|
|
| << | < | > | >> |Indice11 Introduzione 35 L'umanesimo marxiano 59 Il lavoro come autocreazione 85 L'utopia del lavoro come bisogno vitale 106 Un partito per una società di produttori: Gotha 1875 129 La teoria dell'individuo sociale 145 Marcuse: la ricongiunzione di lavoro e felicità 171 Arendt: l'impossibile redenzione del lavoro 200 Epilogo: il tramonto del cittadino laborioso 227 Bibliografia 235 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 85L'utopia del lavoro come bisogno vitaleLa tesi dei due Marx Il rapporto tra il lavoro e la libertà è definito da Marx in modi apparentemente contrastanti. Da un lato il lavoro sembra dover restare un regno della necessità, sulla base del quale si eleva il regno della libertà, ovvero «lo sviluppo delle capacità umane come fine a se stesso». Ma il termine dello sviluppo della società comunista è visto anche come la trasformazione del lavoro da mezzo di vita a bisogno vitale. Se nella prima prospettiva unico obiettivo praticabile appare l'eliminazione della naturalità del processo lavorativo, da assoggettare al controllo dei produttori associati, nella seconda il cambiamento investe i contenuti stessi dell'attività lavorativa, finalmente riferita non solo alle esigenze della riproduzione sociale ma alla personalità di chi la compie. È possibile tenere unite in un'unica costruzione teorica l'idea di un regno della libertà che si eleva sulla base di quello della necessità, e sembra dunque costituito essenzialmente da attività non lavorative, e l'utopia del lavoro divenuto bisogno vitale? O non si tratta, come hanno affermato molti interpreti, di due concezioni antitetiche della libertà, pensata ora al di là del lavoro ed ora dentro il lavoro? I due motivi, sostiene ad esempio Marcuse, non sono composti da Marx in sintesi unitaria. «Nel Capitale - egli scrive - il regno della necessità è sempre un regno di non libertà e l' optimum che si può raggiungere è una significativa riduzione della giornata lavorativa e un alto grado di razionalizzazione». Viene dunque lasciata cadere la concezione del rapporto tra lavoro e libertà elaborata nei Grundrisse, dove si immaginano condizioni di piena automazione, nelle quali «il produttore immediato è dissociato dal processo materiale di produzione e diventa un soggetto libero nel senso che può divertirsi e fare esperimenti col materiale tecnico, con le possibilità della macchina e delle cose prodotte e trasformate dalle macchine». Analogamente Ágnes Heller vede agire nelle opere di Marx motivi inconciliabili: da un lato il riconoscimento della possibilità di un radicale mutamento della qualità del lavoro, dall'altro l'accettazione rassegnata della sempre più spinta semplificazione che esso subisce nella produzione moderna. «Nella Critica del programma di Gotha, come nei Grundrisse - afferma l'autrice - Marx delinea una società del benessere dove il lavoro diventa un bisogno vitale. Si noti la divergenza rispetto alle Teorie sul plusvalore, dove invece, conformemente al Capitale, il lavoro appare, nel migliore dei casi, come "dovere sociale", qualcosa di completamente diverso da un "bisogno vitale". Nel Capitale e nelle Teorie sul plusvalore la produzione per i bisogni non è correlata al lavoro come bisogno vitale, ma con il lavoro come "dovere sociale": ne consegue necessariamente la teoria del "puro predominio" della legge del valore». Nella storia del marxismo non è stato indifferente, da un punto di vista politico, identificare la sfera del lavoro con quella della necessità oppure evidenziare il tema del lavoro come bisogno vitale. La prima linea di pensiero ha portato per lo più a porsi come obiettivo primario la razionalizzazione della produzione o il governo democratico dell'economia, e ad appiattire così in sostanza il regno della libertà su quello della necessità. I risultati a cui si è approdati per questa via sono di dubbio valore perché è divenuto sempre più evidente, alla luce delle esperienze del socialismo «realizzato», che solo produttori che abbiano funzioni realmente mutate all'interno della divisione del lavoro sono in grado di presiedere in modo non formale e senza deleghe, alle scelte produttive. Ma l'idea secondo cui il lavoro resta una dura necessità ha condotto anche ad affermare viceversa la rilevanza, nella prospettiva del comunismo, di altre dimensioni oltre quella lavorativa, a cui gli individui non possono essere ridotti, e a privilegiare di conseguenza una strategia di riduzione del tempo di lavoro. Il marxismo «critico» ha viceversa tenuto fermo l'obiettivo di una trasformazione sostanziale dell'esperienza lavorativa, anteponendo il cambiamento degli uomini, impegnati in essa, a quello delle forme dell'amministrazione. Si può ipotizzare che il tema dell'«autogoverno dei produttori» costituisca un tentativo di fusione delle due tradizioni. Esso indica una forma di organizzazione sociale ma insieme fa riferimento alla riappropriazione, da parte dei produttori diretti, di capacità alienate e in particolare del sapere sociale. | << | < | > | >> |Pagina 129La teoria dell'individuo socialeIndividualità e ruolo sociale Credo che non debbano essere spese molte parole per mostrare che in Marx l'interesse per la liberazione degli individui (e non genericamente dell'uomo) è centrale. Le interpretazioni che imputano direttamente al fondatore del socialismo scientifico la svalutazione dell'individuo a favore del collettivo non rendono conto di questo interesse, che circola da un capo all'altro della sua opera. Con questo non intendo dire che a un certo deprezzamento dell'individuo la teoria marxiana non giunga effettivamente attraverso un giro più ampio - una mediazione dialettica. La critica dell'alienazione è per l'appunto critica dell'appiattimento che l'individuo subisce sulla propria condizione lavorativa e di classe. Il lato progressivo del capitalismo consiste nella rottura dei vincoli delle comunità naturali, che impongono ai singoli comportamenti e valori. Ma esso ricostituisce un potere estraneo nella forma del mercato mondiale, su cui gli individui sono impossibilitati ad esercitare un controllo e un dominio cosciente. Ciascuno viene schiacciato nel proprio ruolo: il borghese non riesce a pensare e ad agire che secondo le categorie del proprio stato sociale (è dominato dal «senso dell'avere», per dirla nei termini dei Manoscritti del '44) e non arriva neppure ad immaginare che la propria realizzazione di individuo possa compiersi altrimenti; il proletario dal canto suo è costretto a intendere la propria attività come semplice attività di guadagno (è contaminato anch'egli dal senso dell'avere) e a identificare i propri interessi con quelli della propria classe anziché con quelli della comune umanità. Il vantaggio del proletario risiede nel fatto che la sua coscienza di classe gli consente un'apprensione della totalità sociale e delle linee di tendenza dell'evoluzione storica. La sua «missione» di liberazione, analogamente, se gli è imposta dalle misere condizioni in cui versa (o dettata, se vogliamo dall'«egoismo»), si risolve in un arricchimento per l'intera umanità, resa finalmente libera dalle divisioni di classe. Marx è tuttavia ben convinto che finché permangono tali divisioni la figura umana del proletario rimanga anch'essa mutilata e dominata, in qualche misura, dagli stessi valori propri del capitalismo.
La generalizzazione della condizione di lavoratore, e
l'applicazione rigorosa del principio «a ciascuno secondo il suo lavoro»
costituiscono, anche nella prima fase del comunismo contemplata dalla
Critica del programma di Gotha,
progressi in cui la individualità - ammette Marx - non
giunge ancora ad affermarsi nella varietà delle sue dimensioni. Ciò su cui
vorrei attirare l'attenzione è però il fatto che in questo schema si suppone che
questa condizione di relativa disindividualizzazione (nel lavoro e nella classe)
rappresenti un punto di partenza indispensabile per la lotta e per la prima
affermazione del socialismo. La polemica con Stirner a proposito
dell'inefficacia della rivolta dell'individuo come tale, a cui viene
contrapposta la rivoluzione, in quanto rivolta all'interno delle condizioni date
o «malcontento di se stesso nell'ambito di un certo stato di cose», esprime
bene questa convinzione. Solo attraverso un ancoramento al proprio gruppo di
appartenenza, ovvero una pratica della solidarietà di classe, si può dare avvio
a quel mutamento delle istituzioni, da cui in ultima analisi sono condizionati e
limitati i destini individuali.
L'utilità Il potere estraneo che si costituisce nella società capitalistico-borghese come forza sovrastante gli individui e ad essi ostile nasce paradossalmente proprio dallo stato di atomizzazione di questa società, in cui vige una lotta di tutti contro tutti. La società è una «società commerciale», in cui ciascuno obbedisce a una motivazione economica, che lo porta a competere con gli altri, considerati avversari. L'alienazione, o almeno un suo aspetto essenziale, consiste nella frammentazione e contrapposizione degli individui. L'etica borghese corrisponde a questa pratica in un duplice modo: in parte è la sua proiezione diretta, come avviene nelle diverse teorie dell'utilità o nelle concezioni che riducono la società a uno strumento da cui il singolo debba trarre vantaggio; in parte invece si presenta come abbellimento morale di quella pratica attraverso la supposizione ipocrita che l'interesse particolare e quello generale coincidano. Se nella prima forma essa si presenta come una diretta apologia dell'esistente, nella seconda non consente di gettar luce sui meccanismi spietati di una società che è nella sua essenza retta dal calcolo economico. Gli economisti della scuola umanitaria, i sismondiani, commetterebbero appunto l'ingenuità di supporre possibile, senza rivolgimenti radicali, la composizione degli interessi dei singoli e della comunità. Sembra che Marx non riesca a immaginare un rapporto di utilità separato dall'idea di sfruttamento. Il rapporto utilitario ha il senso del tutto determinato che acquista sotto il regime borghese, che «io sia utile a me stesso recando danno a un altro». L'interesse, a cui si appellano gli utilitaristi, crea un diaframma tra il soggetto e le manifestazioni della sua vita: «Nell'interesse il borghese che riflette (reflektierende) insinua sempre un elemento tra sé e le manifestazioni della sua vita». L'assunzione dell'interesse dell'individuo come scopo della vita sociale apparterrebbe alla mentalità illuministica. Su questo punto Marx si attiene alla critica del concetto di utilità svolta da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. | << | < | > | >> |Pagina 145Marcuse: la ricongiunzione di lavoro e felicitàFar accadere l'esistenza Nel 1933, un anno dopo la pubblicazione del commento ai Manoscritti marxiani ricordato nel primo capitolo, Marcuse riprese il metodo praticato in quello scritto di mettere in connessione economia politica e filosofia, tornando a riflettere sui limiti della trattazione economica del concetto di lavoro. La scienza economica, egli sostiene, intende il lavoro semplicemente come «una determinata attività umana», che viene contrapposta alla non attività o ad attività improprie quali il gioco. È legittimo, e anzi necessario, un approccio «ontologico», sul genere di quello di Marx o ancor prima di Hegel, che assuma il lavoro «come un evento che domina in maniera permanente e continua tutto l'essere umano, e involge al tempo stesso anche il mondo dell'uomo». Ogni singola attività si origina da un più fondamentale «fare» che per l'uomo rappresenta «il modo del suo essere nel mondo»: è per mezzo di questo fare, che comporta una «mediazione», un'«oggettivazione», un «trapasso dalla forma del moto alla forma dell'essere», che l'uomo «diventa per sé ciò che egli è». In esso cioè non è in gioco tanto il risultato ma «ciò che avviene dell'esistenza umana stessa». L'appropriazione dell'oggettività nel lavoro consente all'esistenza umana di giungere a se stessa. A questo livello di astrazione Marcuse accetta di definire il lavoro attraverso il confronto con quell'altra modalità del fare umano che è il gioco. In quest'ultimo l'oggettività viene trascesa e l'uomo giunge a se stesso in una dimensione di libertà che nel lavoro non può essere attinta. Tuttavia esso non esiste autonomamente ma in funzione del lavoro, in quanto è «uno staccarsi dal lavoro e un rimettersi in forze per il lavoro». Le caratteristiche differenziali del fare lavorativo riconosciute da Marcuse sono tre: durata, continuità e peso. Sotto il profilo della durata il lavoro, diversamente dal gioco, che si esaurisce in singoli eventi, esprime un orientamento dell'intera esistenza. Inoltre da esso scaturisce qualcosa che esiste anche dopo la conclusione del singolo atto lavorativo, e questa «oggettivazione» conferisce permanenza a colui che lavora. Per questa sua caratteristica il lavoro definito da Marcuse rientra nello schema dell'«opera» (work) che avrebbe elaborato, molti anni più tardi, Hannah Arendt, la quale avrebbe parimenti visto in essa la fonte di una stabile identità. L'ultimo carattere, il peso, non indica la resistenza del materiale né l'aggravio psicologico connesso allo svolgimento del lavoro, ma qualcosa che lo precede, cioè la circostanza per cui il fare è sottoposto a una legge estranea, propria della cosa, che allontana l'essere umano da se stesso. Marcuse sposta i concetti di «produzione e riproduzione» dal terreno della produzione materiale a quello di una «prassi» mediante cui l'uomo assume la propria esistenza come un «compito», la «fa accadere», diversamente dall'animale che la «lascia» accadere. Questo movimento coinvolge nello stesso tempo la «situazione del mondo» che ci sta di fronte e la nostra stessa esistenza. Qui alcune categorie esistenziali vengono utilizzate per reinterpretare e ridefinire quella coincidenza di naturalismo e umanesimo, o di mutamento di sé e delle circostanze, che troviamo teorizzata nei manoscritti marxiani. E un'eco di questa medesima tradizione teorica è rinvenibile anche nella caratterizzazione teleologica di questo movimento di appropriazione della natura: «Questo fare - scrive Marcuse - è nell'uomo essenzialmente un fare consapevole, che ha di fronte a sé il suo scopo». La mediazione del lavoro è necessaria perché il mondo così com'è non corrisponde ai bisogni dell'uomo e deve essere elaborato. Il primo fine del fare è dunque il soddisfacimento dei bisogni di un essere strutturalmente manchevole. Certe formulazioni del materialismo storico possono certo aver dato adito a una simile concezione del lavoro, ma Marcuse obietta che quando è in causa il modo specificamente umano di essere nel mondo questa prospettiva economicistica, che riduce a sovrastruttura ogni altra dimensione della vita, non può bastare. Se l'essere umano è considerato come essere storico, più adeguato appare quel punto di vista che bada non al «soddisfacimento dei bisogni» (Befriedigung von Bedürfnissen) ma a una «copertura di fabbisogni» (Deckung von Bedarfen) - Marcuse riprende l'espressione da Friedrich von Gottl - cioè di esigenze che hanno a che fare con il pieno dispiegamento delle possibilità umane. Così il lavoro produttore di beni per la soddisfazione di bisogni è subordinato a un fine o compito ulteriore: il compito di produrre se stessi mediante la creazione di opere stabili. La dinamica che si apre in questo modo è infinita, non essendo concepibile un accadimento dell'esistenza nella sua pienezza. Quest'aspetto del lavoro, che ha il suo fondamento in una «sovrabbondanza» (Überschuß) essenziale dell'esistenza umana, mai totalmente esprimibile, non viene afferrato dalla teoria economica. | << | < | > | >> |Pagina 153L'aspetto minaccioso del godimento rispetto alla società del lavoro sta nel fatto che in esso l'individuo non si comporta come prestatore d'opera o riproduttore di forza lavoro, bensì come persona privata. Dal punto di vista della teoria del valore, che assimila ogni valore al lavoro, il piacere non può essere un valore; e se lo diventasse verrebbe messo a soqquadro tutto il mondo che si regge su quell'equazione. Il deprezzamento del piacere in una società fondata sul lavoro diventa della massima evidenza quando si considera il ruolo puramente strumentale che l'etica (idealistica) di questa società attribuisce al piacere sessuale, il quale si giustifica come mezzo igienico volto ad assicurare il funzionamento normale dell'uomo, e perde la sua «impudicizia» solo se assume come scopo la generazione di nuove forze di lavoro. L'edonismo oppone una barriera a questa «volontà di lavoro».Prima che da istituzioni repressive l'ostacolo al dispiegarsi del godimento è posto dalla stessa organizzazione della giornata lavorativa che lascia ad esso lo scarso margine del tempo libero e lo pone al servizio del rilassamento. L'ostacolo non tocca solo coloro che al lavoro sono soggetti ma anche quanti di esso beneficiano, i quali vivrebbero una specie di «senso di colpa sociale» e finirebbero per sbrigarsi del godimento come di un dovere o di un peso. Questo senso di colpa, di cui al momento Marcuse non indaga le origini sotterranee, è visto come il risultato di un'educazione che devia o rimuove gli istinti o i bisogni che tendono a sovvertire l'ordine stabilito tra lavoro e godimento, istillando l'idea che il fine del lavoro non debba essere la felicità, ma il profitto o il salario, «la possibilità cioè di continuare a lavorare». | << | < | > | >> |Pagina 171Arendt: l'impossibile redenzione del lavoroLa glorificazione del lavoro e l'utopia della sua fine In un paper dedicato a Marx, Hannah Arendt descrive la posizione di Marx come ambivalente. Da un lato egli appartiene alla «tradizione», nel senso che recupera l'ideale proprio di Aristotele, e già prima della polis, dell'uomo libero come uomo «sgravato dal lavoro». Nello stesso tempo però, nel confrontarsi con fenomeni del mondo moderno che la tradizione non aveva strumenti concettuali per intendere - la rivoluzione industriale, l'avvento della classe lavoratrice, la centralità del lavoro nella vita sociale e nel sistema dei valori riconosciuti - Marx si è spinto su una strada assolutamente antitradizionale, quella della «glorificazione del lavoro». Il riscatto della classe lavoratrice viene cercato per questa via, attribuendo cioè a tutti gli uomini il destino di diventare lavoratori, ovvero reinterpretando tutte le attività umane come attività lavorative. La strategia seguita da Marx rappresenta un relativo progresso rispetto alla via seguita dal socialismo utopistico - verso il quale Arendt è tutt'altro che tenera - che invoca la giustizia sociale, cioè un ideale ancora prossimo alla carità cristiana. Se il lavoro è riconosciuto come attività centrale della società moderna, la classe operaia non può essere più pensata come una classe da riscattare attraverso atteggiamenti moralizzatori, invocando appunto la carità cristiana o la passione per la giustizia. L'apprezzamento per questo passaggio operato da Marx da un'utopia sentimentale alla scienza si iscrive entro una più generale riserva, che Arendt avanza costantemente, verso l'uso improprio di atteggiamenti compassionevoli e l'appello a sentimenti morali nell'arena pubblica. Non si direbbe però che l'autrice si compiaccia del nuovo assetto di cose che con realismo Marx ha annunciato: in esso gli uomini, ridotti a lavoratori, assumono come fine la conservazione della vita individuale, anziché una qualche meta comune o pubblica; e in secondo luogo sono portati a giudicare parassitaria l'esistenza di coloro che non lavorano, a svalutare cioè il modello aristocratico-antico dell'ozio creativo, fino al punto di negare il diritto di vivere a chi non lavora.
D'altra parte la lucidità della previsione si combina
nell'opera marxiana con un residuo utopistico. In essa a tratti si manifesta la
speranza che in qualche modo venga meno il dominio assoluto della necessità.
Questa speranza nasce dalla fiducia nella natura dialettica del divenire
storico. Ma se è folle credere che si possano liberare i lavoratori come tali,
togliendo al lavoro il suo aspetto costrittivo, l'alternativa a cui Marx ricorre
di «emancipare l'uomo dal lavoro» è giudicata non meno «impossibile». Essa vale
quanto la pretesa di liberare l'anima dal corpo.
La produzione dell'abbondanza e la finzione dell'opera In Vita activa Arendt torna su questa ambivalenza di Marx, diviso tra la denuncia della miseria del lavoro e la sua «glorificazione», ricorrendo, per comprenderla, alla distinzione tra lavoro (labor) e opera (work). Per un verso, sostiene l'autrice, Marx sancisce la trasformazione avvenuta nelle condizioni lavorative definendo il lavoro «metabolismo dell'uomo con la natura» e l'uomo come animal laborans, ma poi finisce per dimenticare la definizione intendendo la produttività come «produzione di un mondo oggettivo di cose», appartenente all'ordine della fabbricazione di opere, e prospettando anzi un regime sociale in cui la facoltà di lavorare non è più necessaria. È questa proiezione sul lavoro delle caratteristiche dell'opera che ne consente la giustificazione. Impressionato, come i moderni in generale, dalla produttività del mondo occidentale, egli l'ha scambiata con la produttività propria della fabbricazione, cioè con l'operare, sperando o illudendosi che prima o poi si potesse eliminare il lavoro e la necessità. Questa illusione è stata favorita dal rilievo assunto dalle attività intellettuali e dal conseguente alleggerimento della fatica che ha potuto far credere a una definitiva eliminazione dalla vita umana dei momenti della costrizione e del bisogno. Una simile credenza è però d'ostacolo a un effettivo processo di liberazione perché la libertà, spiega Arendt, si guadagna sempre nei tentativi di liberarsi da una necessità, che deve dunque in primo luogo essere riconosciuta come tale («la facile vita degli dei sarebbe una vita senza vitalità»). | << | < | > | >> |Pagina 200Epilogo: il tramonto del cittadino laboriosoLa letteratura più recente, di taglio sociologico e politico, s'interroga sulle nuove condizioni della produzione materiale e sui modi di fronteggiare la disoccupazione provocata dall'aumento della produttività del lavoro. In questo contesto sopravvive tuttavia la domanda sulla centralità assiologica del lavoro e sulla possibilità di costruire l'identità personale a partire da altre basi. L'etica lavorista, ancora viva negli anni Settanta, ha lasciato il campo, quasi per reazione, alla retorica opposta della «fine del lavoro», ma anche a sintesi più equilibrate, in cui la figura del lavoro certamente si aggiorna e si dilata ma non viene disconosciuta. Hannah Arendt continua a rappresentare un punto di riferimento per gli esponenti di movimenti e tendenze teoriche innovative. Ma si assiste anche alla ripresa o alla rimodulazione di tematiche marxiane che sembravano definitivamente accantonate.
Diversi autori partono dal paradosso, segnalato da Arendt in
Vita activa,
per cui una società fondata sul lavoro si avvia a trovarsi senza lavoro. Da
questa difficoltà si studiano di uscire sia
ampliando la sfera del lavoro socialmente riconosciuto sia raccomandando una
revisione categoriale e un adattamento antropologico alle nuove condizioni di
non lavoro. Vorrei prendere in esame alcune di queste posizioni, scelte, con un
certo arbitrio, tra quelle che hanno esercitato un maggior impatto teorico negli
ultimi due decenni, per evidenziare i modelli antropologici che sottintendono e
la ripresa, in combinazioni svariate, di concezioni del rapporto tra lavoro e
libertà appartenenti alle tradizioni finora considerate.
La metamorfosi del lavoro e l'auto-organizzazione Una delle analisi più lucide delle trasformazioni avvenute in quest'ultimo quarto di secolo nell'organizzazione del lavoro si deve ad André Gorz, filosofo cresciuto alla scuola di Sartre. Egli è stato tra i primi a rendersi conto che l'incremento della produttività si accompagna necessariamente a una riduzione dell'impiego di lavoro umano. Già nel 1988, in Métamorphoses du travail, dichiarava la fine della società fondata sul lavoro e della relativa ideologia, che fa dipendere l'integrazione sociale degli individui dal loro inserimento nell'universo lavorativo. Il filosofo non condivide la preoccupazione di Arendt che essi non sappiano utilizzare convenientemente il tempo liberato dal lavoro e sottolinea anzi «le potenzialità liberatorie contenute nei mutamenti in corso». La libertà non viene fatta consistere in quel trascendimento dell'ambito delle necessità naturali che si realizza, secondo Arendt, nell'agire politico bensì in un'attività di «produzione di sé» che il capitalismo nella sua forma sviluppata richiede in misura crescente. Questa formazione di sé va di pari passo con una maggiore «capacità di godimento», come il filosofo sottolinea ancora nel suo recentissimo L'immatériel. Questa conclusione, che si radica in un'analisi delle nuove condizioni della produzione postfordista, è già presente, a giudizio di Gorz, nei Grundrisse marxiani nei quali egli, con interpretazione forse unilaterale, vede affiorare un deciso superamento del «produttivismo» e una diversa concezione della ricchezza, che mette in questione la figura stessa dell'economia politica. E nella teoria marxiana del general intellect, sviluppata anch'essa nei Grundrisse, trova riscontro anche l'idea avanzata dal filosofo francese di una «società dell'intelligenza» ovvero di un'«organizzazione che apprende», la quale risolverebbe le contraddizioni del «capitalismo cognitivo», cioè di un capitalismo che si perpetua impiegando le risorse dell'intelligenza ma insieme ostacolandole. La produzione materiale - come Gorz ribadisce in un breve recente intervento, La personne devient une entreprise - si fonda in maniera crescente su un lavoro immateriale che presuppone «conoscenze» e più latamente «competenze» e capacità d'innovazione. Il capitale umano delle imprese è insomma costituito sempre più da capacità di interazione, cooperazione e auto-organizzazione che maturano nello svolgimento di attività che hanno non di rado una dimensione ludica e agonistica piuttosto che di puro sapere. L'«autocreazione», che la tradizione teorica classica, risalente a Hegel e a Marx, faceva dipendere univocamente dal lavoro, appare ora legata allo svolgimento di un insieme di attività, lavorative e non, che coprono l'intera area della vita. La società nel suo insieme è responsabile della formazione di questo capitale umano, che è però al tempo stesso un capitale «personale» in quanto suppone un processo di appropriazione da parte del soggetto. Sebbene questo processo sia funzionale alle esigenze delle imprese, esso «eccede il bisogno che ne hanno le imprese», acquista cioè senso per se stesso. Ed è appunto per questo che l'individuo «non si identifica profondamente con il proprio lavoro» e lascia maggiore spazio alle attività extralavorative. | << | < | > | >> |Pagina 205Il saggio ricordato di Benarrosh, Le travail: norme et signification, merita un'analisi circostanziata, perché è attorno ad esso che si è svolto, nel numero speciale della rivista, il dibattito sulla "naturalità" del lavoro. Concepire il lavoro come norma sociale da interiorizzare non permette di comprendere a pieno, sostiene l'autrice, il significato che il lavoro riveste per l'individuo anche in un'epoca in cui la norma si è indubbiamente indebolita, perdendo la sua capacità strutturante. Solo se si avrà chiaro questo significato si potrà comprendere qual è la posta in gioco nell'occupazione e si disporrà di criteri per misurare vantaggi e limiti di soluzioni alternative quali l'economia solidale.I riferimenti della visione antropologica del lavoro proposta sono costituiti dal marxismo e dalla psicologia del lavoro, che la sociologa assume attraverso il filtro di Yves Clot e Yves Schwartz. L'analisi del lavoro alienato proiettata sullo sfondo di una definizione del lavoro come essenza umana, e insieme la rappresentazione positiva del lavoro che Marx oppone all'interpretazione smithiana del lavoro come maledizione, rappresentano i presupposti remoti degli autori a cui Benarrosh si ispira. Da Schwartz, curatore di Reconnaissances du travail. Pour une approche ergologiqué, attinge l'idea che momenti di "azione" e di iniziativa siano presenti in ogni attività, anche la più eteronoma e coatta. Quanto meno nella cura di far bene ciascuno investe su di sé, e mentre esegue «sposta» la norma esterna. L'ostacolo provoca una mobilitazione di risorse. Solo questa circostanza anzi ha permesso alle generazioni passate di sopportare il peso del lavoro. Arendt è così insieme ripresa, per la caratterizzazione che ha dato dell'azione, ma insieme criticata per la separazione che ha stabilito tra azione e lavoro. Benarrosh è d'altronde consapevole che dal punto di vista di Arendt è vano voler «aprire» il concetto di lavoro, il quale appartiene totalmente al «processo vitale» naturale. L'apertura può essere operata solo contro di lei e da un altro punto di vista, quello dell'«esperienza umana». Da Yves Clot, psicologo del lavoro, deriva invece un'altra e forse più decisiva considerazione: l'essenzialità del lavoro da un punto di vista psicologico risiede nella rottura che introduce tra le preoccupazioni personali del soggetto e le occupazioni sociali. Esso svolgerebbe una funzione formativa o strutturante proprio per il suo carattere impersonale e non immediatamente interessato. Attività disciplinata e continua, socialmente organizzata, esso tende a un oggetto che resta estraneo ai nostri bisogni immediati, e nell'interazione con altri intorno a quest'oggetto mette in moto forme di solidarietà impersonali e tecniche. Lo svantaggio dei disoccupati, da questo punto di vista, sarebbe di «essere rinviati alla loro soggettività». «Un tempo impersonale - conclude Benarrosh - è necessario per costruire un tempo personale senza esserne sommersi». Non troppo diversa è l'ispirazione della Défense du travail di François Vatin. Questi analizza il significato originario del termine «travail», che indica una pena produttiva (anzi un supplizio produttivo: il latino tripalium è uno strumento di tortura). Questa è anche l'idea che traspare nell'economia politica classica (Smith). Essa assume un'accentuazione puritana allorché si suppone che il prodotto risulti dalla pena. Più spesso una tradizione filosofica «radicale», nella quale Vatin include Nietzsche, Freud, Bataille e infine Hannah Arendt, ha riservato il termine lavoro al solo registro della pena. Ma così si perde di vista la «vocazione produttiva» del lavoro, che è innanzitutto attività tecnica, e, sul versante del soggetto, desiderio di lavorare. Vatin mette in guardia da una ripetizione ad nauseam dell'opposizione tra il lavoro e la libera azione, che vieta di pensare, se non in forma negativa, l'universo tecnico contemporaneo. Il desiderio di lavorare è in fin dei conti il «desiderio identitario» di esistere nell'opera. Il tema è ripreso da Marx, alieno da ogni puritanesimo ma cosciente del carattere impegnativo del lavoro, non equiparabile a puro piacere. Per quanto alienato, il lavoro salariato non si risolve in alienazione, resta comunque «il desiderio di far bene», vitale per l'identità del lavoratore. E per converso il non lavoro è piacevole solo a patto che non sia sottomesso: un'astinenza forzata dal lavoro comporta sofferenza. Ogni innovazione del regime lavorativo dovrà pertanto essere studiata all'interno del presupposto che «l'uomo non ha cessato di trasformarsi trasformando il mondo». | << | < | > | >> |Pagina 211La società politica degli individuiL'analisi dei mutamenti avvenuti nel mondo del lavoro costituisce una parte rilevante del sistema di pensiero di Ulrich Beck. Nel suo aspetto descrittivo essa presenta molti punti di convergenza con quella di André Gorz, a cui d'altra parte l'autore de La società del rischio si richiama espressamente. Le trasformazioni in atto sono comprese sotto il concetto di «rischio» - la forma che il pericolo assume nelle società tardomoderne, dipendente da un eccesso piuttosto che da un difetto di conoscenza, legata paradossalmente agli stessi poteri di cui una società tecnologicamente avanzata dispone. La disoccupazione strutturale da cui le società occidentali sono minacciate, la flessibilità e precarietà su cui il sistema produttivo si regge, rappresentano aspetti non secondari della «società del rischio» che succede alla società del lavoro. Nella modernità la società del lavoro ha occupato a sua volta il posto che nell'antichità classica apparteneva alle libere attività superiori. A lungo una società industriosa, diffidente verso l'ozio, ha consacrato il lavoro come unico valore e fonte d'identità. Fino al dopoguerra la cittadinanza stessa è stata associata all'espletamento di un ruolo lavorativo certo. Ma ora che la società del lavoro ha raggiunto i suoi limiti tecnologici ed ecologici, la vita attiva perde la sua importanza centrale. Se una reazione regressiva può portare a cercare una soluzione nella creazione di servizi ad alta intensità di lavoro, Beck auspica invece che la lotta alla disoccupazione segua il modello, visibile ad esempio in Germania, di una moltiplicazione delle forme di attività socialmente riconosciute e di un ribaltamento dello stato d'animo di depressione causato dalla fine del lavoro. Sono molti gli scenari del «futuro del lavoro» che l'immaginario sociale ha prodotto. Di ciascuno il sociologo tedesco indica però anche le difficoltà di attuazione o gli inconvenienti nei quali incorre. Una «società del sapere», che rimpiazza la società del lavoro offrendo adeguate possibilità di occupazione, ma lascia sussistere a fianco dei global trotters una larga fascia di «servi» (addetti alle pulizie, alle riparazioni, agli approvvigionamenti e alla sicurezza). Un capitalismo che grazie ad enormi incrementi di produttività «fa a meno del lavoro» producendo però una disoccupazione di massa. La «cura neoliberista» che, soprattutto nella società americana e in quella britannica, sostiene (parzialmente) l'occupazione smantellando lo Stato sociale. L'attribuzione al lavoratore della funzione di «imprenditore di se stesso» con tutte le possibilità ma anche le insicurezze che questa arte di arrangiarsi comporta. La «individualizzazione» e il decentramento delle funzioni lavorative, resi possibili dal lavoro informatizzato, che espongono però la società al rischio di disgregarsi. Il progetto, sostenuto da alcuni ideologi, soprattutto francesi, di una «società delle attività plurali», in cui al lavoro salariato si accompagnano altre modalità di lavoro: il lavoro familiare, quello genitoriale, il lavoro per se stessi e l'attività politica, assicura, una maggiore flessibilità per le aziende e per i lavoratori una nuova autonomia nella gestione del tempo. Esso sembra abbastanza vicino alle esigenze poste da Beck: il quale tuttavia evidenzia il rischio di una «femminizzazione precaria del mondo del lavoro» e l'«inganno linguistico» per cui la pretesa spontaneità delle attività plurali si traduce in un'assenza di tutela sindacale e in risparmi per la pubblica amministrazione. Il mutamento più radicale infine sembra quello già prospettato da Nietzsche di una «società dell'ozio» e del tempo libero, in cui sia coltivata l'arte di sprecare il tempo e il gioco mini la logica utilitaristica dell'efficienza e del successo: ma questo rimedio, pensabile solo nelle «nicchie di benessere del mondo», s'infrange contro l'evidenza che gioco e ozio perdono senso senza una vita attiva o diventano addirittura una pena, quando sono forzati. | << | < | > | >> |Pagina 220La posizione del lavoro in questo quadro è assai complessa. Esso appartiene alla costellazione dei valori su cui è costruita la vecchia società, dal punto di vista materiale e morale. L'identità del moderno individuo produttore (e consumatore) sembra radicata nella vita attiva. Ma la coscienza di questo legame non può più suscitare pacificamente l'orgoglio dell' homo faber, da cui i teorici della produzione capitalistica e i loro oppositori erano ugualmente animati. Troppi sono i danni che la realizzazione di questo modello ha provocato, con l'asservimento della natura e la restrizione dei confini dell'umanità. Una certa saggezza pratica ha guidato Marx spingendolo a contemperare la fierezza ancora hegeliana di «dare compimento al mondo» mediante il lavoro, con la nostalgia e l'attesa di una ampliamento della sfera del tempo disponibile per attività superiori. L'intonazione complessiva può apparire ancora dipendente da un'ideologia produttivistica, ma la sintesi marxiana, se gli accenti vengono cambiati, merita ancora considerazione. Mette in guardia da una storicizzazione troppo puntuale della forma lavoro e rammenta il significato che può conservare anche nell'era dell'individuo «multiattivo».Marcuse, ingiustamente dimenticato, suggerisce una possibile integrazione di quel modello attraverso l'inclusione di una dimensione di godimento, che trasforma internamente la qualità del lavoro: il regno della libertà (e del piacere) non si costituisce per lui in un'astratta distanza ma retroagisce sul processo di produzione immediato. Per Hannah Arendt viceversa la libertà può essere fruita solo nella dimensione relazionale dell'agire politico - di un agire politico a dire il vero assai poco convenzionale - e questo rischia, come ho cercato di mostrare, di renderla evanescente, separandola da un più corposo concetto di libertà come liberazione dai bisogni, e nello stesso tempo di relegare il lavoro in un inferno irriscattabile. La sua sintesi teorica è forse l'ultima di cui disponiamo, almeno dal punto di vista di un'antropologia generale della «vita attiva». Tanto è vero che la copiosissima letteratura recente sul lavoro non può fare a meno di rifarsi ad essa - come a quella marxiana per altro verso - per farla propria, ridiscuterla o tentare di integrarne motivi entro disegni diversamente orientati. L'esame di alcuni dei principali teorici attuali permette di cogliere, al di là delle differenze tra i diversi modelli proposti, problemi ricorrenti con cui ci confrontiamo sia in veste di osservatori sociali che di cittadini più o meno obbedienti e laboriosi. Un primo punto assodato è la trasformazione del lavoro, arricchito dal «sapere sociale», nella direzione dell'«immateriale» gorziano: una circostanza però che non esclude il mantenimento di un'ampia sfera di lavoro servile e che comunque apre la strada a nuovi specifici rischi. Evidente è anche l'allargamento che il lavoro subisce fino ad abbracciare come proprio momento la stessa «produzione di sé». Ciò fa temere forme nuove di subordinazione ma intravedere anche nuove opportunità di conflitto e di riappropriazione. Se il lavoro conserva, anche nelle condizioni della postmodernità, qualche irrinunciabile significato per la costituzione dell'identità personale, ciò può avvenire solo grazie a un arricchimento dei suoi contenuti, ovvero a una dilatazione del suo concetto. Nell'area della cultura di ispirazione marxista l'introduzione del concetto di prassi ha assolto appunto questa funzione. Tuttavia abbiamo segnalato anche il rischio di includere in esso tutta la varietà delle dimensioni dell'esistenza. Non solo il concetto diventa inservibile per l'analisi economica, ma conduce a una sottile ideologia del lavoro "realizzante", o, come ebbe a dire Stirner, "umano". Per evitare questa ideologizzazione occorre perciò pensare un aldilà del lavoro, o un altro da esso. Quest' altro è stato pensato abitualmente nella forma del godimento, del gioco, o anche del consumo. Nel percorso che ho seguito risulta che questi momenti non sono equivalenti: il consumo, in quanto fruizione dei prodotti del lavoro, rinvia comunque a una centralità dei valori della produttività, il gioco allude a una libera autodeterminazione di regole che sfuggono alla razionalità teleologica e non devono confrontarsi con la durezza della realtà, mentre il godimento ci riporta a una dimensione della sensibilità, repressa nelle condizioni esistenti della produzione e dotata di un potenziale di protesta contro di esse. Credo sia ingiusto semplificare questo quadro, riducendo moralisticamente ogni autoaffermazione di sé nello spazio del «tempo disponibile» a tributo pagato alla cultura di massa. Tuttavia è vero che finché si resta su questo terreno l'autoreferenzialità del soggetto non è davvero superata. Forse si può persino sostenere che essa è qui più intensa che nel lavoro, il quale, per quanto espressivo del proprio sé, è sempre anche, pena la sua inutilità, attività per altri. Né i binomi che il lavoro forma con il consumo, il gioco o il godimento, riescono a esaurire la totalità della vita sociale. In maniera più o meno aperta e cosciente i richiami al significato identitario e insieme sociale di attività alternative quali il volontariato, il lavoro d'impegno civile, la cura del «nesso sociale» e della res publica realizzano uno spostamento d'accento dal lavoro, come contributo socialmente dovuto, al «dono», che è d'altronde qualcosa d'altro ma non necessariamente di contrario all'affermazione di sé. Una solidarietà non riconducibile interamente a principi di giustizia si rivela decisiva insieme per la vita sociale e per la consistenza dei suoi attori.
In corrispondenza di questi processi il momento
politico, già sottoposto da Arendt a una profonda ridefinizione di tipo
relazionale o comunicativo, cessa di essere investito dalle attese che in esso
avevano riposto i lavoratori e i loro movimenti sindacali e politici fino agli
anni Settanta. La decostruzione del potere politico - termine che in Arendt
conserva ancora un significato altamente positivo sia pure attraverso la
ridefinizione anzidetta - avviene negli autori considerati secondo varie
modalità, che vanno comunque immancabilmente nella direzione, già accennata da
Marx, di una ricomprensione del momento politico, supposto universalistico,
entro l'orizzonte di un'auto-organizzazione sociale, non esclusivamente
produttiva. La parola d'ordine di «cambiare il mondo senza prendere il potere»
(Gorz), la subpolitica di Beck, le strategie di defezione e resistenza, i
richiami ai «Consigli» o a un «potere senza governo» mettono all'ordine del
giorno la ricerca di forme alternative ma efficaci di azione nell'arena
pubblica, di segno democratico-radicale o, più spesso, «anarco-comunista». Resta
estremamente problematico se questa linea decostruttiva possa risultare vincente
su quella incombente di un rafforzamento dei grandi poteri globali, ma è certo
che essa non incorre nell'obiezione arendtiana di sostituire all'agire
politico una pura «amministrazione delle cose». Essa implica invece una maggiore
rilevanza del mondo della vita reale, che include, accanto al lavoro, una
particolare cura del «nesso sociale», rispetto alle forme separate dell'economia
e della politica. Piuttosto sobrio appare in questo quadro il richiamo a una
possibile felicità, per un pudore antiutopico, credo, di fronte alla difficoltà
di contrastare le calamità prodotte dalla grande politica e anche l'insidioso
«fanatismo del lavoro», che si intensifica accelerando i nostri ritmi di
esistenza proprio nel momento in cui il lavoro è dichiarato superfluo. Eppure la
libertà di desiderare è una componente decisiva del mondo vitale a cui si
intende ridare voce.
|