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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione – La Terra dell'Uomo rosso 3 Parte prima – L'epoca degli antichi re 25 I. I re venuti dal cielo 27 1. La stirpe di Yarlung 28 2. Drigum, il re ucciso dal sudiciume 31 3. Il potere antico dei bonpo 34 4. Celebri e pericolosi vicini 37 II. Sontsen Gampo, il grande re 39 1. Le guerre, gli amori e i ministri 42 2. Wencheng, la sposa cinese 45 3. A Lhasa! A Lhasa! 46 4. Morte e sepoltura di Sontsen Gampo 48 III. Trison Detsen: il primo re buddhista del Tibet 51 1. Nato nell'anno del cavallo-ferro 53 2. Shantaraksita il bodhisattva 55 3. Il Guru nato dal Loto 57 4. La fondazione di Samye 61 4.1. Pehar e gli altri 64 4.2. I traduttori 66 5. L'editto di Trison Detsen 68 5.1. Duello buddhista a Samye 69 5.2. Morte e sepoltura di un re 70 6. Ralpacen, ultimo re buddhista del Tibet 71 6.1. La Danza del Cappello Nero 75 Parte seconda – Il potere dei Dalai Lama 83 IV. La frammentazione del potere politico e la seconda penetrazione del buddhismo in Tibet 85 1. Rincen Zangpò e Atisa 88 2. Due o tre cose sul tantra 89 3. Marpa e Milarepa 92 4. Gli antichi cercatori di tesori 93 5. Il potere dei Sakya 95 6. Sakya Pandita e la corte mongola 95 7. Kubilai Khan e Phagpa 98 V. Nuove egemonie nel Tibet centrale 101 1. Il clan Pamodrupa e il regno di Cianciub Gyaltsen 101 2. Tsonkapa e la nascita dei ghelupa 104 3. U contro Tsang 107 4. L'alba dei Dalai Lama 109 4.1. Poteri forti 111 5. Sonam Chopel, il primo reggente del Tibet 113 5.1. La carriera di un attendente 116 6. Il "Gran Quinto" Dalai Lama 118 VI. La scoperta del Tibet 122 1. Alla scoperta del Tibet 122 2. Cappuccini a Lhasa 124 3. La fabbrica dei Buddha 127 4. I dobdo, monaci guerrieri 129 VII. Dal VI Dalai Lama al protettorato cinese sul Tibet 133 1. Vita e morte del VI Dalai Lama 134 1.1. Un enigma chiamato VI Dalai Lama 137 2. Lazhang Khan, ultimo sovrano mongolo del Tibet 139 3. Ritorno a Litang 143 4. Imperscrutabili giudizi di Dio! 145 5. Cinesi liberatori 149 6. Nascita del protettorato cinese in Tibet 151 6.1. Riforme mandarine 153 6.2. Guerra civile 154 7. Polhane, l'ultimo sovrano laico del Tibet 156 7.1. Fine di una breve dinastia 159 Parte Terza — Dal Grande Gioco alla Guerra Fredda 171 VIII. Il Grande Gioco 173 1. Guerre ai confini 173 1.1. Gurkha e le riforme imperiali 176 2. Il secolo dei reggenti 178 2.1. Cronache dall'inferno 181 3. Spie, avventurieri ed eserciti sul Tetto del Mondo 184 3.1. Spionaggio mistico 186 3.2. I pundit 188 4. Il XIII Dalai Lama e l'Impero britannico 191 4.1. Lord Curzon e Agvan Dorjiev 194 4.2. Due lettere restituite al mittente 196 5. Kalachakra a San Pietroburgo 198 6. La spedizione Younghusband 201 6.1. Sangue sulla strada 202 6.2. Baionette a Lhasa 204 IX. L'indipendenza del Tibet 207 1. Duplice esilio per Sua Santità 207 1.1. La fine di due imperatori 210 1.2. Dio benedica gli inglesi 213 2. L'indipendenza del Tibet 214 2.1. La fine di un Impero 215 3. La Convenzione di Simla 218 4. Le riforme impossibili 220 4.1. Il costo dell'indipendenza 222 4.2. La fuga del Panchen Lama e altre orecchie tagliate 225 5. Morte del XIII Dalai Lama 228 5.1. Lungshar e Kumbela 230 5.2. Tutto il potere alla Chiesa Gialla 233 6. La congiura di Reting 236 6.1. Reting, Taktra e il XIV Dalai Lama 237 6.2. Nazisti e americani in Tibet 240 6.3. Scontro fra titani 244 6.4. La fine di Reting 247 7. La fine di un'epoca 252 X. Ombre rosse 254 1. Una nuova Cina 255 2. La Pacifica Liberazione del Tibet 257 3. Ultimi negoziati prima della tempesta 259 4. L'Esercito Popolare di Liberazione invade 263 5. La battaglia di Chamdo 265 XI. L'Accordo in 17 punti e la Pacifica Liberazione del Tibet 268 1. La politica degli oracoli 269 2. Appello alle Nazioni Unite 270 3. L'Accordo in 17 punti 272 3.1. O la firma o la vita 273 3.2. Il testo 276 4. Il XIV Dalai Lama torna a Lhasa 277 4.1. L'America scende in campo 278 4.2. Comunisti a Lhasa 280 5. Una difficile coesistenza 283 6. Il ritorno del Panchen Lama e altre questioni 286 XII. Verso la Regione Autonoma del Tibet 289 1. Il XIV Dalai Lama e Mao 289 2. Il CPRAT 292 3. Pluralismo religioso 294 4. Panchen Lama il riformista 294 5. Merce denaro merce 296 6. Riforme in Kham e Amdo 297 7. La rivolta di Kanding 299 XIII. La rivolta e la fuga 302 1. Il XIV Dalai Lama in India 303 2. La CIA entra in campo 305 3. La rivolta di marzo 311 4. Assedio al Palazzo d'Estate 313 XIV. Cinquant'anni di solitudine 327 1. Lhasa, 10 marzo 2008 327 2. Politica e altre questioni 329 2.1. Demoni in libertà 331 3. Prima della Rivoluzione 333 3.1. Il sapore del socialismo 334 4. La Rivoluzione Culturale 338 5. Il Circo americano 340 6. Da Mao a Hu 344 7. Il Buddha dei fricchettoni 349 8. La terra dell'Uomo rosso 351 Glossario 355 Bibliografia 357 Indice dei Nomi 363 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Introduzione
La Terra dell'Uomo rosso
Quando volerà l'uccello di ferro, e i cavalli correranno sulle ruote, il Dharma arriverà nella Terra dell'Uomo rosso e i tibetani saranno sparpagliati come formiche attraverso i continenti. Padmasambhava (VIII sec.) Immaginate un diamante, cavato da un deserto di sassi e precipitato in un crogiuolo a bollire con il ferro di una meteorite, insieme al burro di un bovino nipote di mammuth e al corallo che un pastore ha raccolto dove c'era un oceano tanto tempo fa, all'epoca dei dinosauri. E che intorno a questa molecola di carbonio vi sia dell'acqua, nella forma di un lago blu che rifletta il cielo, circondato da una terra color ruggine come una montatura d'oro trattiene uno sputo di cobalto nell'anello di un mago errante nell'Asia. C'era una volta, al di là delle montagne più alte della terra, un regno chiamato Shangri-la. Il popolo che abitava questo regno incantato era fiero e compassionevole, munito di una saggezza fuori dal tempo che sembrava provenire da quelle stelle che certe notti pare di poter toccare con la mano... La storia del Tibet è, in realtà, ben più noiosa di una favola che potrebbe cominciare in questo modo. E fino a qualche tempo fa il Tibet non era che un suono di quelli che precedono gli sbadigli, un vuoto sulla carta geografica dell'Asia o al massimo una di quelle cose che si leggono in un almanacco illustrato o in un sussidiario scolastico. Troppo singolare per apparirvi con qualche scopo, freddo e solitario, rozzo e sottile a un tempo, feroce e dolcissimo, materico e rarefatto, spesso incomprensibile, il Tibet era fuori dai nostri pensieri, in uno spazio-tempo di antico conio, incastonato nel resto del mondo come per caso e sorvegliato dai suoi ingombranti vicini: la Cina che l'ha divorato nel 1950 e che ora lo chiama Regione Autonoma del Tibet e l'India, che lo ammira per avere accolto tanto tempo fa la dottrina del Buddha, quando gli sciabolanti guerrieri islamici imperversavano nelle polverose piane del Bihar. Il Tibet era un regno nascosto e scontroso, confinato da ghiacci e deserti. Un altipiano di vertiginose altezze che ha custodito per secoli una civiltà fossile, frequentata dai venti e popolata da demoni e yak, traversata da nomadi, governata da re-bambini che cavalcavano e tiravano con l'arco e poi oberata da monaci buddhisti e infestata da maghi neri capaci di violare le leggi della natura e di comminare sortilegi mai visti: non solo volare, leggere nel pensiero, sdoppiarsi nel corpo e provocare tempeste o valanghe, ma anche traversare i mondi adiacenti. E morire e rinascere a piacimento. Nel turbinio dei venti, fra cruente fatalità ed elevate realizzazioni, questo regno conobbe i giorni e le notti: lui che sapeva come porre fine alla brama, cadde spesso vittima della brama, che conosceva il segreto della compassione spesso compassione di sé non ebbe. E volle perdersi, dopo la gloria, per infinite volte, nel vortice del samsara, e rivivere ancora, e ancora, i frutti del suo antico agire. La parola Tibet la si deve agli arabi che lo chiamavano Tubbat, ma fu anche detto Bhotia, Botanta, Potente, Barantola, Tufan, Tebet. I tibetani il loro Paese lo scrivono Bod, e si dovrebbe pronunciare Po, con la bocca stretta, come fosse una umlaut. Il Bod, nei tempi, è stato minuscolo e vasto, definito più che da confini tracciati sulle carte geografiche dal graduale mutamento della lingua, dei costumi, dei volti. I pilastri di ferro e pietra, posti ogni tanto nel mezzo del niente, segnavano un territorio immaginato come una cosa viva, abitato da demoni e dèi con cui gli uomini avevano imparato a dialogare. Così, a un certo punto, il Tibet andava dalle montagnose foreste cinesi, a oriente dello Yangzi, fino al monte Kailash, nell'estremo occidente, e dalle oasi settentrionali intorno al lago Kokonor, giù fino all'Himalaya, davanzale di roccia che si affaccia sull'India. In questa vastità che pare senza dimensione, il Paese delle Nevi ha assunto forme diverse, come un corpo che si rigiri in un letto un po' duro per trovare la posizione. E dura era la terra, e lontani erano i cieli, in quel dilatarsi e restringersi di spazio che segna il destino di ogni civiltà, quando secoli di gloria si alternano a tempi di dominazioni straniere. Tradizionalmente il Tibet era diviso in tre regioni, che saranno buone per gran parte della nostra storia: U-Tsang, o Tibet centrale, Kham a est e Amdo a nord. Si dice che dal Tibet centrale vengano buoni religiosi, dal Kham uomini fieri e bellicosi e dall'Amdo buoni cavalli. Questo territorio, che comunemente è inteso come il Tibet storico, grande quasi quanto l'Europa Occidentale, ingloba tutte le aree di etnia tibetana presenti in Cina e comprenderebbe oggi ampie aree delle province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan. Il Tibet di oggi, definito nella Regione Autonoma del Tibet, rispetto al Tibet storico difetta di due aree di tradizionale etnia tibetana: il Kham, incorporato ora nel Sichuan e nello Yunnan e l'Amdo, oggi parte del Qinghai e del Gansu. Ma anche così, la sua superficie eguaglia quella di Spagna, Francia e Italia messe insieme. Con una densità di 2.2 persone per chilometro quadrato, a un'altezza media di tremila metri, vivono all'incirca tre milioni di anime, lo 0,25% della popolazione cinese.
L'opinione più diffusa sostiene che i tibetani provengano dai Qiang,
una stirpe di allevatori di cavalli stanziati nel nord-ovest della Cina fin
dalle epoche Shang e Zhou, nel primo millennio prima di Cristo, in
seguito migrate nelle zone di confine sino-tibetane del Kokonor e dell'alto
Sichuan a incrociarsi con popoli autoctoni per dar vita ai tibetani dell'est. Le
tracce ancora viventi di questa etnia rivelano numerosi punti di contatto con la
cultura tibetana: dall'architettura delle case al mito delle origini. Sembra
dunque plausibile che i frazionamenti di questa stirpe e le successive
contaminazioni abbiano generato le
maggiori varietà etniche in cui oggi sono classificati i tibetani. Gli
antropologi si sono quindi sforzati di distinguere due tipi umani maggioritari.
Uno diffuso in tutto il Tibet centrale, è scuro di pelle e di
piccola taglia, il cosiddetto
testa-nera
delle cronache antiche. L'altro è tipico dell'est del Paese: di taglia più
grossa e più chiaro di pelle. È il temibile
khampa
delle regioni orientali. Tale classificazione tuttavia
non esaurisce la storia: vi sono nel nord rimasugli etnici tibetani, distinti
rispetto al tipo dominante, che anche dagli stessi tibetani vengono designati
come diversi dai
Bodpa,
ovvero
uomini di Bod.
Ma nei secoli, in quel crogiolo dell'Asia bollirono tante razze: negli anni '30
scienziati nazisti vennero addirittura a cercare gli ultimi ariani e c'è
persino chi parla di una "legione perduta" nel cuore dell'Asia che
portò il genoma romano oltre il Karakorum, a mescolarsi tra le pietraie.
Il Tempo, la Storia Parlare di storia del Tibet significa percorrere il limite di un paradosso, appiccicare categorie bisunte a chi felice viveva senz'esse. La storia per i tibetani è una linea curva in cui prevale il gusto del magico e del portentoso, una delle apparenze in cui sono immersi gli esseri viventi, e come tale è una pigra vendetta del Tempo, il principio attivo dell'illusoria cognizione del sé, il luogo dove si realizza il sogno delle esistenze inerenti. La fatica nel parlarne con loro è tutta qui: gli anni sfuggono di conto come sabbia fra le dita, si associa un evento alla vita di un lama, a un testo, a un fatto magico. Il tempo per loro è samsara e quindi sofferenza, oppure vuoto, vacuità. Prima di essere governato dagli orologi, il tempo dei tibetani scorreva secondo cicli di sessant'anni, definiti associando dodici animali ai cinque elementi – presi in versione maschio o femmina – e ponendo ogni ciclo sotto il segno di un ulteriore animale che ne definiva la natura cosmica, ne descriveva gli intrecci celesti: allo scoccare di ogni ciclo si ripetevano sempre uguali ma diversi nella qualità della loro energia, rappresentata dall'animale totemico. Ma l'astrologo di Stato – mago tibetano del Tempo – se sottoposto forzatamente alle nostre domande, andrà ancora più in là, fino a parlare di cose incomprensibili: un mega ciclo calcolato a partire dal nirvana del Buddha, stelle e pianeti che tornano senz'esser presenti, catapulte con cui sconfiggere il nemico nella "battaglia finale", divinità da visualizzare nella meditazione e poi sangue e sperma che giacciono come tesori inesplosi nel corpo degli esseri senzienti. E una Ruota del Tempo, Kalachakra, da conoscersi in quindici fasi, nel vuoto della trasmissione iniziatica. Essa ha il potere supremo di liberare l'individuo dall'ignoranza del Tempo e dunque di estirpare il cancro della Storia nel mondo. Il discorso cadrà poi – senza apparente motivo – su un regno mitico e non-geografico, mentale e fisico a un tempo, chiamato Shambhala, in cui la liberazione interiore dei sudditi è sancita nella carta costituzionale e incarnata dal suo mitico sovrano Chakravartin, colui che muove la ruota: metafora estrema di una liberazione stabilita per legge; un Paese dove spazio e tempo si dissolvono nella simultaneità di ogni cosa e la percezione è liberata dalla falsa idea di esser nel Tempo. Questo è il vajrayana, il Veicolo della Folgore, il comparto segreto del buddhismo indiano che corre sull'orlo di un abisso: l'alchimia del tantra, lo sviluppo dei poteri psichici, la scienza della trasformazione interiore. In una lettera dell'Assemblea Nazionale tibetana a Chiang Kaishek, negli anni '40, è espressa perfettamente questa idea di liberazione di Stato, o se si vuole, di buddhocrazia: "Ci sono molte grandi nazioni sulla terra che hanno raggiunto ineguagliati potere e ricchezza, ma c'è solo una nazione che è dedita al benessere dell'umanità e questa è la terra religiosa del Tibet che unisce felicemente un sistema spirituale e temporale". La figura che si incarica di portare gli esseri viventi fuori dalla Storia è il bodhisattva. Nel caso del Tibet, un bodhisattva è a capo dello Stato: il Dalai Lama. Sebbene viva in esilio da cinquant'anni, da un punto di vista tantrico egli è ugualmente il capo spirituale e temporale della nazione. E anche se recentemente ha annunciato l'intenzione di volere separare le due carriere e di diventare democratico, per così dire, ciò è impossibile perché è un sovrano tantrico e in quanto tale la sua natura è mistica, divina, androgina e magica. In questo senso l'e- scatologia è totale: il Dalai Lama non rappresenta il Buddha sulla terra, non ne è il simulacro né il mediatore, egli è la divinità stessa, è Kundun: il Buddha vivente, forma fenomenica (nirmanakaya) del potere divino nella Storia. In lui potere e compassione coincidono, è il Re dei re, il signore supremo della Ruota del Tempo. Quando sale al trono tiene in mano una ruota d'oro come simbolo di onnipotenza. Questa potenza corporale del Buddha — che fu del grande imperatore indiano Ashoka e in seguito rinnovata in Tibet dal V Dalai Lama – si materializza nello Stato ecclesiastico. Astratto e concreto allo stesso tempo, incarnato nella comunità monastica, esso è una sorta di buddhocrazia tantrica immateriale in cui il corpo del Dalai Lama e quello della nazione coincidono perfettamente e tendono a un unico fine.
Data la sua natura, il Dalai Lama non può essere eletto, ma è reclutato
secondo il metodo delle incarnazioni. Entro un periodo da uno a
tre anni dopo la morte di un Dalai Lama, egli sceglie il suo successore
incarnando la sua "essenza karmica" nel feto di un bambino. Il
compito delle gerarchie religiose tibetane è quindi di identificare quel
bambino fra le migliaia di nati dopo la morte dell'ultimo Dalai Lama.
Sogni, visioni, rituali, eventi miracolosi, sono le tracce seguite dai
gruppi di ricerca che si adoperano in questa sorta di caccia al tesoro
soprannaturale. Una volta identificati dei candidati, si passa a un esame
fisico. Si tratta però di un'anatomia magica finalizzata a cogliere
tracce del corpo mistico del Buddha: impronte di pelle di tigre sulle
cosce, lunghe sopracciglia ricurve, grandi orecchie, due protuberanze
di carne sulle spalle – ricordo delle braccia supplementari di Avalokitesvara –
il disegno di una conchiglia o di una spirale impresso sulle
palme delle mani o dei piedi. Infine ai candidati vengono sottoposti
alcuni oggetti appartenuti al precedente Dalai Lama, mescolati ad altri,
analoghi ma nuovi. Il Dalai Lama dovrebbe riconoscere i 'suoi'
vecchi oggetti, anziché scegliere quelli nuovi. Anche gli oracoli concorrono
alla scelta dei candidati, fino a identificare Kundun. Il bambino allora viene
portato a Lhasa, affidato a due tutori che provvedono alla sua formazione
religiosa. In questo modo il carisma dell'incarnazione precedente viene
trasferito alla nuova, legittimando il sistema di selezione.
Il buddhismo tibetano Al tempo della sua prima diffusione in Tibet, il buddhismo delle origini – detto Hinayana o Piccolo Veicolo – era praticamente scomparso dall'India. Al suo posto aveva preso piede il Grande Veicolo, o Mahayana. Quest'ultimo però era a sua volta animato da due maggiori correnti filosofiche. La prima, detta Madhyamika (la Via di Mezzo) era stata fondata da Nagarjuna nel III secolo d.C., mentre la seconda, chiamata Yogacara (coloro che praticano lo yoga) da Asanga nel V secolo. Il nome veicolo allude al metodo attraverso cui, proprio come a bordo di un mezzo di trasporto, l'individuo può raggiungere il nirvana, ovvero l'estinzione del sé, conoscenza suprema che per i buddhisti coincide col vuoto (sunyata). La maggiore differenza fra il Piccolo e il Grande Veicolo consiste in un nuovo ideale di santità di cui il Mahayana si fa propugnatore: il bodhisattva. Costui è qualcuno che pur avendo raggiunto l'Illuminazione, rinuncia al nirvana e anziché uscire dal ciclo doloroso delle rinascite, torna a vivere per aiutare gli altri a trovare la Via verso la Liberazione. Il gesto eroico di rinuncia della propria realizzazione per mettersi al servizio degli altri, fa di lui un bodhisattva, cioè un Buddha vivente. Nel bel mezzo di queste diatribe fra veicoli, anche molto sofisticate e intellettuali, si inserì nel VI secolo un terzo Veicolo, il Vajrayana, o Veicolo della Folgore, detto anche Tantrayana, Veicolo del Tantra. I seguaci di questo mezzo di progressione spirituale erano ancora più estremi dei loro colleghi del Mahayana e contrastavano le speculazioni dei filosofi con la magia e lo sviluppo di poteri psichici attraverso la pratica dello yoga. Asceti e maghi, detti siddha, avevano fatto fortuna soprattutto nella valle dell'Indo, da cui vengono i maestri che porteranno il buddhismo in Tibet, primo fra tutti Padmasambhava, "Il Nato dal Loto". Il tantrismo imperversava anche in Kashmir e in Nepal, altri luoghi da cui i tibetani attinsero maestri e traduttori. In Tibet dunque arrivò di tutto: il Mahayana con la sua scolastica, la straordinaria capacità di sintesi e di speculazione filosofica, le scuole di logica, i collegi monastici, le scritture, e il Vajrayana, dove l'enfasi era posta sulla percezione pura della mente e sulla trasformazione di ogni aspetto dell'esperienza nella pratica della liberazione. Se nel Mahayana il testo scritto è centrale in quanto materia viva da cui dedurre e ragionare, nel Vajrayana prevale la meditazione yogica, l'acquisizione dei poteri psicofisici, il superamento intuitivo del dualismo fra sé e mondo. Ogni ragionamento dunque è una conquista, ma anche un passo verso una terra che ne è priva. Percezione diretta della natura della mente e inferenza logica, ascesi, pratica yogica, coltivazione della virtù, ricerca della vacuità: una macedonia di concetti portentosi che fecero del Tibet uno straordinario laboratorio di alchimia spirituale. Tale scambio osmotico con l'India fu interrotto dall'avvento dell'Islam, che spazzò via ogni traccia di buddhismo nel XII secolo. Ma a quel punto il Tibet aveva già spremuto il frutto maturo e dolciastro importato dall'India e lo distillava nel silenzio dei romitaggi e nelle liturgie segrete dei monasteri. Orizzonti perduti
Il mito del Tibet nella cultura occidentale ha radici lontane. Ci furono
momenti nella storia di questo Paese in cui per svariate ragioni si è creduto
avesse da regalarci sorprese straordinarie. I primi
viaggiatori medioevali, precursori di Marco Polo, senza esserci mai
stati di persona, riportavano in Europa le più ardite sciocchezze.
Per William di Robruck, i tibetani hanno l'usanza di "comedere parentes suos
defunctos", cioè mangiarsi i parenti morti. Altri vollero
vedere nelle liturgie lamaiste i segni inequivocabili di un passato
cristiano e nei tibetani greggi di anime perdute dal Prete Gianni e
da riportare alla Chiesa di Roma. Altri ancora raccontarono di miniere
traboccanti d'oro scavate da formiche giganti o di case in cui
una donna andava in sposa senza vergogna a una moltitudine di
mariti di età compresa fra i sei e i sessant'anni. In epoca moderna
poi gesuiti, cappuccini, lazaristi, battisti, evangelici e altre congreghe
protestanti e cattoliche, ebbero un gran daffare nell'evangelizzare quei
protomongoli che facevano sacrifici animali, battevano
tamburi fatti di pelle umana e, come Alboino nell'antica Roma saccheggiata dai
barbari, bevevano birre di grani fermentati in coppe
ricavate dai crani di nemici uccisi. O ci fu chi più tardi vide sotterranei
colmi d'armi e di complotti russi da bruciare sull'altare di
quel "Grande Gioco" che dalla penna di Kipling fu trasportato con
minor grandezza sul piano politico dai parrucconi del Foreign Office. Ma la vita
è sempre più forte di qualunque letteratura, e ben
presto quei monasteri aggrappati alla roccia, quegli algidi silenzi di
pietra e quel salmodiare borbottii apparentemente senza significato, assunsero
la forma di inquietanti e misteriosi complotti. Laboratori dell'anima,
indecifrabili luoghi in cui si sperimentavano le
alchime più sottili o le più ardite e vietate diplomazie: cosacchi che
cavalcavano verso l'India britannica aprendo la strada alle armate
dello zar, spie dagli occhi a mandorla che cospiravano al riparo delle liturgie
lamaiste, minacciose ombre cinesi che – silenziose come
fossero di carta – si allungavano sugli altari buddhisti ad avvelenare le
coscienze più esposte. Il tutto in una salsa a base di cherry e tabacco, e nella
noia di ufficiali irlandesi o gallesi persi nei territori
settentrionali della Compagnia delle Indie. Il resto lo fecero gli inventori di
storie: l'abate Huc coi suoi
Souvenirs
o Sven Hedin con i suoi celebri viaggi. E poi Hilton di
Orizzonte perduto
e Jeffrey Hopkins, alias Lobsang Rampa, lo stagnino di Manchester inventore de
Il Terzo Occhio,
ancora oggi il più noto compendio sul Tibet a
disposizione delle masse imploranti. Questo è il mito del Tibet in
Occidente, cresciuto inesorabilmente come una moda o un virus
che non risparmi nessuno. Quando chiesero a Roosevelt da dove
venissero gli aeroplani del primo bombardamento che bruciò mezza Tokyo, lui
disse: "Da una base segreta a Shangri-la". Quello fu anche il nome che scelse
per il suo luogo di ritiro sui monti del Maryland, oggi noto come Camp David.
La questione tibetana Nella divina indifferenza, quel complicato e antico balocco si ruppe quando un contadino dello Hunan conquistò la Cina e proclamò la Repubblica Popolare. Ironia della sorte: il più maturo frutto della colonizzazione culturale dell'Occidente — un cinese marxista — si rivoltava contro í colonizzatori europei e reclamava il Tibet alla modernità. Certo il Tibet era soprattutto una questione di territorio, ma l'eredità delle antiche dinastie si mescolava con Darwin: gli europei avevano fatto scuola e Mao era il loro migliore allievo. Capriole della fortuna, capitomboli della sorte, scherzi che sa tirare il samsara. Ma i tibetani, esattamente come avevano fatto i cinesi con gli europei nel XIX secolo, non volevano essere punto modernizzati. Quando i primi comunisti arrivarono a Lhasa, nell'ottobre del 1951, i tibetani furono sorpresi nel vedere che si trattava di uomini fatti della stessa carne dei cinesi di sempre. E sotto alla cotenna non portavano corna, ma una testa piena di strane idee: abolizione della servitù, confisca e ridistribuzione delle terre del clero e della nobiltà, alfabetizzazione di massa, costruzione di infrastrutture. I loro capi militari — dagli occhi sottili come fessure attraverso cui non passa la luce — non vestivano di broccato e non si spostavano in palanchino, apparivano come normali soldati, con uniformi cachi eguali per tutti. In Tibet quella parola — egualitarismo — suonò come una feroce promessa in un contesto in cui di eguale non c'era niente, neanche la morte, differenziata per censo, per schiatta, per karma. Ma í rossi avevano digerito l'Occidente sulla punta della baionetta in venti anni di guerra: dal fronte unico col Guomindang, alla Lunga Marcia fino alla presa di Beijing, nel gennaio del '49. Cominciò allora un dialogo impossibile fra due sistemi universali: il buddhismo tantrico di Kundun e il comunismo di Mao Zedong. I due cercarono di capirsi e, strano a dirsi, ebbero l'intesa tipica delle divinità: si temevano e si rispettavano. Ma sotto c'era la base dei monaci e dei commissari di partito. Le intese scivolarono presto nel dispetto e nell'arroganza, poi nel conflitto aperto, nella violenza, nella rivolta, nella repressione più dura. Alle riforme, i tibetani del Kham reagirono mettendo mano alle spade. Le repressioni furono feroci e dopo la fuga del Dalai Lama si fecero ideologiche, e poi si inasprirono ancora di più nel gorgo della Rivoluzione Culturale. Colpirono il cuore della civiltà e della cultura, arrecando un danno incalcolabile al Tibet e all'umanità.
Ma nessuna potenza sostenne la causa tibetana all'Onu. Gli armadi
delle democrazie liberali erano pieni di scheletri post-coloniali: la
Francia era in ballo con l'Algeria, l'Inghilterra con l'Irlanda. E poi c'erano
gli Usa. La più potente nazione della terra — ex colonia inglese —
che aveva compiuto indisturbata il genocidio degli indiani d'America
e ancora, nonostante una guerra civile, praticava la segregazione razziale nei
confronti dei neri, profittò del Tibet con esemplare cinismo.
Ma c'era la guerra fredda e certe visioni critiche non erano ammesse.
Nella loro smania di 'contenere' il comunismo ovunque esso fosse, gli
USA usarono il Tibet per punzecchiare la Cina, promettendogli quello che non
erano in grado di mantenere. L'esilio del XIV Dalai Lama
nel 1959, a lungo auspicato e forse agevolato — sebbene non programmato — dalla
CIA e dal Dipartimento di Stato americano, come in un antico sacrificio, mozzò
il capo del Tibet, separandolo per sempre dal corpo della società.
Sguardi incrociati La maggior parte delle pubblicazioni uscite negli ultimi anni in lingua italiana tende a descrivere la questione tibetana in modo alquanto semplicistico, contribuendo alla polarizzazione di due posizioni contrapposte in cui sembra ormai divisa l'opinione pubblica mondiale. Preda dei miti che la new age ha messo in vendita nei supermercati del nuovo materialismo spirituale, il Tibet viene descritto in molti casi come un paradiso perduto. Un luogo popolato da miti, saggi, inoffensivi monaci dediti alla non-violenza e vittime inermi di un genocidio da parte dei cinesi, che in questa visione sembrano incarnare tutto il male possibile. L'idea di un Tibet che prima del 1951 era povero ma felice, e di un popolo allegro, pio, armonioso e solidale, rispettoso dell'ambiente e delle persone, si è radicata nell'immaginario dell'Occidente generando un vasto movimento di opinione che in molti casi ha assunto la forma di movimento religioso, anche in seguito alla divulgazione senza precedenti della dottrina buddhista nel mondo occidentale e negli USA in particolare. Alla costruizione di questa rappresentazione ha dato un contributo fondamentale Hollywood che, con l'inedita figura delle star- bodhisattva (Gere, Pitt, Scorsese, Seagal), mette in scena una generazione di nuovi lama americani. È noto, per esempio, che recentemente Steven Seagal sarebbe stato riconosciuto come la reincarnazione di Chunrag Dorje, un terton di lignaggio nyingmapa. Hollywood è dunque diventata una sorta di diplomazia ufficiosa del governo tibetano in esilio e luogo di elaborazione e spettacolarizzazione della causa tibetana attraverso cinema e televisione. Secondo la visione opposta, generalmente sostenuta da nostalgici del marxismo-leninismo, il Tibet lamaista era uno Stato canaglia, una teocrazia fanatica e integralista dove la legge era dura, le pene severe: morte, mutilazione, fustigazioni pubbliche, dove vigeva un rigido sistema di servitù della gleba che permetteva al 5% della popolazione – nobili ed ecclesiastici – di possedere la quasi totalità della terra a scapito delle masse ignoranti. Per i sostenitori di questa opinione, fino al 1951 in Tibet non vi era la benché minima traccia di quei diritti umani che ora gli esiliati – discendenti della casta padrona – chiedono ai cinesi di concedere al loro popolo. Con tali premesse è naturale che la questione tibetana sia solo vista in un'ottica di confronto e di scontro senza possibilità di soluzione, almeno a livello di opinione pubblica. Né la maggiore informazione sulle tematiche buddhiste ha contribuito a un approccio critico alla questione, che in primo luogo è quella del controllo – o sovranità – del territorio, e in secondo luogo del posizionamento sociale e culturale dei tibetani all'interno di una nazione multietnica come la Cina. In altre parole, la questione tibetana affonda le sue radici nella Storia la quale, se avvicinata con rispetto, porta alla luce gli elementi complessi, talora metafisici, alla base del rapporto fra tibetani e cinesi. In questo senso la Storia tornerebbe a essere un veicolo di liberazione che mette ogni popolo di fronte al proprio karma, svela le intime connessioni causali che hanno determinato lo stato di cose presenti e illumina il frutto di ogni nuovo agire. Purtroppo però tibetani e cinesi stanno oggi seduti sulle sponde opposte dello stesso fiume. Il XIV Dalai Lama e i centomila che vivono al di fuori della Cina si avviano a una estinzione senza rimedio. Due generazioni sono già nate e vissute in esilio, cresciute senza quei vincoli naturali e metafisici che hanno legato le donne e gli uomini del Tibet allo stesso ambiente per oltre dieci secoli. Dall'altra parte del guado, quasi tre milioni vivono nel pieno delle trasformazioni sociali introdotte dalle riforme postmaoiste. La loro identità culturale è parte del futuro della Cina. Questa piccola storia del Tibet nasce dalla constatazione di un vuoto. Nel silenzio assordante dei media, vuole essere un bisbiglio, uno strumento preliminare per coloro che vogliano avvicinarsi alla cultura straordinaria del Paese delle Nevi – la cui storia folgora chi si avvicina – senza complessi o pregiudizi di sorta. Ora che l'antica profezia di Padmasambhava si è compiuta e i tibetani sono "sparpagliati come formiche nella terra dell'Uomo rosso", la cultura tibetana è divenuta patrimonio dell'umanità. Ma non per questo la Storia può essere negata. Anzi. Come scriveva il grande storico tibetano K. Dhondup, "la storia non può essere nascosta o cancellata. Cancellare i fatti non rende la storia di una nazione immacolata, e d'altra parte non esistono storie immacolate né Paesi senza ombre nella propria storia". Il Tibet non fa eccezione. | << | < | > | >> |Pagina 156Ma il vuoto lasciato da Kangxi seguito dalla sconsiderata idea del suo successore di privare Lhasa di una guarnigione, apriva la strada ai complotti più seri. Si racconta che un giorno Polhane, che si trovava nella sua tenuta natale di Phola nello Tsang, ricevesse una lettera dal tutore nyigmapa del Dalai Lama in cui lo si metteva in guardia dal recarsi a Lhasa durante i mesi di luglio e agosto. Data l'autorevolezza della fonte, Polhane badò bene di seguirne i consigli e si adoperò per estenderne i benefici al suo vecchio amico Kancena, ora nel pieno di quell'esaltazione di sé che solo il potere assoluto è in grado di instillare negli esseri umani. E immortale dovette credersi quando il 5 agosto del 1727 accettò l'invito al banchetto di Ngabo, Lumpane e del padre del Dalai Lama presso la sontuosa residenza di Rasa Trulnang, a Lhasa. Si dice che Kancena fu colto alle spalle nel bel mezzo di un sorriso spavaldo, o che stesse leggendo una lettera. Fatto è che ci vollero molti uomini per avere ragione di lui, vecchio e rabbioso combattente dalla pelle dura come cuoio essiccato al sole. I cospiratori lo colpirono con pugnali e spade e i loro sicari lo finirono a colpi d'ascia sulla soglia della magione da cui inutilmente cercò di fuggire. Nella foga sanguinaria gli stessi cospiratori – i nobili membri del Kashag e il padre del Buddha vivente – si ferirono fra loro. Con lui furono assassinati i suoi uomini e il giorno dopo a sangue freddo stessa sorte subirono la moglie e le figlie. Sicari furono mandati in tutto il Tibet ad assassinare coloro che apertamente lo avevano sostenuto e che avrebbero potuto vendicarne la triste ingloriosa morte. Il primo della lista era Polhane.
Era cominciata la guerra civile tibetana.
7. Polhane, l'ultimo sovrano laico del Tibet Alla notizia del massacro, senza perdere tempo come era suo costume, Polhane inviò un messaggero alla corte manciù dove insieme al rapporto sull'assassinio di Kancena, informava l'imperatore della sua intenzione di formare un esercito per opporsi ai cospiratori che ormai controllavano Lhasa e che avevano formato un triumvirato composto da Ngapo, Lumpane e dal feudatario Byaraba. Polhane, vivo solo per avere seguito i consigli del vecchio lama nyingmapa, schierò parte delle truppe migliori a difesa della sua roccaforte nello Tsang, chiedendo loro di resistere un mese dalla sua partenza, quindi si recò a Ngari a sollevare gli animi dei clan legati a Kancena con la sua celebre retorica, ovunque distribuendo offerte votive ed elargizioni a templi e monasteri. Al suo ritorno nel Tibet centrale, dopo un mese esatto, era alla testa di un esercito composto dalle truppe di Ngari e Tsang, con le quali marciò su Lhasa. La guerra civile tibetana, seppure breve nel tempo (1727-8), portò altri lutti e sventure, spargimenti di sangue e nuove violenze, pagate come sempre dal popolo che nasce e muore nella Storia senza mai possedere un volto o un nome. Questa guerra che si concluse con una delle più terribili scene di giustizia imperiale, vide in una prima fase le truppe di Polhane, sebbene alimentate dal fuoco della vendetta, duramente sconfitte a Kudus e costrette a ritirarsi in montagna cercando scampo nelle altitudini desolate dei passi e delle valli rocciose. Seguì una seconda fase di maggiore equilibrio, in cui le diplomazie si alternavano ai colpi di mano e i monasteri giocavano ora con l'uno ora con l'altro il ruolo di luoghi di pace e diplomazia, per trasformarsi in trappole mortali dove tutto si ribaltava in nuove violenze o promesse di morte. Presi di sorpresa, dopo una serie di batti e ribatti, le truppe dei cospiratori furono infine sbaragliate e mentre giungeva la notizia che l'esercito dell'imperatore era ormai sulla strada di Lhasa dopo mesi di aspra guerra civile, il 3 luglio 1728 Polhane entrava nella capitale obbligando i ministri a rifugiarsi nel Potala dietro alle vesti dell'allora ventenne VII Dalai Lama. Poco dopo arrivava anche l'esercito manciù guidato dal commissario imperiale. I generali Mailu e Jalanga costituirono un'alta corte di giustizia di fronte alla quale gli ex ministri Ngabo, Lumpane e Byaraba furono trascinati in catene. L'imputazione era grave: assassinio di Kancena e tradimento dell'imperatore. Il primo novembre in una mesta parata, i colpevoli – diciassette in tutto – furono pubblicamente trascinati, nudi e in catene, sul luogo dell'esecuzione, sulle rive del canale Bamari a poca distanza dal Potala. Qui, l'abate di Namgyal Dratsang e un lama di Kyomulung furono strangolati sul patibolo, gli ex ministri Ngabo e Lumpane squartati lentamente secondo la celebre tecnica cinese della "morte dai mille tagli", gli altri decapitati. I membri delle famiglie dei condannati seguirono la stessa sorte, né si risparmiarono i bambini. Solo i figli di Byaraba – chissà perché – furono deportati in schiavitù. Questa raccapricciante lezione di giustizia manciù era un monito e allo stesso tempo il segno della più completa sottomissione tibetana alla giustizia imperiale cinese. Dato che l'epicentro della congiura era stato il VII Dalai Lama nella figura del suo ambizioso padre, i due – padre e figlio – furono invitati a Pechino per un anno. In seguito alle preghiere degli abati di non privare il Tibet del Prezioso Gioiello, furono inviati in Kham e il loro esilio protratto fino al 1735. Il governo del Tibet fu affidato a Polhane, assistito da quattro kalon privati però di ogni potere effettivo e investiti solamente di mere funzioni esecutive. A tutela dei propri interessi l'imperatore piazzò a Lhasa due residenti mancesi, chiamati amban, più una guarnigione di alcune migliaia di uomini. Negli anni che seguirono Polhane riportò il Paese alla tranquillità più completa, ricostruendo le strutture amministrative statali, ricomponendo i rapporti con i monasteri e in special modo con il Panchen Lama, che visitò più volte a Tashilumpo, e mettendo fine ad ogni forma di violento settarismo religioso. Con l'aiuto dei manciù si impegnò anche a formare un piccolo ma efficiente esercito nazionale tibetano con il quale garantì la sicurezza delle strade e incoraggiò la libertà dei commerci e dei pellegrinaggi. Nel 1733 l'imperatore cinese ridusse gli effettivi della guarnigione di stanza a Lhasa a 500 uomini e nel 1734 consentì il ritorno del VII Dalai Lama che giunse a Lhasa l'anno seguente, sebbene privo di qualsiasi potere politico. Il padre del Dalai Lama non fu autorizzato tuttavia a risiedere a Lhasa, ma fu mandato nella valle di Zargu, a tre giorni di viaggio dalla capitale. Come prova tangibile della soddisfazione del governo imperiale per la lealtà e i servigi di Polhane, nel 1740 il nuovo imperatore cinese Qian-long (1735-1796) lo insignì del titolo di chunwang, o principe di seconda classe. I cappuccini italiani che di lì a pochi anni avrebbero abbandonato il Tibet in seguito alle violente intolleranze religiose sollevatesi contro di loro, lo ricordano come "il re del Tibet"; forte e tollerante, ma circondato da sospettosi consiglieri ecclesiastici. Uomo di grande talento politico e militare, che dalla provincia dello Tsang aveva scalato i vertici del potere, come dice lo storico tibetano K. Dhondup, "Polhane fu soprattutto un realista di non troppo elevato spirito patriottico. Per esclusive necessità politiche divenne uno strumento dei manciù. Ma per loro si rivelò insostituibile. In un momento in cui il Tibet fu gettato nel minaccioso gioco della politica dell'Asia centrale, fra manciù e dzungari, Polhane emerse come un abile comandante in grado di elevarsi al di sopra dello scompiglio e diventare il sovrano del Paese". Dopo aver dato al Tibet un ventennio di pace e stabilità come non se ne vedevano da secoli, Polhane morì improvvisamente il 12 marzo del 1747 sembra a causa di un foruncolo sul collo andato in supporazione, lasciando il Paese delle Nevi nelle mani del suo secondogenito Gyurmed Namgyal. | << | < | > | >> |Pagina 327XIV. Cinquant'anni di solitudine
Lhasa, 10 marzo 2008. Politica e altre questioni. Prima della rivoluzione.
La Rivoluzione Culturale. Il Circo americano. Da Mao a Hu. La terra dell'Uomo
Rosso.
Per colui che mediti e veda Come l'universo sia tutto quanto una magia o un'opera di pittura, si avvera l'insorgere della felicità. Vijnanabhairava LXXVII 1. Lhasa, 10 marzo 2008 Sono passati 49 anni dal giorno della rivolta che costrinse il XIV Dalai Lama a lasciare il Tibet. Sua Santità non è più un ragazzo, ma un anziano monaco di settantatré anni, e Lhasa è ora una piccola metropoli cinese, con strade asfaltate, lampioni che si accendono al tramonto, centri commerciali, cabine telefoniche, ristoranti karaoke. La mitica residenza del Potala è diventata un museo gremito di turisti che autobus di fabbricazione cinese scaricano con apparente distrazione nel grande spiazzo antistante, un tempo deputato al posto di guardia del reggimento del Dalai Lama e all'esecuzione delle punizioni corporali, e ora adibito a parco giochi con annesso laghetto di cigni galleggianti a due posti. Dietro al Potala, dove prima si estendevano campi spelacchiati cosparsi di yak e cavalli, sorge a perdita d'occhio la nuova Lhasa e la perentoria linea orizzontale della ferrovia taglia lo sguardo di chi volesse individuare la grande reggia dei Buddha viventi dall'altra parte dello Tsangpo. Nei 50 anni di esilio si è combattuta una guerra totale fra tibetani e cinesi, fatta di resistenza armata e offensive diplomatiche da un lato, e di repressione e pianificazione sociale e politica dall'altro. Ogni aspetto del rapporto fra società e Stato è divenuto oggetto di acrimoniose dispute a distanza in quello che è diventato il più lungo conflitto etno-territoriale cinese dalla fondazione della Repubblica Popolare a oggi. Le due parti paiono dominate dalla sfiducia e dalla diffidenza l'una nei confronti dell'altra, dalle pressioni dei rispettivi falchi che rifiutano ogni mediazione nel timore che una posizione più conciliante sia vista come segno di debolezza. Il Dalai Lama, pur avendo dichiarato da tempo di non volere più l'indipendenza, e di accontentarsi di una "genuina autonomia"; non è seguìto da una parte della comunità in esilio, che lo attacca per essere troppo conciliante e che, per dirla con Jamyang Norbu, considera la sovranità tibetana "sacra, irrevocabile e al di sopra di ogni cosa". I cinesi accusano a loro volta il Dalai Lama di doppiezza e – così come facevano con il Kashag negli anni '50 – di essere dietro ai disordini e alle rivolte degli anni '80 e del marzo 2008. La loro posizione sembra attendista: cinicamente aspettano che il Prezioso Protettore decida di lasciare il suo quattordicesimo corpo per fare entrare con lui la questione tibetana in una sorta di nirvana politico che sposti il problema in avanti nel tempo, e dia loro modo di continuare le politiche di riforma e sviluppo previste dai piani quinquennali. I toni sono perciò durissimi e il tempo li rende ancora più disperati. Soprattutto in bocca a chi, attraverso movimenti indipendentisti, lascia presagire la possibilità del ricorso a forme di lotta quali una intifada tibetana o una jihad buddhista in Tibet. In tutti questi anni, l'energia di quel giovane Dalai Lama che lasciò il Tibet a cavallo travestito da soldato semplice, si è consumata in un continuo e inesausto contributo alla sua gente, dapprima nell'organizzazione della comunità in esilio – trapiantando in India i Tre Monasteri per esempio e insediando a Dharamsala il suo quartier generale – e poi, a partire dal 1973, in un'opera di sensibilizzazione per la causa tibetana nel mondo occidentale: viaggi, sermoni, cerimonie, conferenze, incontri diplomatici, lezioni universitarie, inaugurazioni, pubblicazioni, dialogo interreligioso e apparizioni pubbliche di ogni tipo. Ma, pur avendo raccolto un enorme consenso morale e religioso in Occidente, che gli è valso fra l'altro il Premio Nobel per la Pace nel 1989, non ha ottenuto alcun risultato pratico. Nessun Paese al mondo ha riconosciuto il suo governo in esilio, né le organizzazioni politiche internazionali hanno preso posizioni tali da obbligare la Cina a qualsivoglia concessione. Specie gli Stati Uniti, che tanto si adoperarono affinché il Prezioso Gioiello lasciasse il Tibet e ripudiasse l'Accordo in 17 punti, hanno tradito le sue speranze nel giro di pochi anni, con quei cambi di direzione politica tipici delle democrazie occidentali dovuti alle idee dei presidenti e alle nuove "congiunture internazionali". In un tentativo di paragonare i cinesi in Tibet agli iracheni in Kuwait, nel 1990 il Dalai Lama disse che era stato scorretto (unfair) da parte degli USA non fare per il Tibet ciò che avevano fatto per il Kuwait.
Dall'altra parte della barricata, la Cina ha dovuto digerire prima la fuga e
poi la presenza del Dalai Lama in India. Le due grandi potenze asiatiche hanno
toccato il punto di maggior attrito del loro rapporto nel
1962, arrivando a farsi la guerra, poi hanno raggiunto un modus vivendi secondo
il quale l'India, che fornisce un aiuto finanziario alla comunità tibetana in
esilio, si astiene da qualunque iniziativa politica a favore degli esiliati e in
cambio la Cina resta fuori da ogni forma di ingerenza interna ed esterna nei
suoi confronti. In questi 50 anni, inoltre, la
Repubblica Popolare Cinese ha attraversato alcuni fra i momenti più
difficili della sua storia: l'isolamento internazionale, la Rivoluzione
Culturale, i feroci conflitti interni – da Lin Biao alla Banda dei Quattro – la
morte di Mao, il ritorno dei moderati e la prima èra delle riforme culminata nel
noto "incidente di Tiananmen". Eventi che l'hanno mossa
verso lo sviluppo di una nuova ideologia dello Stato che prevede una
maggiore autonomia della società civile e non esclude la nascita di una
seppur ancora embrionale forma di democrazia "alla cinese".
2. Politica e altre questioni In questo quadro di mutamento generale, anche la questione tibetana negli ultimi 50 anni si è mossa fra i picchi e le valli della politica comunista e gli umori della comunità tibetana in esilio. Ma dopo una fase di dialogo e speranze, segnata dalle riforme di Deng Xiaoping e culminata nelle politiche di Hu Yaobang degli anni '80, tutto sembra ritornato alla stagnazione antica. Anche nell'orbita del Dalai Lama si nutrirono speranze fondate e si ebbe la sensazione di poter arrivare a una soluzione negoziale della crisi, ma dopo l'invio in Tibet di tre delegazioni di Dharamsala guidate dal fratello e dalla sorella del Dalai Lama fra il 1979 e il 1980, il dialogo si interruppe e si ebbero nuove rivolte in Tibet culminate nella stagione del coprifuoco a Lhasa della fine degli anni '80. Il premier cinese Wen Jiabao nel 2003 annunciò una volta per tutte che le pre-condizioni per il negoziato erano la rinuncia all'indipendenza, l'abiura delle attività separatiste e il riconoscimento che Tibet e Taiwan erano parti inseparabili della Cina. Il governo tibetano in esilio, da parte sua, fece sapere nello stesso anno per bocca del suo primo ministro Sandhong Rimpocé le due condizioni di base per l'accordo: che nel negoziato si considerasse l'intera area a etnia tibetana – il cosiddetto Tibet storico – e che il sistema politico del Tibet fosse una democrazia. Questo riferimento alla democrazia ha caratterizzato negli ultimi vent'anni la supposta superiorità etico-politica dei tibetani nei confronti della Cina popolare, descritta come un brutale regime dittatoriale. Nel giugno del 1988 il Dalai Lama annunciò al Parlamento Europeo che nel caso di un suo ritorno in Tibet avrebbe indetto elezioni democratiche e promulgato la separazione fra Stato e Chiesa. L'annuncio apparve in netto contrasto con la natura autoritaria e il monocratico potere ecclesiastico dei ghelupa, coi quali questa dichiarazione sembrava non fare i conti. Dal 1961 esiste un Parlamento fra i tibetani in esilio che rappresenta le tre province e le quattro scuole religiose e, dal 1963, una Costituzione "basata sui princìpi della moderna democrazia", ispirata alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ciononostante, ancora oggi nel governo tibetano in esilio il primo ministro è un lama, dieci dei quarantasei seggi del Parlamento sono riservati a priori ai rappresentanti delle quattro sette buddhiste, il Dalai Lama è un capo di Stato non eletto e la religione puntella tutte le strutture governative senza avere rinunciato ad alcuna delle sue prerogative temporali. I monaci e le monache – per esempio – hanno diritto a due voti (uno per la setta e l'altro per la regione d'appartenenza), mentre agli altri è concesso un voto solo. Né il Kashag può essere preso storicamente come campione di democrazia. Fino al 1950 si è rifiutato di accogliere anche le più elementari istanze di riforma democratica che pure provenivano dalla società (Lunghsar, Chompel, Phunwang) considerando ogni forma di pluralismo politico come il fumo agli occhi, alla stregua di tradimento di Stato, e come tale punito. Ancora oggi le scelte politiche più importanti a Dharamsala vengono prese dagli oracoli. Sembra difficile che queste nervature magiche nella carne dello Stato possano essere devitalizzate, in vista di una democrazia parlamentare. Come sostiene l'intellettuale tibetano Jamyang Norbu: "...nella formulazione della politica governativa deve completamente cessare la consultazione di oracoli e di divinità. Questo non per condannare tali tradizioni, piuttosto per relegarle al proprio posto, tra le credenze individuali e le pratiche spirituali". La dichiarazione di Strasburgo e la rinuncia all'indipendenza furono anche duramente criticate dal Tibetan Youth Congress e dal fratello maggiore del Dalai Lama Taktse Rimpocé, che accusarono il Prezioso Gioiello di avere concesso troppo ai cinesi. Così la "Via di Mezzo" del Dalai Lama si è trovata sotto il fuoco di due tipi di falchi: i ghelupa che non vogliono la democrazia, e i democratici che vogliono l'indipendenza. Negli anni, questa doppia presa di posizione si è radicalizzata ed è diventata parte del tatticismo diplomatico tibetano: negoziare coi cinesi senza nel contempo spaccare il fronte interno. Ma è un equilibrismo impossibile. | << | < | > | >> |Pagina 3384. La Rivoluzione CulturaleEserciti di studiosi si sono avvicendati nel cercare di capire la natura e le cause della Rivoluzione Culturale cinese e non può essere questa la sede per una riflessione approfondita. Ma quali che fossero, filosofiche, sociali, psicologiche, economiche o un misto di tutto ciò, le conseguenze in Tibet furono devastanti. Fuori dal controllo dei leader, tibetani e cinesi furono vittime di un'ondata di violenza e di lotta le cui radici erano lontane e che in Tibet giunsero sotto forma di nefasti riflessi nervosi che, partendo dal centro, come una convulsione giungano fino alla periferia del corpo. Il Partito comunista cinese riorganizzò le aree nomadi in comuni, e lo stesso fece con le terre coltivate. Sotto l'egida della Rivoluzione Culturale e la campagna contro i 4 vecchiumi, sottopose la religione a un durissimo attacco. Ribellioni, carestie, repressioni e dure sedute di lotta caratterizzarono questa fase in cui il patrimonio culturale del Tibet fu distrutto e migliaia di vite si persero nel gorgo di un insensato fanatismo politico. I tibetani furono obbligati a cambiare pelle, a rinnegare costumi profondamente radicati e ad abbandonare valori centrali della loro identità culturale. A questa rivoluzione nella rivoluzione, importata come un prodotto alimentare dalla Cina, i tibetani non presero parte da protagonisti, sebbene nei tre anni di maggior virulenza il loro atteggiamento fu attivo, schierato a seconda dei casi con una o l'altra delle fazioni di Guardie Rosse emergenti in Cina. In Tibet, nel 1965 le istituzioni socialiste erano state tutte realizzate e tutti i simboli del passato potere distrutti e soppiantati. Tuttavia, in contrasto con la teoria maoista, il popolo non aveva mutato coscienza, non era lui stesso diventato ancora soggetto della rivoluzione. Si doveva ora passare a far capire i valori del socialismo attraverso una sorta di conversione ideologica che contribuisse a formare le coscienze degli individui in modo profondo e non semplicemente come comportamento imposto. A livello popolare si usava un'espressione da trapianto del cervello: chi era arretrato, cioè vecchio stile, veniva detto "testa verde" o "mente verde", mentre i progressisti "teste bianche". Cibo per le teste bianche erano i discorsi di Mao contenuti nel celebre Libretto rosso. In Tibet la Rivoluzione Culturale cominciò ufficialmente nel febbraio del 1966, quando le autorità cinesi vietarono le celebrazioni del Monlam a Lhasa. Da quel momento chiunque fosse visto esprimere in pubblico la sua devozione religiosa, era bollato come "vecchio" e passibile di un feroce criticismo pubblico. Alcuni mesi dopo fu inaugurata la campagna contro idee, cultura, tradizioni e abitudini: i "quattro vecchi". In giugno l'agenzia di stampa Xinhua aveva riportato il fatto che 100.000 tibetani erano stati mobilitati per distruggere migliaia di roditori che infestavano la regione. La campagna di igiene sociale consentiva ai giovani sterilizzatori di entrare in luoghi di culto tradizionalmente segreti, come per esempio il tempio Tsuglakhang, luogo di culto di Palden Lhamo, contaminato da centinaia di topi ritenuti sacri. Allo stesso tempo il Libretto rosso di Mao era studiato nei villaggi e nelle scuole, preparando gli studenti all'azione. Nel maggio 1966 fu fondato a Lhasa un comitato tibetano per la Rivoluzione Culturale guidato da Wang Qimei, un ufficiale dell'esercito a Lhasa dal '51. Risuonarono slogan in cui si raccomandava di "creare il nuovo, distruggendo il vecchio". In agosto la scuola media superiore di Lhasa e il collegio per insegnanti stabilirono il primo nucleo locale di Guardie Rosse. Incollarono poster sui muri, in cui domandavano lo sradicamento dei costumi feudali fra i quali: inchinarsi e mostrare la lingua come segno di rispetto; partecipare a festival religiosi; chiamare i luoghi pubblici della città con il loro antico nome. Occorreva inoltre: distruggere i libri del passato; distruggere i muri delle preghiere; distruggere tutte le foto del Dalai Lama e del Panchen Lama; proibire le preghiere. Era vietato consultare oracoli o divinatori e deambulare intorno ai templi. Tutti i monasteri dovevano essere riconvertiti a uso civile; la grammatica tibetana doveva essere riformata; tutti i musulmani avrebbero dovuto rigettare le loro tradizioni e abbracciare la nuova società; il parco del Norbulinga — ribattezzato Parco del Popolo — sarebbe dovuto essere aperto al pubblico; i monaci e le monache dovevano tornare allo stato laicale, ivi compresi lavoro e matrimonio; la vecchia classe dirigente avrebbe dovuto essere rieducata attraverso il lavoro; il matrimonio feudale poligamico o poliandrico doveva essere abolito; tutti i cani randagi di Lhasa avrebbero dovuto essere uccisi e la gente non avrebbe avuto il permesso di tenere animali. Nel corso dell'attuazione di tutti questi punti, si verificarono le peggiori forme di violenza: punizioni, torture, derisioni pubbliche, linciaggi, distruzioni sistematiche di persone e cose che parevano provenire da un museo degli orrori. A seguito delle umiliazioni molte persone si suicidarono o impazzirono, altre divennero a loro volta aguzzini, altre ancora cercarono di fuggire ma furono prese e uccise. Nella confusione totale, ben presto tutti diedero addosso a tutti, se non altro per salvarsi la vita. In dicembre, come se non bastasse, arrivarono da Beijing un migliaio di Guardie Rosse che fondarono il "Quartier Generale dei ribelli rivoluzionari di Lhasa", i quali purgarono gli aguzzini e misero sotto processo Zhang Guohua, costretto ad autodefinirsi in pubblico "cane realista". Quando nel 1967 Mao ordinò all'esercito di smantellare le Guardie Rosse, in un Tibet distrutto e attonito arrivò Ren Rong, il commissario politico della 46esima armata. Nominato segretario del Partito comunista tibetano, regnò incontrastato sulle macerie della Rivoluzione Culturale fino all'inizio degli anni '80. | << | < | |