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| << | < | > | >> |IndicePrologo 3 In fila con Yelp dove si mostra il paradosso per cui l'integrazione tecnologica può produrre lunghe file al ristorante 9 Vere (e false) innovazioni tecnologiche dove ci si chiede in cosa consista realmente ciò di cui sentiamo così spesso — e genericamente — parlare 19 Netflix ovvero una storia istruttiva sul rapporto tra buone idee e tecnologia 29 Google quando l'algoritmo prende il potere 41 YouTube o del contrappasso 55 Piccola riflessione sull'innovazione ovvero la costanza degli intenti 61 Entusiasti, incazzati e prime donne dove si cerca di capire come mai il giudizio di «uno come te» a volte non coincide con il tuo 65 Il mito dell'accesso ovvero come Internet esprima il rifiuto della delega e l'idea che ciascuno possa fruire di tutte le informazioni e conoscenze possibili 73 Attendibile o verificabile? dove si esaminano le conseguenze di quanto scritto prima sulle informazioni fornite da Wikipedia (e in genere sul web) 81 Su cosa votiamo ovvero breve riflessione sui rischi della democrazia diretta 89 Venezia, Las Vegas dove si parla di copie e originali e di fine della privacy 95 Epilogo 109 |
| << | < | > | >> |Pagina 3C'è una vulgata, molto diffusa di questi tempi, che va sotto il nome di «determinismo tecnologico». Dice che non solo il motore ma anche la forza guida dello sviluppo, e in generale del progresso, è la tecnologia. Questo significa che la tecnologia procede autonomamente, per la sua strada, e ciò che inventa ricade sul mondo e causa, a mano a mano, tutta la catena dei cambiamenti delle nostre vite e delle nostre strutture economiche e sociali. A prima vista appare proprio così, non lo si può negare. È fin troppo facile indicare gli enormi cambiamenti di cui appaiono responsabili tecnologie come quella del treno o quella della radio o quella di Internet. E dunque l'idea di promuovere la tecnologia come deus ex machina dello sviluppo sembra del tutto ragionevole. Ma a ben guardare – per esempio, considerando nel dettaglio la storia delle innovazioni –, il quadro si rivela tutt'altro. Il legame causale diretto tra cambiamento tecnologico e mutamenti socioeconomici appare illusorio. Il modo in cui cambiamento tecnologico, successo economico e mutamenti sociali interagiscono mostra percorsi assai diversi tra loro. Il «caso», ad esempio, vi gioca molto spesso un ruolo determinante. Le innovazioni più importanti non sono state quasi mai generate con lo scopo per il quale hanno poi avuto successo. Per riprendere gli esempi precedenti, il treno non è nato per trasportare passeggeri da un luogo all'altro, ma per accidentali politiche protezionistiche seguite alle guerre napoleoniche che rendevano il costo del foraggio molto elevato. La radio non è stata inventata per trasmettere programmi che tutti possono ascoltare – per quello che chiamiamo «broadcast» –, ma per sostituire telefono e telegrafo dove non si potevano stendere i fili (anzi, il fatto che tutti potessero ascoltare la trasmissione senza fili era considerato inizialmente un grave limite della tecnologia). La rete Internet, come è noto a tutti, non è nata per costituire l'infrastruttura di supporto del World Wide Web, ma un sistema di comunicazione militare a prova di bomba (quella atomica, per intenderci, che avrebbe potuto bloccare le comunicazioni convenzionali). La vera chiave – o, almeno, una chiave importante – sembra essere lo sfruttamento «opportunistico» di qualcosa che si trova nell'«ambiente»: è in questo processo che spesso risiede la creatività inventiva che genera successo, piuttosto che nella pura creazione di novità che spesso resta senza seguito. Vastissimo, anche se poco noto, è il cimitero delle invenzioni perdute, da Leonardo a Nikola Tesla: esempi recenti ne sono il motore a pistone rotante e il CD-ROM come «libro» dell'editoria multimediale. Questa situazione fa sì che sia molto difficile prevedere ragionevolmente il futuro: siamo infatti nella condizione paradossale in cui gli eventi più importanti, proprio per la loro origine casuale-opportunistica, necessariamente ci sfuggono. Nel 1990 lavoravo al Palo Alto Research Center (PARC) della Xerox Corporation, dove era stato inventato il personal computer e tutta la grande suite di innovazioni che lo avevano accompagnato, dalla rete ethernet alla stampante laser. Ricordo ancora le grandi previsioni che si facevano nei seminari, relative al futuro delle reti, alla loro espansione e integrazione progressiva, al modello di organizzazione gerarchico, tipico di tutte le altre reti, e così via. Si trattava, naturalmente, dei maggiori esperti del momento in uno dei più importanti centri di ricerca e innovazione del mondo. Eppure nulla, o quasi, di ciò che veniva detto si sarebbe realizzato. Nel frattempo, in stanze vicine a quelle di coloro che si occupavano di reti, c'erano altri colleghi che «giocavano» (come si diceva allora), già da un po' di tempo, con uno strano oggetto: un programma di computer per costruire ipertesti chiamato NoteCards. Come altri programmi di questo tipo, non si sapeva bene cosa farci, anche se ci si potevano fare tante cose, e per questo la Xerox aspettava a farne un prodotto di mercato, sperando che dal «gioco», dal provare diverse strade, emergesse qualcosa. Nessuno avrebbe potuto allora immaginare (e nessuno, infatti, immaginò) che i destini di queste due cose così diverse si sarebbero incrociati e uniti per creare la più vasta organizzazione dell'informazione e della conoscenza del pianeta. Proprio mentre partecipavo a queste discussioni, il CERN stava sviluppando il World Wide Web, che era esattamente l'applicazione di un'architettura ipertestuale alla rete Internet: sarebbe stato rilasciato l'anno successivo, con la messa on line del primo sito web. Sappiamo tutti cosa accadde da lì a pochi anni. E tuttavia, anche a questo punto, il caso giocò un ruolo determinante. Il CERN prese la decisione di mettere a disposizione il WWW gratuitamente per tutti, rinunciando a ogni diritto d'autore, il che si rivelò poi decisivo per la sua affermazione universale.
Se possiamo tranquillamente rinunciare a prevedere il
futuro, è difficile invece rinunciare a cercare di promuovere l'innovazione,
che, quando è quella «giusta», produce straordinari risultati. Già, ma se questa
è la situazione, come fare?
Questo libro è un contributo al tentativo di rispondere a questa domanda, e siccome, visto quanto detto, è difficile pensare che possa darsi una trattazione sistematica, un manuale, una ricetta standard su come procedere, esso è scritto nella forma, ben più modesta, del racconto «ragionato» di storie paradigmatiche esemplificative. È, in altre parole, un viaggio. Un viaggio, al tempo stesso, reale – attraverso il paese dove prima e più che in qualunque altro queste innovazioni si incontrano e si vedono operare con effetti e su una scala incomparabile – e metaforico – attraverso i complessi itinerari che a queste innovazioni hanno portato, cercando di stare lontano dalle modalità «agiografiche» spesso correnti nei libri sulla tecnologia. Le grandi innovazioni, a prescindere dalla loro origine, non possono non avere un impatto vasto e profondo sulla nostra vita: anzi, questo è il loro criterio definitorio. Se, come abbiamo detto, esse sono raramente motivate dallo scopo per il quale vengono poi usate, ancor meno lo sono dagli effetti che producono. Grande impatto e totale irresponsabilità: una situazione che può somigliare molto di più al paradigma dell'«apprendista stregone», piuttosto che a quello delle «magnifiche sorti e progressive» che la visione del determinismo tecnologico tende ad accreditare. | << | < | > | >> |Pagina 61Come promuovere allora l'innovazione tecnologica? Intanto, al negativo: evitando di supportare sia il puro e semplice sviluppo/estensione della tecnologia, sia quello che abbiamo chiamato «versare vino vecchio in botti nuove»; se l'investimento vuole essere rivolto alla vera innovazione, allora bisogna lasciare da parte queste imprese, del resto facilmente riconoscibili. Al positivo è, come si è visto, molto più difficile: la creatività che genera la vera innovazione è per sua natura imprevedibile. Dunque non può essere promossa, dato che non può essere indirizzata perché non si saprebbe verso cosa indirizzarla (se lo si sapesse, non si tratterebbe di quella creatività che ci interessa). Come si poteva promuovere/incoraggiare a priori l'innovazione di Netflix, il cambiamento del modo di concepire il business del noleggio film? È evidentemente assurdo. Nel caso di Google, poi, la convinzione dominante era esattamente quella opposta: non è possibile far funzionare bene un motore di ricerca senza l'intervento «manuale» umano. Bisogna fare un'altra cosa. Lasciare che la creatività operi secondo le sue misteriose vie, penetrando nei più improbabili meandri, e, per così dire, «germogli»: è a questo punto che bisogna intervenire per assicurare che il germoglio possa attecchire, svilupparsi e crescere. In altri termini, per continuare con la metafora botanica, non si può intervenire sulla semina; si può – e si deve – intervenire sull'esile e spontaneo primo frutto. E qui, invece, bisogna intervenire con forza e decisione, al contrario di quanto si tenda a pensare comunemente. È, infatti, piuttosto diffusa l'idea che la buona/vera/grande innovazione imporrà se stessa con la sola forza della sua «potenza innovatrice». Non so da dove derivi questa idea: certo non dalla storia dell'innovazione tecnologica, che sia in tempi recenti, ma anche nel passato, mostra un andamento del tutto diverso. L'innovazione è inizialmente, come si è detto, un germoglio, una potenzialità, tanto più difficile da tradurre in atto quanto più è nuova e diversa da ciò che si è fatto fino a quel momento: questo accade perché non va a occupare una nicchia già esistente soppiantando altri (magari soppianterà anche altri, ma come effetto derivato, non perché compete con le stesse armi), ma ne scava una per sé che ha la potenzialità di diventare enorme; perché questo accada, però, ha di solito bisogno di un periodo abbastanza lungo di sostegno. E questo significa una cosa sola: un lungo periodo di forte sostegno finanziario senza ritorni. È singolare che questa caratteristica, comune a quasi tutte le grandi innovazioni, venga poi «rimossa» dopo il raggiungimento del successo: forse – ipotizzo – per accreditare la favola, che tanto piace, che il genio e la bravura trionfano da soli senza alcun bisogno del vile denaro. È vero esattamente l'opposto. Cito alcuni esempi a caso. Netflix, ad esempio, pur essendo uno dei casi «migliori», ha dovuto sopportare sei anni consecutivi di perdite (dal 1997 al 2002), prima di cominciare a fare profitti, dell'ordine di 29,8 milioni di dollari (1999), 21 milioni (2001), 1,56 milioni (2002). È vero che i profitti compensano poi ampiamente queste perdite – per Netflix da 6,5 milioni nel 2003 a 67 nel 2007 – ma bisogna riuscire ad arrivarci e, per farlo, bisogna davvero crederci. La Pixar, il cui successo è tale da non aver bisogno di presentazioni, nel perseguire il suo sogno innovativo del cinema d'animazione al computer, ha passato sei anni sotto il controllo della ricca Lucasfilm sempre in perdita (e non a sviluppare gli effetti speciali in computer grafica – nei quali Lucas non credeva affatto – come generalmente si crede); è stata poi da questa ceduta, come compagnia che produceva uno specializzato computer grafico – chiamato Pixar Image Computer –, a Steve Jobs, ex padre-padrone della Apple. Dal 1985 al 1995 ha perso, sempre tenacemente perseguendo il suo rivoluzionario sogno, dai 2 ai 6 milioni di dollari l'anno, ogni anno, accumulando un debito di oltre 50 milioni di dollari, tutto a carico del suo nuovo padrone; il quale, nonostante ciò rifiutava un'offerta di acquisto più che vantaggiosa (da parte della Microsoft). Nel novembre 1995 usciva finalmente nelle sale cinematografiche Toy Story, il primo lungometraggio di animazione tridimensionale costruito al computer: incasserà 38 milioni di dollari nel primo week-end di programmazione, 65 nei primi 12 giorni e 357 in totale nel mondo.
E infine un esempio dal «passato», per così dire. Tutti
sanno che il nome e il successo della Xerox sono indissolubilmente legati alla
straordinaria rivoluzione (anche qui, non solo tecnologica) operata da questa
impresa nella copiatura, tanto che il nome proprio della ditta è diventato
un nome comune in inglese e designa il processo di copiatura a secco in sé.
Pochi sanno quanto sia costato in tempo e denaro (e tenacia dell'allora suo
leader, Joseph C. Wilson). Dal 1947 al 1960 la Haloid (come si chiamava allora
la società) spese oltre 12,5 milioni di dollari (degli anni
Cinquanta!) – che era più di tutti i suoi guadagni – per sviluppare la mitica
914, la prima vera fotocopiatrice a secco:
«Ogni dollaro alla Haloid veniva speso nella ricerca e nello sviluppo della
xerografia: i dirigenti occupavano, condividendole, stanze senza moquette,
avevano scrivanie di seconda mano, e rispondevano da soli al telefono». Negli 8
anni dal 1961 al 1968 che seguirono l'introduzione della
914 i profitti salirono da 2 a 138 milioni di dollari.
Crederci, e continuare a crederci, sembra essere la caratteristica più
importante.
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