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| << | < | > | >> |IndiceIX Prefazione all'edizione italiana XIII Prologo 3 Capitolo 1 Monaci e astronomi 25 Capitolo 2 L'esperimento che non trova nulla 49 Capitolo 3 Piccoli e neutrali 73 Capitolo 4 Il quartetto luminoso del Paranal 99 Capitolo 5 Fuoco, roccia e ghiaccio 123 Capitolo 6 Tremila occhi nel Karoo 155 Capitolo 7 Antimateria sull'Antartide 179 Capitolo 8 Einstein incontra la fisica quantistica al polo sud 205 Capitolo 9 Al centro della materia 231 Capitolo 10 Bisbigli da altri universi 255 Epilogo Appendice 1 263 Il modello standard della fisica delle particelle Appendice 2 265 Dal Big Bang a oggi: il modello standard della cosmologia 267 Ringraziamenti 271 Note 277 Bibliografia 283 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina XIIIPrologoIl giorno di Santo Stefano del 2004 era una luminosa giornata invernale a Berkeley, in California. Mi trovavo seduto all'aperto in un caffè all'angolo tra Shattuck Avenue e Cedar Street, in attesa di Saul Perlmutter, un astrofisico della University of California (UC). Il campus universitario si trova ai piedi delle colline boscose che salgono ripide alla periferia della città. A circa 300 metri di quota si trova il Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL). Negli anni Novanta il campus della UC e il LBNL ospitarono vari membri di due gruppi di astronomi che scoprirono, nel contempo ma in maniera indipendente, qualcosa che provocò reazioni di stupore e addirittura di allarme. Il nostro universo si sta disgregando, si direbbe. Perlmutter era a capo di uno di questi gruppi. Lo sguardo entusiastico dei suoi grandi occhi, amplificato dagli enormi occhiali, insieme alla fronte resa più ampia dalla stempiatura, mi faceva pensare a Woody Allen. Ma ciò che aveva scoperto non era certo da ridere. Anzi, Perlmutter sosteneva che la loro scoperta aveva messo in crisi la cosmologia. Lo studio delle supernovae distanti compiuto dai due gruppi di ricerca aveva mostrato che l'espansione dell'universo, osservata per la prima volta da Edwin Hubble nel 1929, sta accelerando, anziché rallentare come in molti avevano previsto. Era come se qualche energia misteriosa stesse creando una forza repulsiva che contrasta la gravità. Incerti sulla sua esatta natura, i cosmologi hanno deciso di chiamarla energia oscura. La cosa più importante è che questa energia sembra costituire quasi tre quarti della materia e dell'energia complessive dell'universo. L'energia oscura rappresenta il più recente e il più sconfortante degli enigmi che i cosmologi si trovano di fronte, e si aggiunge a un altro mistero che li assilla da decenni: la materia oscura. Quasi il 90 per cento della massa delle galassie sembra composto da materia ignota e invisibile. Sappiamo che deve essere presente perché senza la sua attrazione gravitazionale le galassie si sarebbero disintegrate. Perlmutter fa notare che i cosmologi, in particolare, e i fisici, in generale, devono ora confrontarsi con l'amara verità che circa il 96 per cento dell'universo non è spiegabile con le teorie note. Tutti i nostri sforzi per spiegare il mondo materiale hanno illuminato solo una minuscola frazione del cosmo. E ci sono altri misteri. Qual è l'origine della massa? Che ne è stato dell'antimateria che avrebbe dovuto prodursi insieme alla materia dopo il Big Bang? Dopo quasi un secolo di straordinari successi nella spiegazione del nostro mondo, con l'aiuto dei due pilastri gemelli della fisica moderna - la meccanica quantistica e la teoria einsteiniana della relatività generale -, i fisici hanno raggiunto una sorta di altopiano. Come dice Perlmutter, lui e gli altri stanno ora cercando di salire una scalinata ripidissima verso una nuova comprensione dell'universo, con un'idea fumosa di quello che li attende in cima. Parte di questo sforzo apparentemente sovrumano consisterà nel riconciliare la meccanica quantistica e la relatività generale in una teoria della gravità quantistica. Nelle situazioni in cui i due ambiti collidono - dove una gravità soverchiante agisce su volumi microscopici, come nei buchi neri o in un Big Bang - le teorie non funzionano bene insieme. Anzi, falliscono miseramente. Uno dei tentativi più ambiziosi di riavvicinarle è la teoria delle stringhe, una costruzione matematica di incredibile complessità. I suoi sostenitori più accesi sperano che conduca non solo alla gravità quantistica, ma a una teoria del tutto, che ci permetterà di descrivere qualsiasi aspetto dell'universo con poche eleganti equazioni. Ma la scoperta dell'energia oscura e gli sviluppi recenti della stessa teoria delle stringhe sembrano essersi accordati per metterci i bastoni tra le ruote. Nel corso di un'altra giornata invernale nella Bay Area di San Francisco, più di due anni dopo aver incontrato Perlmutter, intravidi come era grave la situazione della fisica. Era un tardo pomeriggio di febbraio del 2007. Una sala conferenze dell'Hilton di San Francisco era completamente piena per un dibattito in occasione del meeting annuale dell'American Association for the Advancement of Science (AAAS). Tre fisici stavano discutendo sull'energia oscura e sui suoi nessi con alcune delle domande più importanti in assoluto: perché il nostro universo è come è? È esattamente calibrato per l'esistenza della vita? Da quello che sappiamo, l'energia oscura non è semplicemente misteriosa; sembra che abbia proprio l'esatto valore per permettere la formazione di stelle e galassie. «Il grande mistero non è perché esista l'energia oscura. Il grande mistero è perché ce ne sia così poca», disse rivolto alla platea dell'Hilton Leonard Susskind, che ricopre la cattedra Felix Bloch di fisica teorica a Stanford ed è uno dei padri della teoria delle stringhe. Proseguì più poeticamente: «Il fatto che ci troviamo in bilico sul filo dell'esistenza, e che se l'energia oscura fosse molto maggiore noi non ci saremmo: questo è il mistero». La speranza, fino a poco tempo fa, era che la teoria delle stringhe fornisse la spiegazione di questo mistero, che il valore dell'energia oscura apparisse con naturalezza come soluzione delle equazioni della teoria, insieme alle risposte ad altre domande enigmatiche. Perché il protone pesa quasi duemila volte più dell'elettrone? Perché la gravità è tanto più debole della forza elettromagnetica? In sostanza, perché le costanti fisiche fondamentali hanno il valore che hanno? La questione dell'energia oscura è rappresentativa di questi dubbi. Nulla nelle leggi della fisica è in grado di spiegare perché molti aspetti del nostro universo sono come sono. Sembra che siano calibrati con straordinaria esattezza in modo da produrre un universo capace di sostenere la vita, e questo lascia infinitamente perplessi i fisici. Ma le rivelazioni che si speravano dalla teoria delle stringhe non si vedono. Anzi, alcuni fisici stanno lentamente abbandonando l'idea che sia possibile ridurre tutto quello che si può dire sull'universo a una manciata di equazioni. A San Francisco Susskind affrontò questo problema. Il titolo del suo intervento era "Perché i topi stanno fuggendo dalla nave". Abbandonare il riduzionismo non significa però abbandonare la teoria delle stringhe. Al contrario! Per Susskind e molti altri ha significato accettare la teoria in tutto il suo splendore matematico, nonostante le sue incredibili conseguenze. Una delle conseguenze più bizzarre della teoria delle stringhe nel suo stato attuale è l'esistenza di un multiverso. L'idea è che il nostro universo sia solo uno tra 10^500 universi possibili, se non di più. E in questo scenario straordinario si trova la risposta all'enigma del perché l'energia oscura e altre costanti fondamentali abbiano i valori che hanno. In un multiverso sono possibili tutti i valori dell'energia oscura e delle costanti fondamentali; anzi, le leggi della fisica possono differire da universo a universo. Per spiegare il nostro universo i fisici non hanno bisogno di ricorrere a ritocchi e calibrazioni. Se esiste un multiverso, vuol dire che c'è una probabilità non nulla, per quanto piccola, che emerga casualmente il nostro universo con le proprietà che ha. Le leggi che lo governano danno luogo alle stelle e alle galassie e, se è per questo, ai pianeti e alla vita intelligente, compresi i fisici che si pongono la domanda: perché l'universo è come è? Questo è il cosiddetto principio antropico che, grosso modo, afferma che il nostro universo è quel che è perché ci siamo noi che ne parliamo, e se fosse diverso non esisteremmo e quindi il problema non si porrebbe. L'idea è considerata da molti come una scappatoia, perché così i fisici non devono fare tanta fatica a spiegare tutto a partire dai principi fondamentali. Un altro oratore, il cosmologo Andrei Linde, collega di Susskind a Stanford, ricordò i suoi sforzi, quasi vent'anni fa, nel parlare del principio antropico ai fisici del Fermilab, vicino a Chicago. Linde era stato avvertito del fatto che a chi affrontava questi temi venivano tirate uova marce, quindi iniziò parlando di tutt'altro per cambiare argomento a metà strada, sperando che i fermilabbisti non «facessero in tempo ad andare al supermercato a comprare le uova». Dato che la teoria delle stringhe corrobora il multiverso, il principio antropico sta acquisendo forza. Ma la teoria delle stringhe, a sua volta, è così lontana dall'essere verificata sperimentalmente che molto fisici trovano difficile, se non impossibile, prendere sul serio le sue conseguenze. Il terzo oratore, quel pomeriggio, il cosmologo Lawrence Krauss, che all'epoca era alla Case Western Reserve University, compendiò le argomentazioni della parte opposta. «Penso che possiate immaginare una teoria in cui il multiverso sia scienza. Se uno avesse una teoria, una vera teoria, una vera teoria che preveda molte delle cose che vediamo nell'universo, che preveda molte cose che possiamo provare, ma che preveda anche molte cose che non possiamo provare, allora penso che molti di noi direbbero che crediamo in cose che non possiamo provare [come l'esistenza di un multiverso]», disse Krauss. Arrivati a questo punto, Susskind stava guardando in cagnesco Krauss. Ma il tono serio di Susskind alla fine della sessione suggeriva che non sarebbe stato facile rispondere alle critiche. «Posso dire solo che è un problema che ci poniamo», disse. «[La teoria delle stringhe] è il più grande problema della fisica attuale. Possiamo farlo diventare una scienza basata sulle osservazioni?». Su una cosa furono concordi tutti e tre gli oratori: solo gli esperimenti possono far superare questa situazione di stallo. I più grandi progressi della fisica si sono avuti quando la teoria è avanzata più o meno di pari passo con gli esperimenti. Qualche volta è venuta prima la teoria e qualche volta il contrario. Per esempio fu un esperimento compiuto nel 1887 da Albert Michelson e Edward Morley — che mostrava che la velocità della luce è indipendente dal moto dell'osservatore — che influenzò la formulazione della teoria della relatività ristretta da parte di Einstein nel 1905. Un decennio dopo, Einstein elaborò la teoria della relatività generale, ma fu solo dopo che gli esperimenti del 1919 permisero di verificare le sue affascinanti conseguenze — il fatto che la gravità del Sole devia la luce delle stelle — che la teoria fu largamente accettata. E per tutta la prima metà del Novecento i fisici teorici e quelli sperimentali sgomitarono e si sorpassarono a vicenda mentre davano forma alla meccanica quantistica. Negli anni Sessanta e Settanta abbiamo assistito a una collaborazione proficua per entrambi, quando i fisici delle particelle teorizzavano sulle particelle e sulle forze fondamentali che formano il mondo materiale e gli esperimenti confermavano le loro previsioni incredibilmente accurate. Ma questa interazione energica adesso è giunta a un punto morto. La scoperta dell'energia oscura e della materia oscura, insieme al fallimento, finora, degli esperimenti per trovare il bosone di Higgs (che si ritiene dia la massa alle particelle elementari) ha lasciato briglia sciolta ai teorici. Le idee abbondano, ma vanno alla deriva in un mare di congetture. La prossima generazione di esperimenti di cosmologia e fisica delle particelle aiuterà ad ancorare le teorie alla realtà? Questo libro è il mio tentativo di trovare una risposta. È il frutto di una ricerca che mi ha portato da Londra, dove vivevo e lavoravo, fino alle estremità della Terra, da deserti desolati al fondo di miniere abbandonate, dai monti più alti all'abisso del mondo, in cerca degli esperimenti più avanzati che promettono di trascinare la fisica fuori dalla sua "palude teorica". Molti degli esperimenti che ho avuto modo di osservare stanno affrontando, ognuno a suo modo, i misteri gemelli della materia e dell'energia oscure.
Ma sono anche andato a vedere i telescopi e i rivelatori che stanno cercando
l'antimateria, il bosone di Higgs e i neutrini, le sfuggenti particelle
subatomiche che pervadono l'universo. I neutrini
non interagiscono quasi per nulla con la materia e viaggiano nello
spazio senza incontrare ostacoli, portando informazioni sulle regioni
remote del cosmo in modi impossibili per le altre particelle. Tutti questi
esperimenti formano i gradini della scalinata metaforica di
Perlmutter. Anche il mio viaggio è diventato una metafora: la metafora delle
incursioni che gli scienziati stanno compiendo fino ai
limiti del comprensibile, fino "ai confini della realtà".
La storia inizia con un pellegrinaggio al telescopio da 100 pollici sul monte Wilson in California, dove Hubble scoprì che il nostro universo si sta espandendo, ponendo così le basi osservazionali per la teoria del Big Bang e per la cosmologia moderna. Ai suoi tempi questo telescopio aveva una tecnolgia all'avanguardia, ma è stato superato ormai dai telescopi che oggi osservano i cieli notturni. Ogni sera aprono le loro gigantesche cupole per scrutare a una distanza maggiore di metà dell'universo, raccogliendo la luce talvolta un fotone per volta. Gli strumenti che analizzano questa luce sono altrettanto potenti, come lo spettrografo da 8,6 tonnellate che sta aiutando gli astronomi a studiare l'universo una fetta dopo l'altra con incredibile precisione. All'opposto, i rivelatori di silicio e germanio grandi come dischetti da hockey sono piccoli e lavorati con tanta precisione che vengono maneggiati come opere d'arte. Aspettano pazienti, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il minimo indizio di materia oscura. Questi esperimenti sembrano minuscoli se paragonati ai palloni giganteschi che si librano nella stratosfera portando con sé esperimenti che cercano l'antimateria primordiale e studiano il fondo cosmico a microonde (una radiazione residua prodotta dal Big Bang). La fisica sperimentale raggiunge il suo apice nel Large Hadron Collider, il più grande acceleratore di particelle del mondo. Macchine che pesano migliaia di tonnellate seguono il cammino delle particelle subatomiche con precisione micrometrica. Queste particelle emergono da collisioni di raggi di protoni, in cui ogni raggio possiede la stessa energia di un treno di 400 tonnellate che corre a 150 chilometri all'ora. Magneti superconduttori più freddi dello spazio profondo riescono a mantenere questi raggi confinati nei loro cammini in una galleria sotterranea lunga 27 chilometri. Le nuove particelle che emergono da questo calderone possono contenere qualunque cosa, dal bosone di Higgs alla materia oscura e ai primi indizi di nuove dimensioni. Questi magnifici telescopi e rivelatori funzionano solo in contesti estremi. I luoghi surreali in cui si trovano sono i personaggi misconosciuti della storia che sto per raccontarvi, luoghi raramente apprezzati e spesso ignorati. L'aria fredda e secca sopra il deserto di Atacama nelle Ande cilene, dove non cresce un filo d'erba, permette alla luce delle stelle che ha viaggiato per miliardi di anni di entrare in un telescopio senza essere sfumata all'ultimo momento da qualcosa di banale come il vapore acqueo (naturalmente gli strumenti che si trovano nello spazio, come il telescopio spaziale Hubble, non devono confrontarsi con l'effetto deleterio dell'atmosfera sulla luce). La chiarezza cristallina del lago Bajkal in Siberia è essenziale per l'innovativo telescopio subacqueo per neutrini; i fisici russi sopportano stoici il freddo tagliente per accamparsi sul lago ghiacciato e lavorare sullo strumento. Scendere nella crosta terrestre concede vantaggi analoghi. In fondo a una miniera di ferro abbandonata nel Minnesota i fisici danno la caccia alla materia oscura, grazie agli 800 metri di roccia che scherma i loro rivelatori dal caos dei raggi cosmici. I minatori madidi di sudore che scavarono queste miniere usando solo trapani e mazze non avrebbero mai immaginato il ruolo che la loro miniera avrebbe avuto per la decifrazione della natura del nostro universo. Nel frattempo, una terra ampia e arida all'interno del Sudafrica, una distesa desolata priva di inquinamento, è stata proposta come sito per il più grande radiotelescopio del mondo, con tremila antenne capaci di esaminare ampie aree dell'universo più rapidamente di qualsiasi altro strumento mai costruito. Parlando di luoghi estremi, pochi sono confrontabili con l'Antartide, che è in media il continente più freddo, più arido e più elevato della Terra. È una regione così gelida che inspirare rapidamente può ustionare i polmoni. L'aria umida espirata congela in un istante, e al primo momento di distrazione è in agguato un pericolo mortale sotto forma di crepaccio coperto dalla neve. Eppure i cosmologi prediligono il plateau antartico per via della sua aria sottile, secca, immutabile e non inquinata, e stanno costruendo giganteschi telescopi per sondare il fondo cosmico a microonde con una precisione impossibile da raggiungere in quasi qualsiasi altro posto della Terra. Ma non è solo l'aria sopra l'Antartide che attrae gli scienziati. Ormai persino il ghiaccio del polo sud, spesso un chilometro, è stato trasformato in un rivelatore di neutrini. Da nessun'altra parte esiste un blocco di materiale così massiccio, limpido e solido per studiare la più sfuggente particella dell'universo. Un deserto ghiacciato ci può condurre verso la teoria giusta della gravità quantistica. Questo libro è un peana alle regioni remote che rappresentano l'anima della cosmologia sperimentale di oggi. Stupiscono con la loro eloquenza, che si tratti della Via Lattea che spicca nel nero del cielo cileno o dell'eterea valle dell'Hanle nascosta in un angolo appartato dell'altopiano tibetano, separata dal mondo dai picchi di 8000 metri dell'Himalaya. Nonostante le loro differenze, questi luoghi condividono un profondo minimalismo: non c'è nulla che non sia strettamente necessario, nulla del rumore e delle distrazioni della società moderna. Un glaciologo che ho conosciuto in Antartide mi ha parlato della quiete assoluta che sentiva in questo continente, avendo di fronte solo gli elementi, troppo estremi per poterli ignorare. La cosmologia ha bisogno di questi luoghi, se vorrà risolvere le domande pressanti della nostra esistenza. | << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo 1
Monaci e astronomi
Il 31 dicembre 1930 la nave per passeggeri SS Belgenland attraccò a San Diego, in California. Uno dei passeggeri, Albert Einstein, veniva dall'Europa. Lui e sua moglie Elsa probabilmente avrebbero preferito arrivare in California senza attirare l'attenzione, ma gli abitanti di San Diego la pensavano diversamente. Una banda della marina statunitense suonò musiche natalizie in segno di benvenuto. Cinquecento scolarette intonarono delle canzoni. Giornalisti e fotografi si spintonavano per salire a bordo; alcuni caddero addirittura dalle scalette. Uno di loro chiese a Einstein, che stava per iniziare una collaborazione semestrale al California Institute of Technology a Pasadena, se avrebbe compiuto osservazioni con il telescopio più grande del mondo, sulla vetta del monte Wilson. «Non è un fisico sperimentale», ribatté Elsa. «È un teorico». Ma persino il più importante teorico del mondo era consapevole dello sconcertante quadro dell'universo che stava emergendo grazie al telescopio del monte Wilson. Questa nuova immagine dell'universo era in contrasto con le sue idee. A testimonianza dell'integrità scientifica di Einstein, gli bastarono pochi mesi a Pasadena e una visita all'osservatorio per accettare il rivoluzionario stato di cose descritto dal nuovo telescopio. Solo la rivoluzione copernicana, in cui il Sole sostituì la Terra al centro del sistema solare, rivaleggia per importanza. E forse neanche essa: quello che era successo sul monte Wilson aveva una scala extragalattica e ripercussioni probabilmente maggiori. Forse Einstein non sarebbe mai andato sul monte Wilson se non fosse stato per un uomo che era andato a cercare legno nelle montagne vicino a Pasadena, per farne botti per il vino. Pasadena si trova ai piedi dei monti San Gabriel, non lontano dalla missione San Gabriel Arcángel, che nel 1771 era stata una delle prime missioni spagnole fondate in California. Per raccogliere il legname necessario per costruire la missione, i taglialegna affrontavano i canyon quasi impenetrabili della catena montuosa, aprivano piste e raccoglievano legname, per lo più di pino e cedro. La qualità del legno colpì tanto Benjamin Wilson - che nel 1851 era stato eletto sindaco della cittadina di Los Angeles - che lo volle per farne le botti per il suo vigneto. I suoi lavoratori allargarono una vecchia pista dei nativi americani che partiva alla base dei monti San Gabriel e saliva per una fenditura detta Little Santa Anita Canyon. Nel 1864 avevano completato una pista fino a una vetta che dominava la valle San Gabriel. A questa vetta fu dato il nome di Wilson. Il legno non si mostrò però all'altezza della più solida quercia usata tradizionalmente per i barili. Wilson non raccolse più il legname e la pista cadde in disuso. Ma raggiungendo la vetta aveva avviato il monte alto 1600 metri verso un'impresa che Wilson non avrebbe mai immaginato. La conversione del monte Wilson da potenziale fonte di legname a innovativo osservatorio astronomico cominciò nell'inverno tra il 1903 e il 1904, quando George Ellery Hale arrivò a Pasadena, che all'epoca era un paesino assonnato pieno di aranceti e vigne. Come direttore dell'osservatorio Yerkes sulle rive del lago Geneva nel Wisconsin, Hale stava cercando un luogo per costruire il suo prossimo grande telescopio. L'osservatorio Yerkes, nonostante ospitasse un innovativo telescopio da 40 pollici, non era un luogo adatto per l'astronomia seria, con i suoi venti a raffiche, gli inverni rigidi e i cieli coperti. Il clima gradevole e il cielo sereno della California del sud attrassero Hale. Quell'inverno si arrampicò con difficoltà fino alla cima del monte Wilson, dove trovò un edificio abbandonato fatto di tronchi di cedro. La notte, sdraiato su una branda e ammirando il cielo attraverso il tetto diroccato, seppe di aver trovato il posto per un futuro osservatorio. L'edificio fatto di tronchi in cui si era imbattuto era un rifugio montano abbandonato chiamato Casino. La cosa si confaceva all'istinto di Hale per l'azzardo. Il Casino divenne la base provvisoria per Hale e i suoi collaboratori mentre preparavano la costruzione dell'osservatorio. Hale ottenne fondi dai suoi benefattori, tra cui l'industriale e filantropo Andrew Carnegie. La vetta del monte Wilson divenne un luogo di attività frenetica. All'epoca la principale via per la vetta era una strada non sterrata larga 4 piedi che si inerpicava per il ripido versante meridionale della montagna e che era già un passo avanti rispetto alla pista aperta dagli uomini del sindaco Wilson. L'unico mezzo di trasporto erano le bestie da soma: piccoli asini e muli. Tutto ciò non trattenne Hale. Ogni componente veniva trasportato fino in cima lentamente e faticosamente. Con il tempo furono costruiti due telescopi solari per le osservazioni diurne, seguiti dai giganteschi telescopi notturni, uno con uno specchio di 60 pollici e un altro con uno specchio di 100 pollici. Hale non rischiò solo la reputazione: a tratti finanziò l'impresa con il proprio patrimonio (grazie al padre industriale). Si accollò anche il rischio di commissionare lo specchio da 100 pollici ben prima che quello da 60 fosse stato completato e il suo funzionamento verificato. I rischi che corse, coerenti con la sua opinione che «chi intende varare navi grandi deve vivere in acque profonde», diedero risultati più che buoni. Il Casino fu presto sostituito da un edificio permanente detto Monastero, alludendo a uno degli interessi di Hale. Era stato ispirato dalle storie dei monaci che cercavano la solitudine nei monasteri arroccati in cima ai picchi scoscesi del Mediterraneo orientale. Hale considerava il Monastero come un luogo di quiete per astronomi, un luogo in cui avrebbero potuto studiare l'universo indisturbati. A tal fine bandì le donne astronomo dall'osservatorio, temendo che fossero una distrazione. Il Monastero aveva camere per il personale dell'osservatorio, una sala comune, una biblioteca e un refettorio. Oggi il pellegrino che ha viaggiato a lungo è accolto da una copia incorniciata di uno scritto di san Benedetto, che chiede al visitatore solo di accontentarsi della frugalità del posto e di astenersi da eccessi palesi. Lo scritto elenca alcune altre regole del luogo, tra cui il diritto del Monastero di chiedere di andare via a chi non le rispetti. Per il contravventore che rifiutasse di andarsene san Benedetto prevede una versione più garbata e gentile del buttafuori da discoteca: «se non se ne va, due monaci robusti, in nome di Dio, gli spieghino la situazione». La notte in cui l'edificio fu pronto per l'uso, Hale e i suoi colleghi astronomi entrarono portando candele accese, come se si preparassero a un rituale religioso. Accesero un fuoco nel focolare di granito della sala comune e intrapresero una conversazione per tutta la notte: fu l'inizio della «compagnia scelta» di astronomi brillanti interessati a tutto, dai «dettagli dell'ottica, della fotografia, dell'ingegneria meccanica» fino alla «questione profonda dell'origine dell'universo e di come si è evoluto». All'inizio del Novecento gli astronomi si trovavano in un'impasse, in difficoltà per capire quello che osservavano nei cieli. Il problema fu esposto con chiarezza in una lezione del marzo 1917 da Heber Curtis, un astronomo del Lick Observatory in California. Parlando a San Francisco, Curtis descrisse la difficoltà nel comprendere un certo tipo di nebulosa (dal latino nebula, nuvola, nebbia). Queste nubi fiocamente luminose erano diverse dalle nebulose diffuse osservate vicino al centro della Via Lattea, che erano chiaramente regioni in cui si stavano formando nuove stelle. Erano anche diverse dalle nebulose planetarie, che erano regioni di gas molto più piccole e brillanti attorno a una stella morente. Il terzo tipo, l'argomento della conferenza di Curtis, era stato definito nebulosa a spirale, perché nelle fotografie con esposizione prolungata mostravano una nitida struttura a spirale, talvolta con vari vortici di incredibile complessità. Oggi le immagini maestose delle galassie a spirale sono molto familiari, ed è difficile immaginare un'epoca in cui gli astronomi non sapevano che cosa fossero. L'universo all'inizio del Novecento era composto solo dalla Via Lattea; al di fuori di essa non c'era nulla. Non c'è quindi da meravigliarsi se la maggior parte degli astronomi pensava che le nebulose a spirale appartenessero alla nostra galassia. Ma ce n'erano alcuni che sospettavano che le nebulose si trovassero ben oltre e usavano il termine «universi isola» per descriverle. Inoltre lo spettro della luce proveniente da queste nebulose suggeriva che non fossero composte solo di gas ma di grandi ammassi di stelle. Purtroppo nessun telescopio allora esistente aveva una risoluzione sufficiente per vedere queste presunte stelle. E se anche fosse stato possibile, misurarne la distanza rimaneva un miraggio. Concludendo la sua conferenza, Curtis catturò perfettamente il fascino che caratterizzava l'astronomia del suo tempo: «È sicuramente un'idea meravigliosa e sconcertante [...] che il nostro universo stellare possa essere solo uno tra centinaia di migliaia di universi simili [...]. Avere confidenza con questi concetti immani certamente non toglie riverenza, non diminuisce il nostro sgomento di fronte alla potenza dell'universo in cui rivestiamo una parte così piccola. È ben difficile che chi studia seriamente i cieli possa perdere il senso di timore reverenziale per questo universo supremamente meraviglioso e per Chi o Cosa c'è dietro a tutto ciò». Mentre molti si ponevano queste domande, Hale si mise a costruire il telescopio che avrebbe aiutato a trovare le risposte, quello da 100 pollici. Quando vide la luce nel 1917 era il più grande telescopio del mondo. Lo rimase fino al 1948, un primato di trent'anni semplicemente inimmaginabile per un telescopio dei nostri giorni. Nel 1895, due decenni prima che entrasse in servizio il telescopio da 100 pollici, l'astronomo americano Percival Lowell decise di installare un nuovissimo telescopio a rifrazione da 24 pollici — del tipo reso famoso da Galileo — nel suo osservatorio Lowell a Flagstaff in Arizona. Un telescopio a rifrazione, o rifrattore, è un lungo tubo a una delle cui estremità c'è una lente, l'obiettivo, che focalizza in un punto la luce delle stelle. All'altra estremità un'altra lente, detta oculare, ingrandisce l'immagine creata dall'obiettivo. Il telescopio da 24 pollici di Lowell (i pollici si riferiscono al diametro della lente obiettivo) sarebbe stato il più grande del mondo. Ma prima l'osservatorio doveva restituire un rifrattore da 18 pollici che era stato prestato da John Brashear, astronomo e ottico provetto che viveva e lavorava a Pittsburgh, in Pennsylvania. Il telescopio preso in prestito fu rispedito, ma un tentativo ben intenzionato da parte di collaboratori di Lowell di pulire la lente con l'alcol prima di restituire lo strumento ebbe come risultato un «lieve segno circolare sul vetro». Lowell mandò un assegno di 400 dollari per risarcire il danno, ma Brashear rifiutò il denaro e, a quel che si dice, stracciò l'assegno (questo gesto era coerente con la sua reputazione. Per i suoi concittadini Brashear era semplicemente «zio John», un uomo gentile il cui epitaffio recita: «Abbiamo amato le stelle troppo teneramente per aver paura della notte»). Deciso a risarcire Brashear per il danno involontario, Lowell ordinò uno dei modernissimi spettrografi dell'ottico, che costava molto più di 400 dollari. Questo spettrografo si sarebbe rivelato cruciale in occasione di un'osservazione sorprendente. L'idea alla base di uno spettrografo è incredibilmente semplice. Quando la luce di una stella viene separata nei suoi colori costituenti, per esempio da un prisma, nello spettro appaiono delle righe nere. Queste linee di Fraunhofer, chiamate così in onore del fisico tedesco Joseph von Fraunhofer che fu tra i primi a studiarle, sono lacune, lunghezze d'onda mancanti da quello che è per il resto uno spettro continuo. Queste lacune esistono perché alcuni elementi presenti nell'atmosfera della stella, come il ferro, assorbono la luce di lunghezze d'onda caratteristiche. Lo spettrogramma di una stella è come un codice a barre che identifica gli elementi della sua atmosfera. Le linee scure, però, non si trovano sempre nella stessa posizione del codice a barre. Possono essere spostate tutte verso un'estremità (per esempio verso le lunghezze d'onda del rosso) o l'altra (verso il blu). Questo fenomeno è noto come effetto Doppler. Immaginiamo una stella che si stia allontanando da noi. La luce emessa dalla stella impiega un tempo sempre maggiore per raggiungerci, e ciò ha l'effetto di stiracchiare la lunghezza d'onda della luce. Al crescere della lunghezza d'onda, la luce appare più rossa (lo spettro della luce visibile ha il rosso dalla parte delle lunghezze d'onda maggiori e il blu dalla parte di quelle minori). Quindi una stella che si allontana da noi sembra più rossa che se fosse stazionaria rispetto alla Terra. Questo mostra il fenomeno che viene chiamato spostamento verso il rosso (al contrario, una stella che si muove verso di noi fa sì che la luce si sposti verso il blu). È il movimento di una stella a far sì che il suo codice a barre, le linee di Fraunhofer, sia spostato in blocco o verso l'estremità rossa dello spettro o verso quella blu. Di quanto sono spostate queste linee dipende direttamente dalla velocità della stella, o dalla velocità di una galassia o addirittura di un ammasso di galassie. Uno spettrografo, che crea le immagini del codice a barre di una stella, permette agli astronomi di misurare queste velocità. Mentre all'osservatorio Lowell veniva installato lo spettrografo di Brashear, fu assunto un giovane astronomo di nome Vesto Melvin Slipher, e Lowell lo scelse per studiare gli spettri delle nebulose a spirale. Nel 1914 Slipher aveva concluso l'osservazione di molte nebulose con il nuovo spettrografo, e ciò che aveva scoperto fece scalpore in tutta la comunità astronomica. Quasi tutte le nebulose a spirale si stavano allontanando da noi. Una nebulosa in particolare - che adesso si chiama galassia Sombrero - si stava allontanando all'incredibile velocità di 1100 chilometri al secondo. Quando Slipher annunciò al convegno dell'agosto 1914 dell'American Astronomical Society a Evanston (Illinois) che undici delle quindici nebulose che aveva osservato erano spostate verso il rosso - cioè si allontanavano da noi - ricevette un'ovazione. Sarebbero passati anni prima che un altro giovane astronomo, Edwin Hubble, usasse il telescopio da 100 pollici del monte Wilson per determinare la distanza di queste nebulose, e decenni prima che gli astronomi si rendessero conto con precisione delle conseguenze, ma quella giornata di agosto tutti seppero che stavano ascoltando qualcosa di sbalorditivo. | << | < | > | >> |Pagina 205Capitolo 9
Al centro della materia
Il breve tragitto in pullman da Ginevra passava attraverso campi di granturco e girasoli. Era ancora mattina presto; il cielo era coperto. I girasoli sembravano piccole persone con le teste gialle chinate, in attesa del primo raggio di sole. Era tranquillo, questo paesaggio pastorale svizzero. Eppure a circa 90 metri sotto queste terre un enorme macchinario avrebbe presto preso vita ruggendo, generando energie mai più viste da pochi istanti dopo il Big Bang. Il pullman finì la corsa fuori dal CERN, l'organizzazione europea per la ricerca nucleare, che si trova sul confine tra Francia e Svizzera. Una fila di bandiere delle nazioni europee sventolava nella lieve brezza. In lontananza si ergeva la parete ripida del monte Salève, un massiccio di calcare alto 1300 metri che incombe su Ginevra. Stavo andando a visitare ATLAS, un rivelatore di particelle da 7000 tonnellate costruito per il Large Hadron Collider (LHC), il più grande acceleratore di particelle al mondo. Il LHC fa collidere i protoni a energie mai raggiunte prima sulla Terra, creando particelle che potrebbero essere esistite solo nell'universo neonato, quando il cosmo era sufficientemente caldo perché apparissero e scomparissero. Poi i rivelatori come ATLAS vagliano i resti delle particelle sperando di trovare la risposta a una gran quantità di domande. Da dove ricavano la massa le particelle elementari? Che cos'è la materia oscura? Esistono dimensioni extra? C'è un'intera nuova serie di particelle oltre a quelle che conosciamo? Queste particelle ci porteranno verso una teoria della gravità quantistica? Il motto di questi esperimenti è la precisione. Forse è per questo che la Svizzera è il paese perfetto per ospitare il CERN. La leggendaria ossessione svizzera per l'accuratezza è evidente appena si atterra a Ginevra. Dentro all'aeroporto, anziché manifesti con divi del cinema o campioni sportivi, si è accolti da giganteschi poster dei cronometri più sofisticati del mondo. Un fabbricante di orologi ha sfruttato la fama della regione in ambito fisico e cosmologico chiamando uno dei propri apparecchi Big Bang. E subito prima di uscire dall'aeroporto un enorme cartellone ci ricorda che ci troviamo ad appena cinque minuti dal CERN, il più grande laboratorio fisico del mondo. Mostra una veduta aerea da togliere il fiato, con la periferia di Ginevra e le fattorie svizzere e la vicina Francia in primo piano, e i picchi alpini coperti di neve sullo sfondo. Sovrapposto a questo paesaggio c'è un grande arco di cerchio, che rappresenta un tratto della galleria sotterranea che ospita il Large Hadron Collider. Se su questo gigantesco cerchio immaginario tracciassimo il quadrante di un orologio, l'aeroporto di Ginevra coprirebbe a malapena la sezione da mezzogiorno alle due. Da nessun'altra parte al mondo c'è un esperimento grande come il LHC. Gli acceleratori di particelle sono il fiore all'occhiello della fisica. Si usano per confermare la teorie più estreme. Gli astronomi e i cosmologi potranno scoprire la materia oscura o l'energia oscura, o almeno trovare indizi indiretti sulla natura di questi misteriosi componenti dell'universo, ma finché i fisici non creeranno le particelle previste in un collisore e non ne verificheranno le proprietà, gli scettici non desisteranno. Analogamente, i teorici possono invocare la presenza di dimensioni extra per spiegare il cosmo in modo elegante, ma finché non si manifestano nei collisori i segni di queste parti nascoste dell'universo, i dubbi rimarranno. I collisori e i rivelatori di particelle sono il luogo in cui si concludono i conti che non tornano e si verificano le teorie oltre ogni dubbio. «Servono macchine come il LHC per arrivare ai limiti di ciò che capiamo perché, detto francamente, le cose facili sono già state tutte fatte» ha scritto in un articolo per il "Guardian" Brian Cox, un fisico che lavora con il rivelatore ATLAS. Il limite di ciò che capiamo ha raggiunto un punto in cui è diventato necessario sondare energie che esistevano un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. Per fare ciò, il LHC accelera due fasci di protoni in direzioni opposte fino a pochissimo al di sotto della velocità della luce. A questa velocità, un protone percorre i 27 chilometri della galleria del LHC 11.245 volte al secondo. Le maree terrestri provocate dalla Luna nuova e dalla Luna piena possono far diminuire di un millimetro la lunghezza della galleria, e dato che l'energia dei fasci dipende dal numero di volte che percorrono il tunnel, persino questo effetto minuscolo può modificare l'energia dei protoni. Quando queste particelle collidono, tutta l'energia è concentrata in una regione di spazio migliaia di volte più piccola dello spessore di un capello umano, creando le densità di energia necessarie per generare le nuove particelle che potrebbero confermare o smentire le teorie. Il CERN, con la sua ricca storia di fisica delle particelle, ha una posizione unica per un balzo nell'ignoto. La mia passeggiata verso gli uffici di ATLAS mi fece passare accanto a un vero cimitero di vecchi rivelatori di particelle. Questi strumenti, alcuni pesanti fino a 26 tonnellate, avevano svolto un ruolo nello studio delle particelle elementari al CERN negli anni Settanta e Ottanta. Dopo decenni di servizio, sono diventati lapidi tecnologiche e rendono testimonianza di una lunga tradizione di indagini nell'essenza della materia. Mi feci strada attraverso la mensa all'aperto del CERN, probabilmente passando accanto ad alcune delle menti più brillanti della fisica contemporanea (novemila scienziati di ottantacinque nazioni fanno ricerca qui), e arrivai alla confluenza di varie stradine che portano i nomi di giganti del passato: Marie Curie, Pierre Auger, Wolfgang Paul. Di fronte a me si trovava l'Edificio 40, che ospita la maggior parte degli scienziati che lavorano su ATLAS. In questo ambiente densissimo, in cui ogni angolo fa pensare alla fisica delle particelle, una statua su un lato dell'Edificio 60 sembra incongrua e poco appropriata: una figura in metallo alta quasi due metri del dio indù Shiva. Si trova alla fine di un sentiero coperto di ghiaia. In questa specifica forma, come Nataraja, re della danza, Shiva dalle molte braccia e dai capelli lunghi danza all'interno di un grande cerchio di fuoco. La gamba destra calpesta il nano dell'ignoranza; la sinistra è sollevata, con il ginocchio piegato, in una posizione di delicato equilibrio. Nataraja danza per concludere un ciclo cosmico e generare il successivo, una metafora della natura ciclica dell'universo nella cosmologia induista. Lo storico Ananda K. Coomaraswamy scrisse di questa danza: Shiva si alza dalla sua estasi e, danzando, invia attraverso la materia inerte onde pulsanti di suoni che la destano. Improvvisamente anche la materia danza, appare come splendore attorno a lui. Danzando Shiva sostiene i disparati fenomeni del mondo, la sua creazione ed esistenza. E, quando sarà il tempo, continuando a danzare distrugge tutte le forme: ogni cosa si disintegra, apparentemente si annulla, e le è concesso un nuovo riposo. Poi, dal vapore sottile sono di nuovo create la materia e la vita. La danza di Shiva disgrega la tenebra dell'illusione, arde il filo della causalità. Il fatto che la creazione e la distruzione coesistono è ben evidente al CERN. Fin dagli anni Settanta qui si sono costruite macchine per disgregare particelle, annullandole in pura energia e poi analizzando le nuove particelle create in quel crogiolo. Nell'ultimo decennio, però, il CERN ha assistito a un altro tipo di morte e rinascita: quella dei collisori di particelle stessi. Il giorno della mia visita tutto ferveva. Fisici e ingegneri erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi al LHC e ai suoi vari rivelatori. Il LHC è una macchina come se ne creano una volta ogni generazione. Ma prima che fosse costruito si era dovuto demolire un acceleratore più vecchio, il Large Electron-Positron (LEP), che correva nella stessa galleria (queste macchine vengono costruite sotto terra non per ragioni di sicurezza, ma perché è più economico scavare enormi gallerie che pagare i terreni edificabili in superficie, soprattutto in zone importanti come Ginevra). Nel 1999 il LEP era vicino alla fine, ma si rifiutava di morire serenamente. La macchina era arrivata vicinissima a trovare una particella sfuggente detta bosone di Higgs, l'unico elemento non ancora individuato del cosiddetto zoo di particelle descritto dal modello standard della fisica delle particelle. Si pensa che il bosone di Higgs dia la massa alle particelle. Trovarlo è essenziale per comprendere il mondo materiale. Così, allettati dalle promesse del LEP, i dirigenti del CERN gli diedero più tempo mentre procedeva parallelamente la costruzione del LHC. | << | < | > | >> |Pagina 213Fabiola Gianotti, una fisica italiana minuta con i capelli scuri, che il 1° marzo 2009 ha preso il posto di Peter Jenni come portavoce di ATLAS, è altrettanto ottimista. «Se la supersimmetria esiste sulla scala dei TeV, verrà scoperta dal LHC», disse mentre eravamo seduti nel suo ufficio al CERN; la parete dietro la sua scrivania era dominata da un poster di un'isola tropicale con palme che si stagliavano contro un tramonto arancione e rosso. «In realtà, sarà una delle cose nuove più facili da scoprire, all'inizio pure più facile del bosone di Higgs».La fisica non era stato il primo amore di Gianotti. «Sono arrivata alla fisica da molto lontano», mi racconta. «Da ragazzina amavo l'arte e la musica. Ho studiato pianoforte seriamente al conservatorio, e alle superiori mi sono dedicata alla letteratura, alle lingue antiche come il greco e il latino, alla filosofia e alla storia dell'arte. Amavo queste materie, ma ero anche una ragazzina curiosa. Mi affascinavano le grandi domande. Perché le cose sono come sono? Questa possibilità di rispondere alle domande fondamentali ha sempre affascinato me, la mia mente, il mio spirito, tutto». Presto si imbatté nella fisica. «Scoprii che la fisica si occupa di quelle grandi domande fondamentali», ricorda. Più della filosofia? «Sì, di più», dice parlando lentamente per sottolineare ogni sillaba. «Perché la fisica sperimentale si basa sui fatti. Risponde alle domande fondamentali, e non semplicemente dando una risposta alla domanda inventando qualcosa, ma dimostrandolo. È bellissimo». Non erano le parole di un teorico, ma quelle di una persona che si sporca le mani con gli strumenti. Questi concetti - la supersimmetria, la materia oscura, il bosone di Higgs, le dimensioni extra - per lei non erano semplici equazioni, ma idee che lasciano tracce negli strumenti, che sia in forma di scie di particelle o di qualche dato anomalo relativo alla quantità di moto o all'energia. Gianotti ricorda la prima volta che entrò nella caverna di ATLAS. «Mi dissi: "Mio dio, come la riempiremo? E troppo grande". Adesso, quando scendo, mi dico: "Mio dio, come faremo a farci entrare tutto? È così piccola"». Alla fine c'è stato dentro tutto, e oggi, con lo LHC finalmente in funzione, i protoni collidono nel centro di ATLAS. Da qualche parte, tra queste collisioni, ci sono quelle che i fisici delle particelle chiamano "firme", forse della supersimmetria e della materia oscura, o del bosone di Higgs. I fisici parlano di queste firme con tanta certezza che è facile pensare che si tratti di una prova permanente e tangibile. In realtà queste firme sono fugaci. Nel LHC, per esempio, quando i protoni collidono con altri protoni le alte energie per un istante brevissimo producono condizioni in cui si generano particelle e le rispettive antiparticelle, come prevede la meccanica quantistica. Queste coppie particelle/antiparticelle possono o annichilirsi a vicenda o decadere individualmente in altre particelle, ognuna con massa minore del suo predecessore. Maggiore è l'energia della collisione iniziale e maggiore è la massa delle particelle che ne potrebbero emergere. Ma non c'è modo di osservare veramente le prime particelle prodotte: la loro vita può essere di soli 10^-24 secondi. Quindi i fisici devono studiare il flusso di particelle secondarie create dopo il decadimento delle primarie, più pesanti, concentrandosi sui prodotti finali più familiari appartenenti al mondo che conosciamo, come quark, elettroni, unioni e fotoni. Di lì procedono a ritroso, cercando di ricostruire quali particelle primarie possano aver generato le secondarie. Un bosone di Higgs, per esempio, può in teoria decadere in quattro elettroni o in quattro muoni o in due elettroni e due muoni, tra molte altre possibilità. Un bosone di Higgs può anche decadere in una coppia di quark bottom. Questi sono gli scenari più semplici. La ricerca di questa particella diventa molto più complicata nel mondo della supersimmetria, dove la maggior parte dei modelli prevede non una ma cinque particelle di Higgs, tre neutre e due cariche, ognuna con la propria catena di decadimento. Un universo supersimmetrico potrebbe rivelarsi in altri modi. Il più semplice sarebbe un ammanco di energia. Se si crea una particella supersimmetrica dotata di massa, questa decadrà istantaneamente in particelle sempre più leggere fino a quando la catena di decadimento terminerà con la produzione della particella supersimmetrica più leggera, il neutralino. Il neutralino è per definizione stabile e debolmente interagente, il che ne fa il candidato preferito per la materia oscura. Ma dato che è debolmente interagente, un neutralino passerà inosservato a uno strumento come ATLAS. O quasi inosservato. Le leggi della fisica dicono che l'energia e la quantità di moto totali si conservano durante queste collisioni. Quindi, se teniamo sotto osservazione ogni singola particella in una data catena di decadimento, il neutralino farà percepire la propria presenza sotto forma di energia e quantità di moto mancanti. Energia e quantità di moto mancanti possono anche segnalare la presenza di dimensioni extra. Uno dei problemi più seri del modello standard è che non è in grado di spiegare perché la gravità è tanto più debole delle altre forze fondamentali (per esempio è quasi 10^34 volte più debole della forza elettromagnetica). I teorici delle stringhe hanno ipotizzato che tutte le forze abbiano lo stesso valore; è solo che la gravità agisce in dimensioni aggiuntive, mentre le altre forze sono limitate alle tre dimensioni che ci sono familiari. Quindi la gravità sembra più debole perché la maggior parte si disperde nelle dimensioni extra. Sembra fantascienza, finché non sentiamo fisici come Gianotti che spiegano come le dimensioni extra possano comparire nel LHC. Il collisore potrebbe produrre gravitoni, le particelle presunte mediatrici della forza di gravità. Questi gravitoni sfuggirebbero nelle dimensioni extra, ma il LHC ha una chance di individuarli oppure, come per i neutralini, di determinarne la presenza sotto forma di energia o quantità di moto mancanti alla fine di una lunga e complicata catena di particelle in decadimento. Prima di cominciare a cercare una nuova fisica, però, ATLAS dovrà confermare quello che è stato scoperto da altri rivelatori. Il collisore Tevatron e i suoi rivelatori al Fermilab, vicino a Chicago, hanno determinato con notevole precisione le masse del bosone W e del quark top (che è uno dei sei tipi di quark, il più pesante), mentre il LEP ha fatto lo stesso per il bosone Z. ATLAS li dovrà trovare, ma non solo: i fisici dovranno usare queste particelle per mettere a punto i nuovi rivelatori e assicurarsi che funzionino come previsto. Il quark top, scoperto al Fermilab nel 1995, è una delle particelle che i fisici useranno per calibrare ATLAS. «Il segnale di oggi diventa uno strumento di calibrazione di domani», dice Gianotti. Il LHC e ATLAS potrebbero scoprire alcune profonde verità sull'universo. Gianotti confessa di provare «entusiasmo e la consapevolezza di essere vicini a qualcosa di molto importante e grande per l'umanità». Cita Dante: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». «Come esseri umani, perseguire la ricerca fondamentale e la conoscenza è un bisogno per noi, che ci distingue dagli animali e dalle piante. È come il bisogno di arte», dice Gianotti. | << | < | > | >> |Pagina 231Capitolo 10
Bisbigli da altri universi
Il 1° febbraio 2007 l'Agenzia Spaziale Europea (ESA) inaugurò il satellite Planck, l'ultima di una famiglia piccola ma sceltissima di sonde spaziali innovative progettate per studiare il fondo cosmico a microonde (CMB). Il CMB è letteralmente la prima luce dell'universo. È una radiazione fossile di più di 13 miliardi di anni fa, che contiene le tracce di fenomeni che avvennero pochi istanti dopo la nascita dell'universo. La sua scoperta, negli anni Sessanta, fu considerata una prova decisiva a favore della teoria del Big Bang: nessun altro modello dell'universo poteva produrre queste radiazioni. Gli scienziati che studiano il CMB sono le star della cosmologia, avendo vinto una manciata di Nobel, e quindi probabilmente aveva senso presentare Planck a Cannes, una città famosa per il suo sfavillante festival del cinema. Quel giorno il proverbiale tappeto rosso era stato srotolato, almeno metaforicamente, per il cosmologo di Berkeley George Smoot, che si stava ancora godendo il recente status di vincitore del Nobel per il suo lavoro su COBE, il satellite Cosmic Background Explorer (esploratore del fondo cosmico). Parlò a lungo delle virtù di Planck e di come ci avrebbe portato in un'età dell'oro di cosmologia di precisione, in cui i parametri che descrivono l'universo, la sua struttura e la sua evoluzione, saranno misurati con accuratezza sempre maggiore. Poi qualcuno del pubblico chiese: «Quanto crede nel Big Bang? È mai avvenuto? Ne è veramente sicuro?». Smoot rimase perplesso. «Mi sorprende che questa domanda mi venga posta in Francia; negli Stati Uniti non sarei stato tanto sorpreso», rispose. «Ho una grande fiducia nel Big Bang. Non abbiamo tante prove quante per la teoria dell'evoluzione, ma negli Stati Uniti ci sono persone che mettono in dubbio anche la teoria dell'evoluzione. Da quando è stato annunciato il Nobel, ricevo cinque volte tante e-mail [che dicono]: "Be', complimenti per il premio, ma è stato un errore. Il Big Bang è sbagliato, la radiazione è qualcos'altro"». Non stupisce che Smoot fosse sconcertato dalla domanda, perché aveva appena ricordato all'uditorio che i satelliti che avevano preceduto Planck - CORE e WMAP, la Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (sonda per l'anisotropia delle microonde Wilkinson) - avevano già confermato, con accuratezza sorprendente, alcune delle caratteristiche previste del CMB. Fino a circa 370.000 anni dopo il Big Bang, i fotoni dell'universo erano intrappolati: non potevano andare da nessuna parte perché continuavano a urtare gli elettroni liberi. Poi, all'epoca della ricombinazione, l'universo si era raffreddato a sufficienza perché elettroni e nuclei potessero combinarsi per formare atomi neutri, soprattutto di idrogeno. L'universo divenne trasparente alla luce. I fotoni potevano finalmente viaggiare per lo spazio senza ostacoli. Questi fotoni, raffreddati fin quasi allo zero assoluto a causa dell'espansione dell'universo, ci danno un'istantanea dell'universo al momento della ricombinazione. Ma il CMB è una finestra in un'era ancora più antica, quando l'inflazione estendeva le fluttuazioni quantistiche del nostro universo neonato a scale cosmologiche, nelle prime frazioni di secondo dopo il Big Bang. Giunti alla ricombinazione, queste fluttuazioni erano diventate minuscole variazioni nella densità della materia. Quando i fotoni del CMB si liberarono, vennero diffusi dalla materia per l'ultima volta prima di iniziare il loro viaggio nel cosmo. Quelli che si diffusero in regioni più dense erano più freddi di quelli che provenivano da regioni meno dense: dovevano spendere energia per cercare di sfuggire alla gravità delle regioni più dense. La differenza di temperatura indotta da queste variazioni è dell'ordine di appena una parte su centomila. COBE osservò queste variazioni e creò un'immagine delle microonde del cielo simile a un quadro di Monet. E WMAP - che ha una risoluzione angolare trentatré volte migliore di quella di CORE - la confermò con precisione molto maggiore, costruendo complesse immagini in stile pointilliste. Planck può rilevare e visualizzare le variazioni, dette anisotropie, della temperatura nel CMB con un dettaglio ancora maggiore. Anzi, gli strumenti a bordo del satellite sono i migliori possibili per misurare le anisotropie, e quindi in un certo senso Planck avrà l'ultima parola. Celata tra queste anisotropie c'è anche la traccia delle onde sonore primordiali che iniziarono a riecheggiare circa 30.000 anni dopo il Big Bang e si fermarono poco dopo la ricombinazione (si veda il Capitolo 6). I telescopi per il CMB, tra cui WMAP, hanno cominciato un buon lavoro nel rilevare queste tracce, ma Planck sta facendo di meglio. Quando le onde acustiche iniziarono a propagarsi attraverso il plasma dell'universo delle origini, e ogni onda si allargava a partire da una regione di materia oscura a densità superiore alla media, le loro interazioni diedero luogo a onde stazionarie (questo tipo di onde si produce, per esempio, quando si pizzica una corda di una chitarra; la corda vibra alla sua frequenza fondamentale e anche a tutte le sue armoniche). L'universo risuonò a una frequenza fondamentale (la lunghezza d'onda maggiore) e alle sue armoniche. Durante la ricombinazione, l'onda stazionaria più grande fece raggiungere la massima compressione ad alcune regioni di plasma e la massima rarefazione ad altre. Le armoniche fecero raggiungere la compressione e rarefazione massime a regioni sempre più piccole. Queste zone di massima e minima densità rimasero congelate nella struttura dell'universo subito dopo la ricombinazione ed è questa informazione che è conservata nel CMB. I fotoni del CMB provenienti dalle regioni compresse erano più caldi dei fotoni dalle parti rarefatte. Così, osservando il cielo con una risoluzione angolare di 1° o meno, dovremmo vedere fotoni più caldi o più freddi della media di circa trenta parti su un milione. Come abbiano visto nel Capitolo 6, la massima distanza che può aver percorso un'onda acustica prima che si fermassero le oscillazioni si comporta da righello standard del cielo. Al momento della ricombinazione questa distanza era di circa 120 chiloparsec, e nel CMB dovrebbe sottendere un angolo di circa un grado; o meglio, è così se l'universo è piatto. La maggior parte degli scienziati crede che lo sia, ma l'accuratezza delle misurazioni attuali è tale da lasciare spazio al dubbio. L'universo è lievemente curvo? Se sì, lo è negativamente o positivamente? Planck può rispondere a queste domande misurando il righello standard più accuratamente che mai. La sonda getterà luce per la prima volta anche sull'era inflazionaria dell'universo. Si ritiene che l'inflazione abbia smosso la struttura dello spaziotempo, generando onde gravitazionali, che sarebbero cresciute di dimensioni con l'espandersi dell'universo. Al tempo della ricombinazione, queste onde gravitazionali dovrebbero avere sia allungato che compresso lo spaziotempo, torcendo e polarizzando i fotoni del CMB. Il modo migliore per capire la polarizzazione è quello di pensare alla luce come a un'onda elettromagnetica che vibra in un piano perpendicolare alla direzione in cui viaggia. In questo piano l'angolo di vibrazione può essere verticale o orizzontale o qualunque altro ed è detto angolo di polarizzazione. Di solito i fotoni da una sorgente luminosa sono polarizzati casualmente, e quindi la luce non ha un angolo di polarizzazione ben definito. Ma in certe situazioni la luce può avere una polarizzazione preferenziale, come quando la luce del sole si riflette sulla superficie di un lago (per questo alcuni pescatori portano occhiali da sole speciali per filtrare il bagliore della luce polarizzata, in modo da essere in grado di guardare sotto la superficie e vedere i pesci che depongono le uova sul fondo di un fiume). Le onde gravitazionali generate durante l'inflazione avrebbero polarizzato i fotoni del CMB in modi molto specifici, e questa firma potrebbe essere presente nel cielo odierno. Planck, infatti, è dotato degli occhiali da sole per vedere (non filtrare) in particolare questa cosiddetta polarizzazione B-mode. Ma c'è un problema. Nessuno sa quanto possa essere forte questo segnale, e quindi è un po' una ricerca alla cieca. Se Planck trova la polarizzazione B-mode, sarà la prima prova diretta dell'inflazione, la pistola fumante, per così dire. Aiuterà i cosmologi a determinare la forza del campo scalare che provocò l'inflazione. Questo, insieme alle misurazioni della curvatura, sarà il più forte indizio mai avuto sulla natura dell'inflazione. Quando iniziò l'inflazione, e quanto durò? La teoria delle stringhe la può spiegare? Rispondere a queste domande è cruciale per affrontare la domanda più ampia se il nostro universo sia solo uno tra i moltissimi di un multiverso. Planck potrebbe essere la nostra migliore finestra sperimentale sul multiverso. Tornando a Cannes, le domande si conclusero senza ulteriori attacchi alla teoria del Big Bang. Tutti furono trasferiti alla camera bianca della Thales Alenia Space, il principale appaltatore dell'ESA per Planck, per vedere il satellite. Ci fu raccomandato di non toccare nulla. Il telescopio, con il suo specchio primario da 1,5 metri, era già assemblato e coperto da diafani veli rosa. Doveva ancora essere completato con le apparecchiature elettroniche, i radiometri, i bolometri (strumenti che misurano la radiazione elettromagnetica incidente) e gli scudi per il calore, che erano tutt'attorno. Gli scienziati di Planck si misero in posa per farsi fotografare davanti alle loro apparecchiature.
Era un'immagine toccante: molti di loro lavoravano da più di un
decennio a parti del progetto e vedevano per la prima volta l'intero
satellite. «È bellissimo!», esclamò Jan Tauber, uno degli scienziati
del progetto Planck.
Planck fu lanciato circa due anni dopo, il 14 maggio 2009, insieme a Herschel, un telescopio spaziale negli infrarossi. Entrambi furono trasportati nello spazio da un razzo Ariane 5 che partì rombando dallo spazioporto dell'ESA a Kourou, nella Guyana Francese. Si separarono dal veicolo di lancio a circa due minuti l'uno dall'altro, ed entrambi accelerarono verso le loro posizioni definitive a circa 1,5 milioni di chilometri dalla Terra - quasi quattro volte la distanza della Luna - un luogo detto L2 (cioè punto lagrangiano 2), uno dei punti più "tranquilli" dello spazio. Solo di recente le sonde spaziali hanno percorso la lunga strada fino a L2. Le due sonde più celebri degli ultimi decenni - il telescopio spaziale Hubble e CORE - furono entrambe lanciate in orbita attorno alla Terra, Hubble a un quota di circa 580 chilometri e COBE a 900. Queste orbite sono più facili e più economiche da raggiungere - e, nel caso di Hubble, accessibili per eventuali riparazioni - ma hanno i loro limiti. I cosmologi sono in cerca di misurazioni sempre più precise, e le sonde in orbita terrestre possono risentire dell'ambiente termicamente instabile, entrando e uscendo dall'ombra del pianeta, soprattutto alle quote inferiori. Dagli anni Novanta gli astronomi sanno che le loro sonde devono raggiungere una certa distanza dalla Terra per ottenere buoni dati. L2 era la destinazione perfetta. Nel 1772 il matematico Joseph-Louis Lagrange identificò cinque punti nelle vicinanze di due oggetti dotati di grande massa in cui l'attrazione gravitazionale è così debole che un terzo oggetto molto più piccolo può rimanere "immobile" rispetto ai due corpi maggiori. La cosa rimase di interesse solo teorico sino all'inizio del XX secolo, quando gli astronomi scoprirono degli asteroidi che erano nella stessa orbita di Giove intorno al Sole, e anticipavano o seguivano il gigante gassoso. Si scoprì che gli asteroidi (i corpi "più piccoli") si erano sistemati in due dei cinque punti lagrangiani del sistema Sole-Giove (i due corpi "dotati di grande massa"). | << | < | > | >> |Pagina 263Appendice 1
Il modello standard della fisica delle particelle
Sono note quattro forze fisiche fondamentali: l'elettromagnetismo, la forza nucleare debole, la forza nucleare forte e la gravità. Il modello standard della fisica delle particelle è la teoria della materia e di tutte le forze fondamentali tranne la gravità. Il modello ripartisce il suo insieme di particelle fondamentali in vari modi. Le categorie più ampie sono i bosoni (mediatori delle forze) e fermioni (che formano la materia): • I bosoni comprendono il fotone (forza elettromagnetica), le particelle W e Z (forza nucleare debole) e gli otto tipi di gluoni (forza nucleare forte). Il fotone e i gluoni sono privi di massa, mentre il W (con 80 GeV, circa ottanta volte la massa di un protone) e lo Z (91 GeV) sono tra le particelle con la massa maggiore mai scoperte. • I fermioni si suddividono in leptoni e quark: •• ci sono tre gruppi di leptoni: l'elettrone e il neutrino elettronico; il muone e il neutrino muonico; e il tauone (o particella tau) e il neutrino tauonico; •• anche i quark si dividono in tre gruppi (allineati con i tre gruppi di leptoni): up e down; charm e strange; e top e bottom. Il modello standard mostra come varie combinazioni di tre di questi sei quark diano luogo alle particelle dette barioni, nonché ad altre particelle composte da diverse combinazioni di quark. I protoni (up, up, down) e i neutroni (down, down, up) sono i barioni più noti. Ce ne sono molti altri, ma sono instabili e decadono istantaneamente. Quindi un atomo di materia normale è composto da leptoni (elettroni) e barioni (protoni e neutroni). Il modello standard, anche se ha superato moltissime verifiche, non è perfetto. Per esempio non include la gravità. Inoltre le tre forze fondamentali descritte dal modello non si unificano alle energie più alte, mentre i fisici hanno buone ragioni per credere che debbano farlo. Un'idea detta supersimmetria (supersymmetry, SUSY) estende il modello standard ipotizzando un partner bosonico per ogni fermione e un partner fermionico per ogni bosone. In alcune teorie come la teoria delle stringhe, che incorporano la supersimmetria, la gravità ha il proprio bosone: il gravitone. Inoltre le forze si unificano accuratamente alle energie più alte. Il modello standard è stato verificato sperimentalmente, ma non ci sono ancora prove che l'universo sia supersimmetrico. | << | < | > | >> |Pagina 265Appendice 2
Dal Big Bang a oggi: il modello standard della cosmologia
Al momento del Big Bang, l'universo è un granello enormemente caldo e denso di spaziotempo. Comincia a espandersi e a raffreddarsi. Dalla nascita dell'universo a 10^-43 secondi più tardi - un periodo detto epoca di Planck - le quattro forze fisiche fondamentali sono ancora unificate in una sola. Alla fine di questa epoca la simmetria tra la gravità e le altre forze è rotta. Questo dà inizio alla fase successiva, l'epoca della grande unificazione, che dura fino a 10^-36 secondi dopo il Big Bang, alla fine della quale la forza nucleare forte si separa dalla forza elettrodebole. La transizione dà il via all'inflazione, un episodio breve e violento che dura appena qualche frazione di secondo ma durante il quale l'universo si espande esponenzialmente, ingrandendosi di vari ordini di grandezza. Quando finisce l'inflazione l'universo si scalda di nuovo, dando luogo a radiazioni e a particelle elementari come i quark e gli elettroni, e anche a particelle di materia oscura. A quel punto l'inflazione ha dilatato le fluttuazioni quantistiche dell'universo neonato e le ha trasformate in piccole variazioni nella densità della materia e dell'energia, che diventeranno i semi della struttura su larga scala dell'universo. Omogeneo tranne per queste variazioni, l'universo torna al ritmo di espansione più pacato che aveva prima dell'inflazione. Alla fine dell'epoca elettrodebole, circa 10^-12 secondi dopo il Big Bang, anche l'elettromagnetismo e la forza nucleare debole si separano. Adesso l'universo ha quattro forze fondamentali distinte (si veda l'Appendice 1). Inoltre, un processo non ben compreso detto bariogenesi dà luogo a più materia che antimateria, il che porta ai protoni e ai neutroni. Circa tre minuti dopo il Big Bang l'universo si raffredda a sufficienza per formare i nuclei dell'idrogeno, dell'elio e di pochi altri elementi leggeri. Ma l'universo è ancora abbastanza caldo da continuare a essere un plasma di radiazioni, elettroni e nuclei leggeri. Poi, circa 370.000 anni dopo il Big Bang, quando le temperature sono calate significativamente, gli elettroni si combinano con i nuclei per formare, tra l'altro, atomi di idrogeno ed elio. È l'epoca della ricombinazione. Vengono emessi i fotoni del fondo cosmico a microonde. Qualche centinaio di milioni di anni dopo cominciano a formarsi le prime stelle e galassie. L'universo continua a espandersi, ma la sua velocità di espansione adesso è rallentata dall'attrazione gravitazionale. Poi, qualche miliardo di anni dopo il Big Bang, l'energia cumulativa del vuoto dello spaziotempo in espansione - nota ora come energia oscura - diviene tanto forte da cominciare a contrastare la gravità. L'espansione dell'universo, anziché rallentare, comincia ad accelerare.
Questo è il modello standard della cosmologia, parti del quale
rimangono congetturali e non verificabili, dato lo stato attuale della
teoria e della tecnologia (in particolare l'epoca di Planck e quella
della grande unificazione). Questo modello è noto come Λ-CDM,
dove Λ (lambda) rappresenta l'energia oscura e CDM sta per
cold dark matter
(materia oscura fredda), cioè materia oscura composta da particelle lente dotate
di massa. I cosmologi non conoscono l'esatta natura né dell'energia oscura né
della materia oscura, ma hanno determinato alcuni parametri del modello
misurando il fondo cosmico a microonde e analizzando supernovae vicine e lontane
nonché la struttura su larga scala delle galassie. Questi esperimenti ci dicono
che l'universo è composto di energia oscura (~73 per cento), materia oscura
(~23 per cento) e materia normale (~4 per cento). Il parametro Ω (omega), che è
il rapporto tra la densità dell'universo e la densità critica necessaria perché
sia piatto, è circa 1. Finora tutti gli indizi suggeriscono che viviamo in un
universo piatto.
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