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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione di Vittorio Emanuele Parsi I NUOVI IMPERI 15 Introduzione 21 Fine della storia e della geografia? 24 Nuove e vecchie frontiere 27 Il ritorno della storia e della geografia 34 Una nuova Guerra fredda? 36 Il territorio per un nuovo confronto tra imperi 45 Le nuove infrastrutture energetiche 59 Il nuovo posizionamento strategico in Asia centrale 71 Il futuro del petrolio 77 L'Africa alla prova degli imperi nel XXI secolo 86 Geopolitica dello spazio 90 Una nuova Guerra fredda? 104 Gli imperi del XXI secolo 104 L'impero verde-oro: il Brasile 113 L'impero soft: l'India 124 L'impero dell'hardware: la Cina 153 L'impero energetico: la Russia 165 L'impero senza impero: gli Stati Uniti d'America 180 Conclusioni 180 Un nuovo modello delle relazioni internazionali |
| << | < | > | >> |Pagina 15Siamo alla vigilia di una nuova Guerra fredda? È ipotizzabile uno scontro militare su scala globale per il primato geopolitico? L'utilizzo di armi di distruzione di massa o dell'arma atomica è il segno di una nuova politica di potenza nell'era della postdeterrenza? La fine della Guerra fredda tradizionalmente intesa, del periodo storico cioè che va dalla Conferenza di Yalta alla caduta del Muro di Berlino, ci ha fatto conoscere momenti assai differenti nella vita degli stati e delle relazioni internazionali. Un primo momento di calma apparente, nel quale il clima di terrore termonucleare sembrava aver lasciato spazio a una nuova concordia, all'apertura verso la democrazia e l'economia di mercato, con residui colpi di coda di una conflittualità etnica ancora legata a vecchi schemi ideologici. Quindi una parentesi di bellicismo postmoderno, legato alla ridefinizione spesso cruenta di assetti etnici, confini, nuove territorialità e identità. Una conflittualità ristretta ad aree geografiche ben definite, quelle che la storia aveva maltrattato facendo prevalere la ragion di stato e la politica alla geografia, e che hanno riscoperto di recente una violenza che il mondo non conosceva da decenni e non riteneva addirittura più possibile. L'11 settembre 2001, con il sanguinoso attacco a New York e Washington, ha poi impresso una svolta e un'accelerazione alle relazioni internazionali, una drammatica cesura che ha rivelato la dirompenza di minacce asimmetriche prima sconosciute e la vulnerabilità di un sistema non governato, fuori controllo, ancora troppo fragile per essere duraturo. È l'atto principale di un momento unipolare nella storia del mondo contemporaneo, in cui una sola superpotenza, gli Stati Uniti d'America, è stata colpita al cuore della propria sicurezza e dei propri interessi e ha deciso di rispondere per dare forma a un nuovo ordine mondiale nel quale ci troveremo ben presto immersi. La fine della Guerra fredda e l'emergere dell'America come unica superpotenza non hanno rappresentato un cambiamento del sistema, bensì un cambiamento nel sistema, in grado di aprire scenari nuovi e, possibilmente, più duraturi. In tale contesto di privazione relativa dell'equilibrio di potenza e di unipolarismo necessario, l'America è stata accusata da più parti di essere un nuovo impero, di coltivare e perseguire ambizioni neocoloniali, di imporre con la forza delle armi un ordine favorevole ai propri esclusivi interessi. Esattamente ciò che accadeva quando gli imperi erano due, contrapposti. Ed esattamente ciò che sta accadendo in questo primo scorcio di XXI secolo, in cui il momento unipolare sta progressivamente terminando e nuovi imperi si affacciano sulla scena mondiale. Imperi diversi da quelli del passato: non più territoriali, non più gestiti necessariamente da despoti o condottieri. Ma comunque interessati a definire un proprio ambito di sovranità allargata per incidere sul governo degli affari del mondo. Brasile, Cina, India, Russia e Stati Uniti. Gli imperi del XXI secolo che daranno forma a un'arena internazionale più multipolare, allargata secondo dinamiche di reciproca legittimazione e vantaggio. Di qui a un ventennio il mondo sarà diverso da come lo conosciamo oggi. Saranno diverse le categorie attraverso le quali interpretare le dinamiche della politica internazionale. Una geopolitica di potenza che dovrà, auspicabilmente, condurre a un nuovo assetto di stabilità, equilibrio e reciproco riconoscimento, in un mondo governato dall'interdipendenza, dal successo delle reti, dalla sovranità limitata. Non esiste un unico impero, quello americano, ma molti imperi che nel XXI secolo si contenderanno la leadership regionale e un posto in prima fila nei consessi che contano, nei fori decisionali. Questo volume intende prendere in esame le principali caratteristiche della nuova geopolitica di potenza e dei concetti strategici degli imperi del XXI secolo. Con una disamina comparativa degli antichi imperi della storia e di quelli moderni e contemporanei, ragionare sull'effettiva consistenza di una volontà imperiale competitiva, suscettibile di condurre eventualmente a una nuova corsa al riarmo, a una guerra combattuta con mezzi più o meno convenzionali, a un'escalation della tensione non necessariamente solo «fredda». Energia, commercio, demografia, tecnologia, armamenti: gli ingredienti della nuova proiezione di potenza degli imperi del XXI secolo, alle prese con una delle fasi di transizione più delicate della storia, in cui l'erosione della sovranità statuale si incrocia con la finitezza delle risorse e con metadinamiche che logorano la capacità dei nuovi imperi di governare i processi globali. In un celebre saggio del 1979, Theory of International Politics, lo scienziato politico Kenneth Waltz scriveva: «La competizione nel sistema internazionale produce una tendenza all'uniformità dei concorrenti; ciascuno di essi (coloro che hanno le risorse attuali e potenziali per farlo) imita regolarmente gli attributi e le strategie vincenti dell'egemone, raccogliendo successi sempre maggiori. Il loro progresso non significa che la potenza egemone si sia indebolita in senso assoluto, bensì che gli altri stati si sono rafforzati in senso relativo, creando le basi per poter competere sulla scena politica internazionale. La presenza di una potenza preponderante induce un effetto di rifiuto e spinge altri stati a bilanciarla». Da un modello di unipolarismo necessario a uno di multipolarismo disarchico. Questa la prevedibile evoluzione di un mondo che a molti appare ancora fuori controllo, ma che nella competizione tra imperi potrebbe riscoprire un equilibrio duraturo. Purché gli imperi non decidano di mobilitare le armate e di muoversi guerra. La necessità di un governo globale del mondo e dei suoi processi socio-economici e politici è ormai opinione diffusa e condivisa. L'alternativa sarebbe semplicemente il caos, l'anarchia di una rincorsa a un primato che non potrà essere mantenuto a lungo. La competizione, nell'accezione di Kenneth Waltz, porterebbe a una spirale di tensione crescente e a un futuro di guerre e di scontri dagli effetti imprevedibili. Un governo globale dei processi, quindi. Ma quale governo? Non certo quello debole, spurio e poco incisivo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Troppe volte nell'ultimo ventennio l'inanità del Palazzo di Vetro è stata disarmante. Troppo spesso i diplomatici e i tecnici dell'Onu sono rimasti a guardare di fronte alle immani atrocità perpetrate nelle guerre civili o di fronte alle vecchie e nuove emergenze umanitarie. Nemmeno la forza – pur legittima e auspicabile – di un'opinione pubblica sempre più cosciente del ruolo di sorvegliante speciale sulle politiche e sui governi potrà incidere in maniera significativa sulla nuova organizzazione delle relazioni internazionali. La capillarità dei media, la connessione in rete delle notizie e la diffusione della stampa libera sono strumenti per un'accresciuta consapevolezza delle opinioni pubbliche, sempre più protagoniste di battaglie rilevanti, a tutela dei diritti umani, delle libertà, del pluralismo. Un'incidenza che ha una doppia valenza: da un lato un ruolo di controllo verso il potere politico, tipico delle democrazie occidentali, di cui il principio della libertà di espressione e opinione è un inviolabile caposaldo; dall'altro il ruolo di promozione globale di diritti considerati universali e che dalle democrazie liberali mature si proietta verso quelle aree del mondo in cui tali garanzie sono ancora un obiettivo lontano, in cui vigono autocrazie, regimi o dittature di diversa natura. Un ruolo quindi essenziale di controllo e promozione. Ma comunque limitato dalla sempre valida sovranità statuale, che rimanda al principio per il quale gli attori dell'arena internazionale restano pur sempre i governi. Infine, rispetto al novero delle nuove potenze emergenti, si noterà con tutta evidenza la desolante irrilevanza dell'Europa come attore globale. O almeno di questa Europa, bloccata da una debolezza istituzionale e dall'incapacità di convergere su dossier strategici quali la sicurezza, la difesa o l'energia. Ma, ciò che più conta, incapace soprattutto di far sognare le nuove generazioni, che pur beneficiano di quella pace, prosperità e sviluppo che i Padri fondatori dell'Europa videro come principale auspicio e traguardo. L'Europa rimane ancora una sommatoria, spesso confusa, di governi nazionali, uno spazio geografico potenzialmente importante, ma che a oggi è riuscita solo a coordinare la propria politica monetaria, creando paradossalmente più vincoli e più burocrazia. Senza screditare o rinnegare i traguardi del sogno politico europeo, va tuttavia sottolineato come il mondo contemporaneo richieda una maggiore e più autorevole capacità di incidere sui processi globali, la capacità cioè di produrre sviluppo e stabilità. L'Unione europea rimane invece un consumatore di sicurezza e stenta ad affermarsi come baricentro della nuova prosperità. Essa subisce la globalizzazione e non può quindi spostare gli assi della nuova configurazione geopolitica del mondo.
È necessario però analizzare innanzitutto in cosa
avrebbero fallito certe disamine dell'ordine mondiale,
alcune previsioni che vaticinavano il progetto di una
pace perpetua di kantiana memoria. Un obiettivo tuttora raggiungibile, non
ancora relegato al fondaco dell'utopia. Ma che richiede innanzitutto una
valutazione attenta e umilmente rinnovata della possibile evoluzione della
geopolitica mondiale nel XXI secolo.
Nel 1992, il politologo statunitense Francis Fukuyama scriveva il suo saggio più celebre, dal titolo suggestivo The End of History and the Last Man. A breve distanza dallo sgretolamento del Muro di Berlino, dalla fine dei blocchi e dall'implosione dell'Unione Sovietica, Fukuyama preconizzava la fine della Storia intesa come processo dinamico, a vantaggio di un allineamento delle relazioni internazionali improntate allo spirito delle democrazie liberali e al modello di sviluppo delle economie di mercato. Per il professore dell'Università di Chicago, i modelli politici del totalitarismo militarista (fascismo, nazismo e comunismo/socialismo reale) avevano dimostrato la loro incapacità di plasmare un progetto sostenibile, una politica del consenso duratura e un'economia aperta. Solo il collante militar-ideologico ne aveva garantito una sopravvivenza artificiale e in ogni caso ampiamente condizionata dalla mobilitazione generale verso obiettivi di potenza, inesorabilmente e drammaticamente falliti. Nel 1988 esce postumo, edito dalla Oxford University Press, il volume del teorico della globalizzazione, il canadese Marshall McLuhan, dal titolo The Global Village. Passato alla storia come «l'umanista delle nuove tecnologie», McLuhan è il primo, alla fine degli anni sessanta, a parlare di «villaggio globale»; è il primo a esplorare in profondità le implicazioni della rivoluzione tecnologica e l'avvento della società delle reti. McLuhan parla di un mondo nel quale l'informatica, la robotica, le tecnologie di comunicazione divengono progressivamente estensioni dell'essere umano, «protesi dell'Io» in grado di aprire spazi di manovra e di coscienza prima sconosciuti. McLuhan aveva davanti a sé le immagini delle missioni spaziali sulla luna, quelle dei satelliti militari e civili che garantivano le comunicazioni in qualsiasi momento e da qualsiasi parte del pianeta. Di li a poco, la grande rivoluzione della rete globale, internet, sarebbe stata sdoganata dal segreto militare e avrebbe fatto il suo ingresso anche nelle applicazioni commerciali, fino a diventare uno strumento di utilizzo corrente. The Global Village è una testimonianza affascinante della realtà che andava affermandosi e che oggi tutti noi diamo per scontata. Il volume avrebbe dovuto, fra le altre cose, suonare il requiem per la geografia, intesa come disciplina che analizza e classifica le differenti sovranità e la loro interazione. La rivoluzione tecnologica, diversamente da tutti i grandi rivolgimenti della storia, non avrebbe condotto all'affermazione di una nuova sovranità, ma piuttosto al suo logoramento. La fine della geografia era considerata la cifra di questa evoluzione: un improvviso annullamento delle distanze, garantito da reti tra loro connesse in maniera sempre più ampia e capillare. Ciò implicava, in primo luogo, maggiori opportunità per tutti gli esseri umani di accedere a risorse prima escluse dalla loro portata. Un piccolo grande villaggio fatto di reciproche contaminazioni, di una conoscenza sempre più approfondita e di una condivisione sempre più vasta. Era – o doveva essere – la fine delle carte politiche del pianeta. La globalizzazione dei processi avrebbe eroso la capacità dei governi di controllare i flussi finanziari, culturali, migratori, commerciali, tecnologici in entrata e in uscita attraverso le loro frontiere, quelle che si erano create a partire dal XV secolo, con il consolidamento degli stati nazionali. In effetti, per molti versi, così è stato. Parlando di «globalizzazione» si fa riferimento oggi a diversi piani che si sovrappongono. Essa è motivo di esaltazione per i teorici del meticciato culturale e per l'ampliamento delle opportunità che può garantire. Ma è altresì motivo di contestazione per chi vi legge il tentativo di affermare un'unica visione del mondo, omologatrice e irrispettosa delle differenze. La globalizzazione è quella dei telefoni portatili, così come, di converso, del riscaldamento globale. È la Tv satellitare, strumento di emancipazione, ma anche lo sfruttamento del lavoro minorile da parte di alcune imprese multinazionali.
Resta fermo che, sotto il profilo prettamente politico,
il XX secolo, apertosi all'insegna della volontà di
potenza, dello sterminio, delle guerre tra stati sovrani, si è poi diretto – più
o meno forzatamente – verso
la condivisione sovranazionale delle risorse, al fine di
massimizzare i benefici, creare economie di scala e, soprattutto, favorire la
fiducia politica e l'integrazione.
Fine della storia e fine della geografia, quindi. Questi sono stati gli slogan dell'ultimo scorcio del XX secolo. D'altronde, le premesse sembravano condurre proprio verso quella direzione. A cominciare innanzitutto dall'«ottimismo della pace», dall'uscita repentina dal clima della Guerra fredda che aveva schiacciato le coscienze e le politiche in un mondo diviso tra due blocchi ideologici contrapposti. Attorno a questo cleavage hanno ruotato gli affari internazionali, l'economia, la cultura e perfino le scienze umane per oltre un cinquantennio. La fine della contrapposizione bipolare ha significato, sotto il profilo della politica estera, la liberazione immediata di nuove risorse prima interamente mobilitate per sostenere la guerra «combattuta con altri mezzi», il ticchettio dell'orologio atomico, la rincorsa alla primazia politico-ideologica. Il «dividendo della pace» poté essere investito, dopo il 1989, a favore dello sviluppo e del riassetto di equilibri economici e sociali che con fatica dovevano trovare una loro diversa alchimia. Proprio le nuove tecnologie hanno favorito l'accelerazione di processi che prima erano appannaggio di pochi soggetti dell'arena internazionale. Un'accelerazione che si è tradotta nell'allargamento delle opportunità a un numero più elevato di soggetti e in un approfondimento delle stesse con l'entrata in scena di nuovi attori economici, finanziari e culturali, statuali e non. L'ultimo scorcio del XX secolo è scivolato via all'insegna dei flussi e delle reti. Quelle dell'economia e del commercio, innanzitutto, stigmatizzate dal celebre adagio It's the economy, stupid!, della preminenza e dell'inarrestabilità dell'economia di mercato e del modello politico delle democrazie liberali che avrebbe ben presto annientato le spinte verso il colbertismo, il protezionismo, la guerra. Era l'ambizione di una kantiana pace perpetua, tesa a escludere motivi di contrapposizione violenta a favore del coagularsi di interessi convergenti attorno alle possibilità di un benessere più diffuso. Sono gli anni dei conflitti localizzati, del colpo di coda dei nazionalismi di un'epoca che pareva alle spalle. I Balcani, Timor Est, l'Africa, il Caucaso sono stati alla fine degli anni novanta dello scorso secolo il teatro di conflitti etnici per un aggiustamento di frontiere che sembrava a tutti anacronistico. La comunità internazionale, rinfrancata dalla fine della mobilitazione coatta per scongiurare il pericolo dell'olocausto atomico che Stati Uniti e Unione Sovietica minacciavano di scatenare, intervenne con nuovi strumenti a tentare di sedare quella conflittualità residua destinata ad autoregolarsi. Sono gli anni delle missioni internazionali di peace-keeping e peace-enforcing, dei caschi blu dell'Onu impegnati in giro per il mondo a separare i contendenti. Un mondo che sembrava destinato a occuparsi più di economia che di guerra, di lotta alla povertà più che di corsa agli armamenti, di educazione, democrazia e integrazione più che di frontiere. Frontiere che venivano ideologicamente distrutte anche nei discorsi della politica e nell'approccio agli affari internazionali. In un celebre intervento pubblico nel 1997, all'indomani della grande vittoria elettorale del Partito laburista nel Regno Unito, l'allora ministro degli Esteri Robin Cook parlò di una nuova «dimensione etica» della politica estera, affermando l'automatica estinzione della sovranità degli stati nazionali di fronte a palesi violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo. Le frontiere dovevano e potevano essere varcate qualora il «nuovo verbo», l'umanesimo globale, fosse stato violato o intaccato. Cominciava così un periodo di nuova analisi nella politica internazionale, improntata al riconoscimento di un'etica degli stati e del ruolo dei popoli. E l'inizio di un passaggio teso ad accelerare ancor di più, se possibile, la transizione verso il livellamento della Storia, la sua fine prematura.
È il
limes,
la frontiera che gli antichi romani caricarono di simboli e di guarnigioni, il
grande accusato del XX secolo. Frontiera geografica ma anche politica e
morale, che i teorici della fine della Storia e del dissolvimento della
geografia mettevano sul banco degli imputati e condannavano a una rapida
estinzione.
In realtà, in questo primo scorcio di XXI secolo, gli studiosi delle relazioni internazionali sono costretti a rivedere i propri calcoli, in alcuni casi troppo affrettati. La storia, in questo lustro, ha subìto un'impressionante accelerazione, una concentrazione di fermenti che molto presto condurranno a un nuovo assetto nelle relazioni internazionali. È come se, nell'ultimo scorcio temporale, la storia avesse semplicemente «preso ossigeno», per recuperare un debito pesante accumulato in mezzo secolo di Guerra fredda. La sua corsa è ora ripartita più frenetica che mai, all'insegna di un rapido mutamento negli assetti e nei rapporti all'interno dell'arena internazionale e finanche tra le comunità umane. Assistiamo al ritorno di una polis postmoderna, nella quale la dimensione dello spazio, della sovranità e dell'identità assumono nuova rilevanza. Un esempio drammaticamente noto è quello dell'attacco suicida contro le Torri Gemelle di New York, l'11 settembre 2001, a opera di un commando di dirottatori kamikaze. Quell'evento, che ha segnato una cesura storica ricca di implicazioni, non è stata altro che l'inizio dell'accelerazione di dinamiche e processi già presenti prima, ma mal interpretati o sottovalutati. Numerosi rapporti della Cia e dell'Fbi hanno infatti rivelato come la minaccia islamica fosse già strutturata ben prima di quel giorno di settembre. Al di là della lunga pianificazione dell'attacco da parte degli attentatori, erano note le minacce avanzate da Osama Bin Laden, lo sceicco del terrore, e dagli accoliti della sua rete globale, Al-Qaeda. Così come era noto l'odio montante contro gli Stati Uniti d'America in molte parti del mondo. Gli attacchi alle ambasciate statunitensi di Kenya e Tanzania nell'agosto del 1998, o l'attentato kamikaze contro la nave USS Cole, al largo dello Yemen, nel 2000, erano tra i principali segnali deboli – weak signals – che l'intelligence mancò di cogliere o sbagliò a interpretare. Il dato certo è che, nel solco della smobilitazione generale seguita alla fine della Guerra fredda, gli strumenti tradizionali di prevenzione e di contrasto alle minacce si sono indeboliti, lasciando scoperti e vulnerabili alcuni fianchi che i nuovi attori, con la loro azione asimmetrica, non hanno tardato a individuare e colpire. La conoscenza del territorio, delle sue caratteristiche e delle sue dinamiche, è da sempre la principale risorsa per un'efficace prevenzione delle minacce. In un mondo sempre più interconnesso, ma al contempo, contro la previsione storicistica della scuola marxiana, anche estremamente più complesso, l'interpretazione dei fatti e la loro corretta valutazione richiede non l'applicazione di modelli, bensì la conoscenza costante delle caratteristiche di un territorio, con il suo portato di storia, antropologia, cultura, economia. Ecco che la geografia sta recuperando quella centralità che ha sempre avuto nella storia. Il territorio torna a essere luogo della crescita e dell'identità di una comunità, elemento costitutivo della sovranità statuale e, in molti casi, oggetto del contendere e delle nuove ambizioni degli stati nazionali. Gli attentati dell'11 settembre ci raccontano molto di questa nuova connotazione. Vale la pena ricordare un altro dei testi di riferimento della geopolitica del XX secolo, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order dello scienziato politico Samuel Phillips Huntington. La tesi centrale del volume è che i conflitti successivi alla Guerra fredda si sarebbero verificati con maggiore frequenza e virulenza lungo le linee di divisione culturali, identitarie, antropologiche e non più ideologiche, come invece tipicamente accaduto negli anni della cortina di ferro.
Huntington crede che la divisione in civiltà descriva il mondo meglio della
suddivisione classica in stati sovrani. Egli suppone, infatti, che per capire i
conflitti presenti e futuri siano da comprendere innanzitutto le
distanze culturali e che la cultura – piuttosto che lo stato – faccia da volano
per una crescente conflittualità.
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