tuo aquilone, beta, e io lo vedrò da qui. È un acquilone magico. Devi fare la brava. Devi fare la brava ed essere molto coraggiosa. Il vento arriverà solo se sarai coraggiosa. E un giorno soffierà così forte che ti riporterà qui da me. Non ci credi? Aspetta e vedrai.»


Caro marito,
i nostri figli non sono più nostri.


Come avrebbe fatto a dirglielo?

Montò sul risciò assieme ai bambini. «Azimpur Koborstan», disse.

Il cimitero era gremito di persone in lutto. Posavano fiori sugli umidi rettangoli d'erba che crescevano sopra i loro cari. Nella fila vicina, un uomo con un copricapo bianco piangeva con il viso tra le mani. Accanto a lui, una vecchia stringeva un fascio di rami di bokul.

Rehana teneva i suoi figli per mano.

«Dite addio a vostro padre», li esortò, indicando la tomba di Iqbal.

Sohail si portò una mano al viso. «La-ill'ahah Ill'allah.»

«Anche tu, Maya.»


I miei figli non sono più miei.


Il giudice aveva detto che Rehana non era riuscita a riprendersi dalla morte del marito. Era troppo giovane per occuparsi dei bambini da sola. Non aveva insegnato loro tutto quello che c'era da sapere su Jannat e l'aldilà.

Maya accennò a correre dietro a una farfalla. Rehana la afferrò per il gomito. «Di' addio a tuo padre.»

«Addio, abboo», mormorò Maya, con un'espressione distratta, inseguendo la farfalla.


«Signora Haque», le aveva chiesto il giudice, «che cosa vorrebbe suo marito?»

«Vorrebbe che fossero al sicuro», aveva risposto lei. «Sì, li vorrebbe al sicuro.»

«Qui non è più sicuro, vostro onore», era intervenuto Faiz. «Con la legge marziale, gli scioperi, la gente che manifesta per strada... non è sicuro. È per questo motivo che mia moglie e io vogliamo portare i bambini a Lahore.»

Lahore, la città giardino dalle strade nuove e dagli edifici perfetti. Sorgeva a millecinquecento chilometri di distanza, dall'altra parte dell'India. Faiz era il fratello maggiore di suo marito. Faceva l'avvocato ed era molto ricco. Aveva una moglie alta, severa e sterile, che guardava i due bambini con bramosia.

Rehana non era mai andata a genio a Faiz. Forse per la devozione che Iqbal le aveva sempre dimostrato: le lasciava le pantofole fuori dalla porta del bagno mentre lei era nella vasca, le massaggiava i piedi con olio d'oliva, le parlava con gentilezza. Se n'erano accorti tutti. Faiz gli diceva: «Fratello, stai viziando tua moglie» e la signora Chowdhury, che a Dhanmondi viveva nella casa di fronte a loro, sospirava e dichiarava: «Tuo marito è un santo».

Faiz aveva raccontato al giudice l'episodio di Cleopatra. Rehana aveva portato i figli a vedere Cleopatra. Ma era un film adatto a bambini così piccoli? Lei aveva visto il giudice immaginarsi il seno di Elizabeth Taylor. E poi Faiz aveva di nuovo tirato fuori la storia della moneta. Otto anni prima a Iqbal era stata offerta in sposa una certa Rehana Ali di Calcutta. Rehana era una ragazza di famiglia aristocratica, ma suo padre aveva perso un immenso capitale a causa di investimenti sbagliati e una buona dose di sfortuna. Iqbal aveva già trentasei anni e dirigeva con successo una compagnia di assicurazioni: perché non sposarsi? Già, perché no. Aveva lanciato una moneta in aria e dato una rapida occhiata al risultato, e se n'era andato a dormire. La mattina dopo aveva mandato un messaggio alla famiglia dicendo che avrebbe accettato.

Rehana non aveva mai creduto a quella storia, perché Iqbal non era tipo da affidarsi alla sorte. Stipulava assicurazioni. Si occupava di sicurezza. Evitare gli imprevisti, limitare le conseguenze. Forse con il matrimonio era cambiato. Forse era per questo che Faiz ce l'aveva con lei. Suo fratello non era più suo fratello.

Avrebbe dovuto bruciare dei peperoncini e spargerli in cerchio sulla testa del marito. O, per lo meno, sgozzare una capra. Ma non aveva fatto né l'una né l'altra cosa, e così lui era morto, cadendo in ginocchio davanti a casa un giorno di gennaio, mentre il bastone da passeggio rotolava via e lui si tastava il petto in cerca del suo orologio da taschino. Forse voleva fissare nella memoria l'ora in cui avrebbe lasciato Rehana per sempre. «Maf kar do», le aveva sussurrato. Perdonami.

Ed ecco che lei era rimasta vedova, senza una famiglia vicina. I suoi genitori erano morti, le sue tre sorelle vivevano a Karachi. Era stato allora che Faiz e Parveen si erano offerti di prendersi cura dei bambini. Rehana avrebbe potuto vederli durante le vacanze. «Solo per qualche anno», le aveva assicurato Parveen. «Datti il tempo di riprenderti.» Come se si trattasse di una malattia, qualcosa di curabile, qualcosa di simile a ciò che stava accadendo al paese.

Quando Rehana si era rifiutata, Faiz e Parveen l'avevano trascinata in tribunale.

«Vostro onore», aveva spiegato Faiz al giudice, «la signora Haque è stressata; ha bisogno di riposo. Stiamo pensando solo al bene dei bambini.»

Aveva sposato un uomo che non si era aspettata di amare; amato un uomo che non si era aspettata di perdere; vissuto una vita modesta, ordinaria. Aveva chiesto a suo padre di trovarle un marito di poche ambizioni. Uno che non potesse arrivare troppo lontano.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 47

Più tardi, dopo che i ragazzi si furono addormentati, Rehana si infilò sotto la zanzariera appesa sul letto e si tirò il katha fino al mento.

Ripensò alla faccenda di Silvi, chiedendosi che cosa potesse fare. Sohail l'aveva evitata tutta la sera ed era andato a letto senza prendere il tè. Credeva di aver colto una vaga espressione accusatoria sul volto del figlio quando le aveva dato la buonanotte.

Non diventerà mai un buon marito, aveva sentito dire alla signora Chowdhury. Troppa politica.

Quel commento l'aveva punta sul vivo perché probabilmente aveva colto nel segno. Negli ultimi tempi i ragazzi avevano dedicato gran parte del loro tempo alla lotta politica. Era cominciato tutto quando Sohail si era iscritto all'università. Fin dal '48 le autorità pakistane avevano regnato sulla zona orientale del paese come su una colonia. Per prima cosa avevano cercato di costringerli tutti a parlare urdu, anziché bengali. Prendevano dal Bengala i soldi ricavati dal commercio della iuta e li investivano nelle industrie di Karachi e Islamabad. I generali che si erano succeduti avevano fatto promesse, sostenendo di voler mettere fine a quell'andazzo. Gli studenti dell'università di Dacca erano stati coinvolti nelle proteste fin dall'inizio, perciò non c'era da stupirsi che Sohail ci si fosse trovato invischiato, e che la stessa cosa fosse accaduta a Maya. Persino Rehana lo capiva: che senso aveva un paese diviso in due metà situate ai capi opposti dell'India, come un paio di corna?

Nel 1970, però, quando il ciclone aveva colpito il paese, tutto era diventato chiaro. Rehana ricordava il giorno in cui Sohail e Maya erano tornati dalle operazioni di soccorso: con gli occhi arrossati, le avevano raccontato come avessero aspettato l'arrivo dei camion di viveri, osservando l'acqua che saliva e i corpi che venivano sospinti sulla riva; come, in preda al panico, si fossero resi conto che il cibo non sarebbe arrivato perché non era mai stato spedito.

Il giorno successivo Maya si era iscritta al Partito comunista studentesco. Aveva donato tutti i suoi vestiti alle vittime del ciclone e aveva cominciato a indossare solo sari bianchi. Rehana non sopportava di vedere la figlia vestita sempre di bianco, ma Maya non ci faceva caso. Mandava giù, come zucchero, ogni idea che le veniva inculcata dai compagni più grandi. Sommossa. Rivoluzione. Pronunciava quelle parole come se avesse scoperto un'antica lingua dimenticata.

E per quanto riguardava Sohail, sarebbe potuto diventare un vero leader tra gli studenti. Ma si era rifiutato di unirsi a qualsiasi movimento studentesco, sostenendo che non voleva farsi influenzare da una fazione o dall'altra. Le differenze tra le varie correnti politiche non lo riguardavano: i sostenitori di Pechino, i sostenitori di Mosca, i fanatici di Mao, i detrattori di Mao, i marxisti-leninisti, gli stalinisti, i bolscevichi. La cosa avrebbe potuto rappresentare un problema, ma Sohail era pieno di amici e non pestava i piedi a nessuno. Era popolare e amato da tutti. Dai mullah come dagli scavezzacollo. Dai comunisti, dai bulli e dai buoni a nulla. Dai fisici, dagli ingegneri, dai pittori e dagli antropologi. Dalle ragazze e dai ragazzi. Specialmente dalle ragazze. I suoi compagni di università avrebbero potuto interpretare l'assenza di Sohail dalle loro riunioni come un segno di slealtà, ma nessuno di coloro che lo conoscevano dubitava del suo impegno verso la causa. Sohail amava il Bengala. Poteva anche aver ereditato la passione della madre per la poesia urdu, ma non era nulla in confronto all'amore che nutriva per qualsiasi cosa fosse bengalese: il fango del delta, il pesce semitrasparente e pieno di lische del fiume, il verde intenso delle risaie e il blu sconfinato, lancinante del cielo sopra la terra piatta.

La gente diceva che la sua popolarità dipendeva in parte dalla sua avvenenza, ma Rehana era convinta che c'entrasse più il suono della sua voce e il modo che aveva di parlare, un sussurro delicato, baritonale. Teneva sempre le mani dietro la schiena in una postura che comunicava rispetto, guardando negli occhi chiunque avesse davanti, e nel far ciò sortiva un effetto disarmante e magico che spingeva le ragazze a seguirlo tutti i pomeriggi da Curzon Hall alla mensa da Madhu, dove si incontrava con i suoi amici sotto un gigantesco baniano. Lì erano nati tutti i più importanti movimenti studenteschi.

Sohail, però, amava Silvi. L'aveva amata quando avevano guardato Cleopatra l'estate che suo padre era morto, e l'aveva amata quando era tornato da Lahore e avevano visto Audrey Hepburn in Vacanze romane; l'aveva amata a scuola, dove lei portava l'uniforme grigia e blu ed era la numero 33 del registro, e l'aveva amata quando il suo seno aveva cominciato a spuntare sotto la dupatta; aveva continuato ad amarla quando aveva scoperto la poesia e quando lei aveva cominciato a scrivergli lettere sigillate con l'impronta delle labbra in inchiostro India; l'aveva amata all'università, quando tornavano a casa insieme a bordo del risciò, le ginocchia che si urtavano a ogni sobbalzo; l'aveva amata quando aveva cominciato a leggere il Corano, e l'aveva amata quando lei aveva accettato di sposarsi esaudendo i desideri della madre; e l'amava persino ora, dopo che lei aveva chiuso le persiane della camera da letto, rifiutandosi di andare alla finestra quando lui aveva bussato piano con il gommino di una matita.

Sì, probabilmente era questa la verità. Era ancora uno studente, ed era troppo giovane. E si sarebbe senz'altro ripreso da quella prima delusione d'amore. Gli uomini sono bravi in questo. Eppure, pensò Rehana, non si poteva dire che la festa fosse stata un successo. Avrebbero dovuto festeggiare il ritorno dei ragazzi, il decimo anniversario della data in cui li aveva riportati a casa.

Mentre era distesa al buio, la storia del loro ritorno cominciò a svolgersi davanti ai suoi occhi come la bobina di un vecchio film, arrugginita e cigolante ma con le immagini ancora intatte, ancora potenti. Quella era la fine del rituale: ripercorrere il passato, provare a trarne le conclusioni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 157

Durante tutto il mese di giugno, i soldati di Tikka Khan avanzarono attraverso le piane assolate del Bangladesh. Saccheggiavano le case e incendiavano i tetti. Stupravano. Assassinavano. Mettevano in fila gli uomini e li giustiziavano abbandonando i cadaveri negli stagni. Praticavano forme di tortura vecchie e nuove. Erano esploratori, pionieri della crudeltà, sempre pronti a superarsi in brutalità, sentendosi ogni giorno più vicini a Dio, perché veniva detto loro che stavano salvando il Pakistan, l'Islam, forse persino lo stesso Onnipotente dalla depravazione bengalese; in quel viaggio febbrile, religioso, la loro risolutezza non conosceva limiti.

La resistenza bengalese era debole e disorganizzata. Il generale Zia faceva affidamento sull'entusiasmo dei soldati, ottenendo successi modesti. Un ponte saltato in aria qui, un'imboscata contro un convoglio dell'esercito là. L'occupazione di una stazione ferroviaria. Festeggiavano quelle vittorie nelle trasmissioni radiofoniche, facendo arrivare i loro urrà nelle case degli ascoltatori, quei cittadini che trascorrevano i lunghi, afosi pomeriggi attaccati alla radio.

Dopo l'arrivo del maggiore e la partenza di Maya per Calcutta, il mondo di Rehana si rimpicciolì. Le venne sconsigliato di uscire di casa troppo spesso; se aveva bisogno di qualcosa, le sarebbe stato recapitato. Doveva andare al mercato con l'auto della signora Chowdhury, ma comprare solo cibo per sé. Di tanto in tanto doveva far visita ai vicini; doveva sembrare preoccupata; doveva parlare della guerra ma tenendosi sul vago. Fu stabilito che se fosse stata interrogata a proposito di Maya, avrebbe dovuto dire che aveva mandato Maya e Sohail a Karachi, dalle sue sorelle.

A Shona la vita trascorreva tranquilla. Di tanto in tanto Joy arrivava a prendersi cura del maggiore, e il medico andava e veniva, ma per il resto nella casa accanto c'era ben poco movimento. Erano solo loro tre: Rehana e i due uomini. Lei trascorreva le notti con la lampada al cherosene accesa. Trasaliva a ogni rumore. Credeva di udire passi, colpi alla porta; le sembrava di sentire qualcuno che la tirava per i piedi mentre dormiva. La presenza del maggiore nella casa accanto non la tranquillizzava affatto; la faceva sentire esposta.

Nei giorni in cui i nervi minacciavano di cederle, Rehana cercava di tornare con la memoria a un tempo meno turbolento, quando non succedeva nulla di significativo, quando il passare delle stagioni, l'emozionante attesa della luna nuova per la festa del Sacrificio, il profumo dei manghi che maturavano sugli alberi erano gli eventi più spettacolari del calendario. Ma la loro vita non era mai stata tranquilla, almeno non nel senso classico del termine. C'era sempre qualcosa, un tumulto, in città o fuori, a Islamabad, dove veniva promulgata una legge punitiva dopo l'altra; e anche lontano da casa – la morte di Che Guevara per Sohail era stata dolorosa quanto la perdita di un fratello. Ogni singulto nel panorama politico arrivava fino alla loro porta, la varcava ed entrava nel bungalow, segnando prima il viso di Sohail e poi quello di Maya, sempre arrabbiata e dura. No, non c'era mai stato un altro tempo; le loro vite erano state perennemente popolate da Lenin e Castro e Mujib e Anwar Sadaat; c'era stato solo quel tempo, quella vita, quell'epoca di tensioni, alla quale erano legati loro malgrado, senza scelta, senza altro che le loro passioni e i loro amori a guidarli e sostenerli.

In questo, come in tutti gli altri ambiti, Rehana passava dall'indulgenza alla censura. Una parte di lei voleva permettere ai ragazzi qualsiasi cosa: qualsiasi capriccio, fanatismo o eccesso. L'altra desiderava che non avessero niente a che fare con quel genere di cose, voleva tenerli al sicuro, a casa; a ogni modo, trattava Maya e Sohail come se fossero lì a riscuotere un vecchio credito, una vecchia promessa che non poteva essere mantenuta, non in quella vita; un bisogno ciclico, straziante, inesauribile. Se quel bisogno fosse loro o suo, non sapeva dirlo.

Trovandosi sola in quella casa per la prima volta dopo molti anni, Rehana scoprì di non avere alcun desiderio di riunire il gruppo del cucito. Non voleva più ridere con le amiche; voleva assaporare la malinconia di quella casa vuota, la profonda tristezza che era anche una sorta di calma, di tranquillità, alla quale era riluttante ad arrendersi.

Rehana si ritrovò a provare una sorta di piacere nel ripetere i riti solitari che aveva sviluppato dopo che i suoi figli erano partiti per Lahore, tanti anni prima. Puliva la casa fino a farla brillare come la corsia di un ospedale; cacciava i corvi dai barattoli di chutney; faceva bagni esageratamente lunghi; smuoveva grandi porzioni di terra in giardino e si metteva a trapiantare le zucche, le zucchine, l'ibisco e il gelsomino.

L'acqua c'era solo dalle dieci alle dodici della mattina. ogni mattina lei doveva riempire la pentola del biryani e i tre secchi di metallo, mettere a bagno i vestiti e la verdura e pulire il pesce.

Andò al cimitero a raccontare a Iqbal del maggiore. Quando arrivò lì, sentì di dovergli chiedere scusa, senza sapere esattamente perché. Be', forse era ovvio.

Questo non ti sarebbe piaciuto.

Una colonna di formiche attraversò la lapide di Iqbal. Perdonami, non vengo da quasi un mese. I fiori sono seccati per il caldo; quel bodmash del custode aveva promesso di bagnarli, ma naturalmente se n'è dimenticato, anche se l'ultima volta che sono venuta gli ho dato cinque anna extra.

Sto ospitando una persona che non conosco e che potrebbe metterci tutti in guai seri. No, la cosa non ti sarebbe piaciuta.

Se vuoi lamentarti, dovresti farlo con tuo figlio: è stato lui a portarmi quell'uomo in casa e pregarmi di farlo restare. Potevo rifiutarmi? No, non potevo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 245

Il cielo sopra il Bengala è vuoto. Non ci sono montagne a interromperlo; né vallate né colline, e neppure lievi ondulazioni del paesaggio. È piatto, come una palude, o un fiume che non abbia alcun posto dove andare. L'occhio cerca qualche segno all'orizzonte, qualche punto di riferimento, ma non ne trova. Di tanto in tanto c'è qualche nuvola; spesso piove, ma questi sono solo colori: il bianco abbacinante delle formazioni cumuliformi, il mantello nero dei monsoni.

Al di là della città non ci sono begli edifici che possano sprofondare nel caldo o avvizzire sotto generazioni di piogge. La promessa della terra non è nelle città — nella loro malia tentacolare, nella tragedia delle loro rovine — ma nelle vaste pianure che si stendono a perdita d'occhio, in questo cielo vuoto, in quest'orizzonte interminabile. Ogni anno la terra si trasformerà in mare scomparendo sotto il sortilegio dell'acqua e poi avrà di nuovo la meglio, come per magia, e questo ritornello, questa ripetizione continua, è la sua lunga, faticosa storia.

Attraverso questo paesaggio semplice e spettacolare il treno di Rehana, il 2.55 in viaggio da Agartala a Calcutta, correva sferragliando verso occidente, inseguendo il sole. Rehana era in uno scompartimento vuoto, l'aria del finestrino aperto le scompigliava i capelli in una sorta di aureola. Le lunghe ombre degli alberi si posavano su di lei per poi scorrere via: luce e oscurità, bianco e nero, come tasti di un pianofòrte.

Aveva dovuto andarsene da Dacca. Non è sicuro. Faiz sapeva di Maya. Joy e il maggiore credevano che potesse averla fatta pedinare. Forse la casa era stata messa sotto controllo. Non c'era altra scelta. Fa' in modo che sembri che te ne sia andata già da tempo. Così aveva chiuso le due case e coperto i mobili con le lenzuola. Aveva visto fare lo stesso a suo padre, molto tempo prima, quando avevano perso la casa di Wellington Square. Si chiese se questo facesse di lei una profuga, quel treno, la distanza che stava percorrendo, le lenzuola sui mobili.

Aveva dovuto seguire un itinerario tortuoso: prima verso est fino al confine con l'India, per poi prendere il treno diretto a Calcutta. Quel treno viaggiava in direzione nord, attraversando un ultimo lembo di Bengala – i campi di senape, le risaie, le distese di peperoncini rossi –, poi il paesaggio cambiava e diventava ondulato quando proseguiva verso ovest entrando nell'Assam. La mattina, Rehana aveva aperto gli occhi su un territorio collinare, illuminato dalla prima luce del mattino. L'aria era pungente.

Quel percorso semicircolare era stato tracciato dagli inglesi, un itinerario di vacanze che portava le memsahib alle loro destinazioni invernali: Silchar, Shilliguri, Shillong, località turistiche collinari con nomi che sembravano riprodurre il fruscio delle foglie, dove gli abiti non ricadevano flosci e appiccicaticci per via dell'umidità, l'aria era secca, le labbra si screpolavano e ci si poteva mettere il cappello. C'era odore di casa. Lì la luce era diversa. Senza lo schermo dell'aria umida, pioveva dal cielo tersa e accecante, illuminando le colline sottostanti, posandosi sulla vegetazione coperta di rugiada.

No, non era una profuga. Il bungalow la stava aspettando con un lucchetto sulla porta d'ingresso. Le lampade al cherosene erano piene. La pompa dell'acqua affamata. Le finestre sprangate. Le tende alzate. I letti rifatti. Lei aveva vicini di casa. Piatti sporchi. Una coscia di montone nella ghiacciaia.

Aveva portato Sabeer dalla signora Chowdhury. Aveva visto Silvi avvicinarsi al cancello e guardare suo marito. Gli occhi grigi, bovini, dominavano il volto di lei e la sua bocca aveva una piega amara.

Era partita senza salutare.

Aveva fatto il suo dovere. Non aveva aspettato che si rendessero conto esattamente di cosa aveva riportato loro dal Muslim Bazaar.


Rehana poggiò i piedi sulla panca di fronte a lei e tirò fuori le lettere. Sapevano di naftalina. Si chiese dove le avesse tenute Silvi; forse in mezzo ai vestiti, tra un salwaar e un kameez, o nel portagioie, oppure tra i suoi vecchi libri di scuola. All'ultimo momento, quando aveva dovuto decidere che cosa portare con sé, Rehana non se l'era sentita di lasciare le lettere a casa. Era la sua unica concessione alla nostalgia. Per quanto riguardava il resto della valigia, la sua era stata una scelta puramente pratica: tre sari, tre corpetti, tre sottogonne, una camicia da notte, un pettine di plastica, un asciugamano sottile. Una coperta. E un piatto. Joy le aveva detto di infilare in valigia un piatto.

Dopo che aveva finito di prepararsi, il maggiore le aveva detto che non sarebbe partito con lei. Sarebbe tornato ad Agartala per conto suo. «Sarai più al sicuro laggiù. Maya ti aspetterà a Calcutta. È tutto organizzato.» Aveva notato un leggero tremolio delle sue palpebre; sentimenti contrastanti, che aveva messo a tacere.

Rehana svitò il tappo della borraccia e mandò giù un sorso. Quanto somiglia alla malattia. Senti mancarti le gambe. Le guance ti bruciano. Il cuore batte all'impazzata. Il solletico del sudore. L'amore.

Le tornò in mente un verso di Ghalib. Zindagi yun bhi guzar hi jaati. La vita sarebbe andata avanti; in qualche modo sarebbe continuata, con tranquillità, prevedibilità. E con questo, il suo umore migliorò.

Quando il treno puntò verso sud, in direzione di Calcutta, ricomparvero i campi allagati dai monsoni. Rehana osservò il paesaggio acquitrinoso. Il terreno era diviso in lotti rettangolari coltivati a riso, separati da muretti di fango larghi quanto l'impronta di un piede. Ogni lotto presentava differenti stadi di maturazione: c'erano i pallidi, minuscoli germogli color lime, destinati a venire trapiantati una volta cresciuti ad altezza vita, poi i germogli robusti, più fitti e leggermente più scuri, e infine il riso color latte, pronto per il raccolto. I lotti erano isole in miniatura; insieme formavano una scacchiera che andava dal verde al dorato.

Il tempo cambiò e improvvisamente il cielo assunse il colore dell'ardesia bagnata. Dal finestrino aperto cominciarono a entrare violente raffiche d'acqua trasversali. Rehana si alzò e prese ad armeggiare con la maniglia, finché il finestrino non si chiuse con uno scatto. E poi ci fu solo il rumore del treno, lo sferragliare delle ruote sulle rotaie, l'acqua che batteva sul vetro come dita tamburellanti. Ogni cosa era blu e nera: il legno della panca, le nubi basse fuori dal vetro, lo sbatacchiare del finestrino nel telaio.

| << |  <  |