Autore Giulio Angioni
Titolo Sulla faccia della terra
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2015, Indies / Il Maestrale , pag. 160, cop.fle., dim. 15x21x1 cm , Isbn 978-88-07-04108-2
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe narrativa italiana , regioni: Sardegna , citta': Pisa , guerra-pace












 

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Indice


   9   Quando è scesa la notte
  11   La casa del vinaio
  13   Alla buonora
  15   Morto che parla
  18   Millepiedi gigante

  22   Incontri di Stagno
  26   Dolceacqua
  29   L'Isola Nostra
  34   Baruch
  38   Il primo pasto

  41   Discorsi a tavola
  46   Settant'anni dopo
  48   Il grande racconto di Akì
  59   Pesca
  64   Lo Stagno degli uomini

  68   Un libro che cos'è
  72   Paulinu non riesce a raccontarsi
  76   Santa Maria di Pisa viene in visita
  80   L'ordine del mondo
  83   Luna meridiana

  86   O Felice o Speranza
  90   Teraponto
  92   Vento largo
  95   In terraferma
  98   Festa all'Isola Nostra

 103   Tutto il mondo è paese
 107   Respiri profondi
 109   Quelli che arrivano
 111   Sulla via della seta
 114   Semen bachi

 118   Dolceacqua se ne va
 122   Un anno sull'Isola Nostra
 125   In morte di Baruch
 129   Rebecca
 131   La seconda rovina

 134   Il grande racconto di Vera
 154   I mille passi


 

 

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Pagina 9

Quando è scesa la notte



È una parola dire ciò che ricordo io Mannai Murenu di come tutto è stato settant'anni fa.

E tu cerchi ragioni da credere che fra cent'anni, e pure meno, ci sarà chi si imbatta nella nostra vita?

Settant'anni fa. Era un giorno di luglio. Come oggi. Come noi adesso. Non so, non mi ricordo più perché: ma noi quel giorno eravamo convinti che i pisani, stanchi di guerra quanto noi, stavano già togliendo l'assedio rabbioso a Santa Gia nostra benedetta. C'era gente di nuovo per le strade, nelle piazze, a centinaia. Dopo mesi e mesi. Anni, a fare bene i conti.

Quando è scesa la notte, quel giorno di luglio, in pieno buio morte e distruzione hanno levato polvere, fumo, grida, boati. Tutto il nostro mondo si è disfatto.

Sacco e distruzione per tre giorni e tre notti. A cominciare dalle mura. Poi per mesi, per anni. E su tutto il sale. Sale del nostro Stagno. Sotto le macerie delle case, puntigliosamente distrutte, una per una, puntigliosamente i pisani hanno sepolto chi ci era vissuto. A cominciare dal quartiere genovese di Santa Gia. Dovunque vanno i genovesi si fanno un'altra Genova. Molti genovesi ho visto dire addio ai soldi sotterrati sotto l'albero di casa, fissando increduli le mutilazioni proprie e delle cose loro, nel chiarore di luna e degli incendi.

Di tutta Santa Gia, Pisa ha lasciato in piedi solo tre chiese. Sotto le lastre delle gradinate ci hanno seppellito i genovesi ricchi, con vivi che per quelli potevano pagare. Nel prezzo c'era pure calpestare i loro morti, su e giù per la chiesa.

Ohiohi la guerra. Ma se ti trovi dentro, odiala con chiarezza. Lo stesso a raccontarla. E ci vuole lo stesso coraggio. Per dirti di come l'ho scampata al ferro e al fuoco e al sale devo fare i conti con i miei ricordi. I vecchi ricordano per vere certe cose che forse non sono mai successe.

Torna domani. Così di punto in bianco si fa notte che siamo ancora qui cercando d'iniziare. Anche se il colore di certi giorni è sempre fermo sulla stessa ora.

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Pagina 13

Alla buonora



A lungo tutti abbiamo cercato di dimenticare quella madre di tutte le disgrazie. Tornarci nel ricordo era malacreanza, oscenità metterla in parole, una memoria campo di macerie.

Come lo Stagno, la mia memoria è come lo Stagno. Troppo è cambiato lo Stagno da quei tempi, le sue cento isole, i fondali, le rive, il farsela col mare e con la terra, il contenere e poi smaltire le acque dolci di terra, le salse di mare. Così sono diversi uomini e animali, dentro e tutto attorno. Lo Stagno cambia di anno in anno, di stagione in stagione. A volte all'improvviso, per piene o mareggiate. Ogni volta bisogna reimpararlo. A farne carta o mappa o portolano non c'è sugo.

E io, eccomi qui, una manciata di frammenti di un'antica pergamena che narra qualcosa di completo. Restano brani a caso, isole e isolotti, sempre nuovi e diversi. Difficile farsene una ragione. Alla buonora c'è chi m'interroga! I morti fanno paura, ma più curiosità.




Madre di tutte le disgrazie fu l'estate del 1258, se mai è stato proprio il 1258 l'anno orribile. Chi lo sa esatto è bravo. Da decenni, nemiche tra di loro, Genova e Pisa si contendevano città, terre, castelli, l'intero giudicato. E pure tutta l'isola. Compagne genovesi e consorteríe pisane in lotta qui da noi. Anche per il possesso dello Stagno. Il Cinquantotto da queste parti è passato in proverbio.

Eppure, quella mala annata è stata anche la madre di quei nostri tempi di ventura, nell'Isola Nostra al centro dello Stagno, scampo e riparo nelle melme di laguna.

Prima della rovina di Santa Gia, l'Isola Nostra era l'isola dei lebbrosi. E dicono che prima dei lebbrosi era stata l'isola dei matti, dall'anno chissà quando che si dice che ci si è arenata la nave dei matti.

Il solo abitante dello Stagno, nell'isolotto più piccolo di tutti e senza nome, si dice che in altri tempi fosse un eremita, impegnato per secoli a trattenere la fine del mondo. Dicevano che prima ci abitava solo il diavolo, che in tempi antichi ci avevano finito i loro giorni gli ultimi pagani. Che vi si festeggiavano feste idolatre, con gozzoviglie da epuloni, e l'Aid el Kebir islamico, la festa del montone che al posto d'Isacco ha assaggiato il coltello di Abramo. E che vi si ostentava, dicevano, la peccaminosa vista del seno nudo delle donne. Che mentre gli sciacquii dello Stagno riempivano il silenzio, e la chioma della sola grande quercia stormiva, la femmina del diavolo si librava in equilibrio sull'erezione di un qualche dio caprone.

Dicono che ci pioveva terra con sabbia e l'acqua rossa. Che in fondo ai pozzi l'acqua era salmastra più che nello Stagno. Che la gente rossa, i mangoni fiammanti, i fenicotteri gentili, prima nemmeno loro si sono mai posati alle bassure dello Stagno, odorose di zolfo e fetore d'inferno. I pescatori di laguna, gli arsellai dei greti e i vagantivi delle rive, essi per primi si tenevano lontani. Perché sul fare di più giorni, in tutte le stagioni, l'isola intera scompariva in nuvole di zolfo sfrigolante di luce azzurrognola da fuochi di Sant'Elmo, come sui pennoni dei vascelli prima del fortunale. O come la Geenna che dicono si è vista ad annunciare la rovina di Sodoma e Gomorra.

E poi i lebbrosi.

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Pagina 48

Il grande racconto di Akì



Cantano i carovanieri, in sella ai loro anni migliori. Cantano le nenie del deserto, ma invocano il vento del Mare di Mezzo, delle molte isole felici.

Ogni notte li risento ancora.

Perché ogni notte io sfido il deserto con loro, e dopo con altri il grande Mare di Mezzo, solcando rotte di molte derive. Storie sfatte forse un giorno riaffioreranno impigliate nelle reti dei pescatori delle isole. Nessun poeta ha mai cantato le nostre odissee, nessun dio ha mai separato le acque dei nostri esodi. E siamo clandestini ai racconti dei bivacchi, dei caravanserragli e degli annali delle storie.




È un giorno di aprile. Compio undici anni. Mia sorella venti.

"Il tempo è arrivato anche per te," mi dice mamma. Devono essere parole molto antiche, parole di sempre. Le dice con grande mestizia negli occhi, perché ciò che vorrebbe dire lo tiene nel cuore. Nostra madre non parla mai, alta e secca che il suo contatto mi faceva male, quando mi lavava, una volta alla settimana, tirandomi i capelli e graffiandomi la schiena. Quanto è duro avere nel cuore parole che non puoi pronunciare. Anche se hai imparato a dirti che è così, che così è sempre stato e così sempre sarà. Nessuno può cambiare ciò che sta scritto per sempre dalla mano dei nostri padri antichi.

Mamma ha partorito il primo figlio a quindici anni. E sei figli dopo, e dopo quattro maschi morti del male delle gambe molli, oggi mia sorella è incinta. E mamma le accarezza il ventre. Anche babbo alle volte.

A mezzogiorno il sole cuoce il caravanserraglio. Le palme, le palpebre abbassate, piegano i rami e pregano. Fingono inerzia. Io mi dico che non devo guardare a quel giorno, nemmeno per abituarmi all'idea, per farmi una ragione dell'uragano che si prenderà il mio corpo, via dalla mia infanzia. L'antico castigo è una piena di fiume che arriva e travolge. Che saranno le mie lacrime nell'impeto delle sue acque, dove da sempre siamo travolte tutte? Non ci si salva né insieme né da sole. Così ci hanno insegnato. Ma io non vado alla madrassa. So ricamare il mio nome sull'orlo della veste, che copre uno scrigno di gioie per altri.

Adesso, come da piccola, a forza di volerlo mi cerco un altrove, senza questi ululati che riecheggiano dal passato. Immagino un volto che mi salvi, uno sguardo che faccia da terra di approdo: "Non è niente, vedrai, non temere," dice la donna pratica. Così tante volte anche mamma.

Il torrente in piena rompe gli argini del mio dolore, quando la donna pratica tiene il rasoio affilato con dita festose di henné. Rifugio i miei occhi negli sguardi delle madri, testimoni di un rito di pena, che tutte ci punisce. Di cosa, di quando, perché?

È giorno e fa buio, ma la notte è lontana. La donna pratica mi studia quel punto del corpo. E prende la mira. La soglia del mio terrore si rompe al tocco freddo di una lama in una mano estranea. E il mio è il terrore di tutte, mai detto, gridato nei secoli e secoli. Incide e penetra la carne, la mia. Ne taglia un brandello, un pezzo di me che va via, per sempre, mentre intorno le risa s'ingrassano, strappano l'aria. La palma non ha più ombra, ha cancellato se stessa. Il sangue scivola sulle mie gambe. Scoppiano applausi, mani frenetiche trattengono il mio corpo in sussulti. Le mie grida penetrano ogni angolo del caravanserraglio.

L'azzurro sbadiglia nel cielo, ai raggi violenti del sole crudele, che ignora il liquido di dolore che dal ventre mi scivola fino alle punte dei piedi. La donna pratica sorride, lei garante del rito, lei figlia della tradizione, puntuale come le mie urla di dolore in un pomeriggio di sole che oscura le attese, le speranze, le curiosità. Ma le mani di tutte schiaffeggiano l'aria, trionfa l'applauso. Il rito antico, dovuto, è finito, a prezzo di un corpo, il mio, mutilato, in pianto, in sangue, in sudore.

Frigido e muto è adesso il tuo ventre, mi spiegheranno poi le mie coetanee, nei sussurri segreti, negli insulti rabbiosi gettati in faccia nei litigi, nessuna pioggia potrà rendergli il frutto sacro che ogni donna desidera. La donna pratica ha cancellato le parole che un tempo sognavi di dire, e di ascoltare. Sei donna come tutte, e da donna violata rifiuterai e negherai la violenza che ti è stata fatta, e arriverai ad accettare l'accaduto in pegno di futura immunità.

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Pagina 61

Le peschiere sono sbarramenti. In riva allo Stagno si fanno con incannucciate, prantas le chiama Tidoreddu, canne confitte nel fondale, sostenute da pertiche, stròas le dice Tidoreddu, e pali, laùrus, dice Tidoreddu, con puntiglio libresco. Tidoreddu sa tutto: "Ecco, questa qui è una pranta, lunga circa sei passi, con interstizi di meno di un dito tra una canna e l'altra. Le devono pulire tutti i giorni i servi di peschiera, is tzeraccus". Così ha cominciato Tidoreddu, servo di peschiera, pulendo prantas sopra e sott'acqua: "Il pesce così passa gli sbarramenti di canne, in bassa marea. Quando l'alta marea chiude le bocche di Stagno, ci resta imprigionato".

Ai lati della peschiera corrono passerelle, pontili come questo qui, piccolo e di canne, sostenuto da pali: "Da qui, col coppo come dicono i pisani, con s'obighéddu come diciamo noi, a tempo debito si tirano su i pesci, da quei càlixis e oiostras, calici e controcalici in pisano. Il cuore del mestiere del pescatore di peschiera è questo qui, favorire l'entrata e impedire l'uscita dei pesci nelle camere della morte, come le chiamano i pisani, delicati nel dire quanto nel fare. Se fai entrare troppi pesci, ci muoiono tutti o quasi in malo modo, più disperati della gente di Santa Gia braccata dai pisani. Una volta, di Settimana Santa, quando il pesce va molto perché la carne è proibita, l'abitante pisano di peschiera, il capo di tutti, ha ordinato di bruciare cento starelli di pesce morto anzitempo nelle camere della morte, per mantenere il prezzo".

"Anche stavolta l'hanno tenuto su, il prezzo della vita e della morte," dice Paulinu.

Tidoreddu si è disteso bocconi dentro la barracca de càstiu, la baracca di guardia, bassa che ci sta solo un uomo giù disteso, e disteso s'infila rinculando, come faceva da tzeraccu per badare all'andamento della marea e delle correnti. Altre baracche di falasco riparano i guardiani delle peschiere e dello Stagno, che vigilano contro abusivi e altri pericoli. E poi ci sono le peschiere fisse e le peschiere che d'inverno si spiantano per ripiantarle in primavera. A primavera si rinnovano sempre tutti gli sbarramenti di canne. E a volte devono essere rinnovati più volte all'anno, quando correnti e piene li rovinano. Sempre seminudi anche d'inverno, spesso sott'acqua lavorando a sbarramenti e chiuse: "Chi vuole pesce, ci si bagna il culo," dice Tidoreddu. E ride, finalmente, con feste incontenibili di Dolceacqua.

Tidoreddu giura che quella da mesi è la sua prima risata. E che gli fa più bene della volta che ha fatto sette giorni alle terme di Santa Maria delle Acque di Sàrdara. Poi mostra le barche, di legno e di falasco, piccole. Maledice genovesi e pisani che proibiscono nello Stagno le barche capaci di più di due persone con gli attrezzi per pescare. Meglio ancora se un solo pescatore, in piedi su uno zatterino di cruccùri, l'erba più abbondante nello Stagno, per fare un barchino di quattro passi per due, e un palo per andare. Dura qualche mese, poi marcisce e si sfascia.

Tidoreddu maledice i peggiori pescatori di frodo, quelli che avvelenano il pesce con lattice di euforbia, la lua che qui non manca mai. E suscita anche le ire di Dolceacqua.

Tidoreddu è contento. In questa piccola peschiera di lebbrosi scova reti da posta, a strascico, il poliggio e la matavella per le anguille. Mostra come si usa il coppo con la griglia, il pettine di rebbi di ferro per rastrellare il fondale, stando in piedi nell'acqua, chini per ore a raccogliere fanghiglia, finché in fondo al setaccio restano le arselle. Lavorando di pinze e di martello ci fa vedere come si cavano i datteri di mare dai sassi dove sono imprigionati.

E in una sola mossa Tidoreddu si spoglia e si tuffa, e Dolceacqua dietro, spariscono sott'acqua, Tidoreddu a lungo, tanto che Dolceacqua guaisce e Paulinu si sta già spogliando per andare giù anche lui, e magari anch'io. Ma Tidoreddu ricompare, ci mostra un grosso muggine, torna giù, poi su ancora con un altro muggine, e così ancora e ancora. Fino a dieci. E torna sulla passerella con dieci muggini infilati in una cordicella: "Questo è il modo di pesca del vero pescatore dello Stagno, a tuffo, solo una cordicella per le prede," dice Tidoreddu, bagnato come un culo di pescatore, grondante e felice.

E già la campana chiama a mezzogiorno: "E qui c'è il piatto forte. Sarà una merca da leccarci le dita," dice Tidoreddu. E andando spiega che la merca è pesce lesso cotto in acqua di Stagno. La morte sua. Alla faccia del desco del re di Chissadove, che splende tanto nei detti di Baruch.

"Re Salomone," dice Paulinu. "E il libro del comando?"

Tidoreddu ride. Non sa più dove l'ha lasciato. Dolceacqua sì, e chiama il suo padrone dal molo di peschiera, dove il libro è rimasto tutta la mattina, un sasso a trattenerlo. Tidoreddu tratta il libro come se lo vedesse per la prima volta. Poi se lo infila sotto l'ascella, poco più su dei dieci muggini, che pendono gloriosi appesi alla cintura.

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Pagina 64

Lo Stagno degli uomini



Per Tidoreddu è stata gloria e festa alla nostra tavola comune a mezzogiorno. E anche per lo Stagno, finora ostile più che generoso, lo Stagno, così come l'ha fatto il creatore, ricco di cose buone e pure belle, se uno sa guardare e sa e fa. C'è tutto nello Stagno, e tutto è più antico dell'uomo, più della sua pochezza, senza la sua nequizia.

Prendendo Tidoreddu a testimone, e Paulinu a pupillo da istruire insieme a tutti noi, Baruch ci ha spiegato lo Stagno, dove mille occhi vigilano giorno e notte e con ogni temperie. Baruch non promette molto su come gli uomini se la fanno da sempre con queste acque e terre piatte di laguna: "Ci penso da ieri e per tutta stanotte, ma più ci penso e più mi pare complicato. E ingiusto. In questa piccolezza terrestre niente è lasciato a se stesso. Ma aveva senso già senza gli uomini, lo Stagno".

Non gli è più certo neppure ciò che ha sempre saputo, che la gente nativa di qua, come quella di Corsica vicina, se la fa poco con il mare vivo, molto invece con le arti di laguna. I mali maggiori arrivano dal mare. L'isola sarda ha molti stagni intorno. Dov'è Stagno c'è gente e peschiere, a tenere e sfruttare montate e smontate dei pesci, nei lavorieri di canne piantate in fondale, e frutti di mare, e anguille nelle gabbie sott'acqua.

Questi nostri stagni, lo sanno tutti, se li sono contesi da sempre padroni nostrani e di fuori. E hanno fatto servi i pescatori. O li hanno costretti alla pesca di frodo, per l'ingiustizia delle regole imposte da chi dello Stagno si è fatto padrone. Pesca di frodo e altri contrabbandi ci sono sempre stati e sempre forse ci saranno, perché i pesci sono stati creati per chi va a pescarli, non per chi se ne fa padrone con pretesti. C'è chi si fa padrone persino del grande mare aperto. E del sale. Saline e peschiere, da sempre le nostre ricchezze, a memoria d'uomo e di scrittura sono il lavoro di schiere di servi, sardi, pisani, genovesi, schiavi e galeotti di ogni luogo e stirpe, teutoni, alemanni, slavoni, resti della chiesa d'Oriente, musulmani, ebrei e persino forzati lebbrosi. Tutta gente che non dura dieci anni a quei lavori, oggi in balia dei conti della Gherardesca.

Questo è il guaio della gente di laguna, che non lamenta il culo in acqua, ma le angherie, non solo di Genova e di Pisa, quando dopo ogni giornata di pesca, sotto sorveglianti occhiuti, tre quarti del pescato va ai padroni mentre un quarto del quarto che va al pescatore poi si porta ai palazzi di città. Nello Stagno ogni cosa è di qualcuno in cento modi dell'avere. È tutto un millantare possessioni, concessioni, acquisti, eredità, diritti, controlli e proibizioni.

"Dimmi, Tidoreddu," chiede Baruch, "tu che ci sei nato, com'è che nello Stagno si tengono insieme proprietari, concessionari, intermediari, che fanno i conti con Genova e con Pisa, col giudice del luogo e altri poteri in gerarchia?"

Tidoreddu ci pensa su, masticando lento. Poi si consulta con Paulinu, che ci pensa su mentre finisce di aprire un grosso dattero di mare per Vera de Tori. Baruch aspetta e non bada al suo poco cibo da uccellino. Tidoreddu ci prova: "Per essere troppo facile, a dirlo è difficile tutto il comandare e l'ubbidire nello Stagno".

"Sarà più o meno come dappertutto, chi sta su e chi giù," dice Paulinu.

"Chi sta più su si tiene saldo garantendo i privilegi a chi gli sta più sopra, a scapito di chi gli sta più sotto," dice Vera de Tori.

"Tutto pesa e si scarica sugli ultimi più sotto," dice Akì.

"Tutto si scarica su chi sta con il culo in salamoia," conclude Tidoreddu.

"Proprio così," fa Baruch, maestro soddisfatto. "E quanta gente per tenere insieme tutto quanto in pro dei padroni di Pisa, Genova, Castel di Castro e San Vittore di Marsiglia."

"E per tenere a bada chi sta giù col culo in salamoia," aggiunge Tidoreddu, "le guardie di Stagno e di peschiera, che te le raccomando. A volte cani veri. Un cane fonnese vale più di due servi di peschiera e di tre arsellai di Stagno."

Io ascolto. E me li vedo tutti i mille e mille cesti di pesce e di frutti di mare salire ogni giorno dallo Stagno. Pesati, valutati e destinati prima di tutto a chi vanta diritti di pescato. Sei cesti di muggini ogni venerdì alla corte del giudice e sei alla curia episcopale, quattro a Santa Maria di Cluso e quattro ai nuovi frati neri di Villanova. Cento cesti a prezzo di favore a questa o quella autorità o grossista che li acquista all'asta mattutina alle peschiere e ai punti d'approdo di laguna.

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Pagina 68

Un libro che cos'è



Chissà chi di noi quel giorno a tavola, verso la fine del pasto, dice che non capisce i ricchi e i signori, che reputano cosa da ricchi e da signori mangiare carni e pesci e il pane lo trascurano. Stavolta il pane manca a tutti noi, troppo gente comune. Manca anche dopo queste delizie da signori, come la merca di muggine di Stagno, con qualche altra novità scovata dalle donne, loro sempre in cerca.

"Anche a me manca un po' di pane," dice Vera de Tori, dando voce alla nostra comune impressione che lei sia donna di qualità, una donnichella. Stavolta la cosa resta lì, nel conto dei segreti e dei misteri delle donne.

"E tu, Tidoreddu," gli fa Baruch, "artefice primo di questo nostro pranzo da re Salomone, che cosa ce ne dici?"

"Io dico che se ricchi e signori provano a mangiare solo merca di muggine con erbe e con arselle, solo questo per anni tutti i giorni a tutti i pasti, com'è successo a me qui nello Stagno, darebbero titoli e ricchezze per una pagnotta di quelle nere nere fatte per i cani."

"Tu sei saggio di cibo e di Stagno, Tidoreddu. Ma cos'è, trascuri il sapere messo per iscritto? Hai posato il tuo libro. Mi sentivo onorato dal tuo libro ascellare. I libri io li scrivo."

Tidoreddu s'impressiona, di nuovo confuso, si spaventa di Baruch e dei libri che scrive.

"E io un po' li faccio, i libri," dice Paulinu, "o li facevo, da servo dello scrittorio di Santa Maria di Cluso. Addetto agli inchiostri neri e rossi da rubrica, e alle pergamene di pecora e di capra.

Stavolta è Baruch che s'impressiona: "Sai anche cucire, incollare e rilegare?".

"All'occorrenza sì. Ma so leggere e scrivere, anche se questo è vietato a un servo come me."

"Oh sì, fai bene, giusta disubbidienza, felix culpa. Un libro va letto, non soltanto fatto, o tenuto sotto l'ascella. Un libro che nessuno legge, non serve, non comanda. Se no, che libro è?"

"Dite voi, maestro, un libro che cos'è," dice Vera de Tori, con grazia. E tutti gli altri d'accordo, compresi i tedeschi sempre attenti.

"Cosa per dire cose, questo è un libro, se lo sappiamo far parlare. Se no, sta zitto. Il libro parla solo se tu vuoi, quando e quanto ti garba e quanto sai e puoi. Un libro è l'amico più discreto. Non si consuma un libro, se lo leggi. Anzi, più lo leggi e più cresce. E tu con lui. Non è come col pane e col formaggio, quello che mangi tu io non lo mangio, e finito è finito, come il nostro di ieri, e va bene così, buon appetito. Un libro è meglio. Se lo leggono in molti cresce molto, finch'è letto non smette mai di dire quello che ha da dire, a chi lo legge, che sia letto in silenzio tutto solo, o a molti a voce alta in compagnia. Vale sempre di più dei soldi che lo paghi, un libro. Nemmeno del cane Dolceacqua ti potresti comprare anche le feste, non lo scodinzolio. Di un libro invece sì. Toccano il cielo con un dito, i libri, anche se non sono né Bibbia né Corano, verbo divino che dura in eterno. E parlano tra loro, i libri, di tutto, pure di se stessi. Tramite chi li legge. Grazie a chi li scrive. E anche a Paulinu che li fa."

"E sì che lo sapevo, io, che un libro è una cosa potente," proclama Tidoreddu, "mi ha salvato la vita, questo libro mio."

"Potente sì, se sai usarlo bene."

"Più ne prendi e più cresce, guarda un po'. E parlano tra loro, veramente? Come la gente viva, e poi più si consumano e più crescono? Io mai saputo prima, mai pensato."

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Pagina 125

In morte di Baruch



La sera che Baruch è morto, la notte e tutto il giorno dopo sullo Stagno c'è stata nebbia fitta. Una cosa rara. Anzi mai vista qui da noi, quel sole che puoi fissare quanto vuoi. Un limone spremuto. Sull'isola tutti già parliamo piano, nell'aria rancida e aspra. Tanto, se parli forte è quasi lo stesso. Poi finiamo per bisbigliare, dopo la notizia che Baruch sta per morire, che lo dice lui stesso. E cominciamo anche a temere qualcosa dal mondo oltre la nebbia. E intanto dalla nebbia che ci chiude ogni visuale sembrano arrivare da lontano e da vicino certe voci, certi richiami, certi lamenti di uomini e di donne e di bambini.

Forse non c'era bisogno di temere la sua morte, per correre tutti al capezzale di Baruch. A ricapitolare la sua e la nostra vita. Dopo la notizia a me sembra persino di sentire un'ansia come quando si dice che il mondo sta finendo, molte cose lo annunciano. E figurarsi una morte come questa di Baruch, in un nebbione come questo che sembra durare in eterno. Già prima della notizia, in quella nebbia tutti ci siamo chiusi in un sentire rivolto verso il nostro interno. E ti sorge il sospetto che i giacimenti dell'invisibile siano i più grandi al mondo. Cosa che non accade quando non c'è nebbia e tutto è chiaro e limpido. Tu allora sei distratto dai colori, dai particolari troppo vivi, non vedi la furbizia delle cose. Sei lontano dal farti certe domande in interiore homine. E certe congetture sul mondo e sulla vita. E al centro dello Stagno, in quel nebbione, ti dicono che Baruch sta morendo, lui, Baruch.




Arriviamo in parecchi, forse tutti: "Grazie, benvenuti," mormora Baruch, "fate bene a venire. Dalla morte nessuno può scappare, tanto meno io, che gambe non ne ho. Ho chi mi sorregge, puntello dei puntigli che mi restano alla fine".

Noi diciamo poco. Lui parla troppo bene e non sappiamo le parole di una tale circostanza. Le sa Baruch. E le dice per noi, lui che ha voglia di dire: "Qualche mese fa, al nostro anniversario, ci chiedevamo come inaugurare la nostra pergamena Dolceacqua. Toccasse a me, oggi su Dolceacqua io scriverei che a morire s'impara. Per fortuna. Da vecchio certe volte lo desideri. E ti abitui all'idea, ti ci prepari. Come per qualsiasi altra cosa che si deve fare. Questo aiuta. Bisognerebbe dirlo ai giovani. Ma non c'è occasione per dire ai giovani ciò che loro serve, che la paura della morte vivendo sminuisce. Meglio vivere a lungo. Ma non bisogna disturbare le illusioni della gioventù".

Baruch riprende fiato. Ha ancora da dire: "Ho vissuto. Factum infectum fieri nequit, ciò che è avvenuto non si può fare che non sia avvenuto. Non ci può fare niente neanche Dio. Tutti questi interminabili inizi che sono stati la mia vita, adesso che stanno per finire non finiti, che altro mi dicono se non che il valore di un uomo ha per sola misura l'ampiezza delle sue speranze e la profondità delle sue delusioni? Spavento e fiato teniamo in fondo a noi, nel ricordo di quando abbiamo scalciato, appesi in giù per la prima aria, che in hora mortis nostrae restituiamo, con un sospiro di sollievo. Scemà Israel, Adonai..." e parlando con Dio, Baruch passa all'ebraico e nessuno lo capisce più.

Io penso che Baruch si è difeso sempre dalla vita con massime di vita, e adesso con massime di morte si difende dalla morte.

Poi torna tra di noi. Diverso, come a cose fatte. E Baruch che prima non avevo mai visto ridere, giuro che ha riso, quando alla fine ha detto, quasi un ragazzaccio: "Amici miei, che sfacchinata! Però ce l'ho fatta. Ho mangiato la foglia, esco dal bozzolo e me ne volo via".

Peppe e Jubanne Càralu, i suoi sediari, tutto il tempo da una parte e dall'altra del suo letto, gli chiudono gli occhi, quei suoi occhi nuovi quasi sbarazzini.

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