Copertina
Autore Dario Antiseri
Titolo Idee fuori dal coro
EdizioneDi Renzo, Roma, 2004, Dialoghi Uomo e Società , pag. 118, dim. 140x210x7 mm , Isbn 978-88-8323-103-2
PrefazioneDante Antiseri
LettorePiergiorgio Siena, 2005
Classe filosofia , scienze sociali
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Indice

Introduzione                                             7
La "competizione" vista come la più alta
    forma di collaborazione                              9
Le ragioni del "buono-scuola"                           12
Il principio di sussidiarietà                           16
Le scuole ad "orientamento confessionale"
    non sono un pericolo per la società aperta          20
La consapevolezza della fattibilità della conoscenza
    umana quale presupposto della "società aperta"      24
"Platone totalitario" è davvero una stravagante
    interpretazione di Popper?                          28
"Individualismo" versus "collettivismo"                 33
"Multae utilitates impendirentur si omnia peccata
    districte prohiberentur".                           38
Perché il politico non si comporti come quel medico
    che per salvare la diagnosi uccise il paziente      42
Etica dell'intenzione ed etica della responsabilità     45
Il pensiero utopico tra "irrazionalità" e "violenza"    49
La "ragione" nella scienza                              53
La "ragione" in filosofia                               58
La "ragione" nell'etica                                 62
L'oggettività dell'informazione né una impossibilità,
    né un mito, ma un ideale regolativo                 66
La televisione e i bambini. Il grido di allarme di
    Karl R. Popper e Hans-Georg Gadamer                 75
Ragioni a difesa di un "servizio pubblico"
    radiotelevisivo                                     80
Per comprendere l'identità dell'Europa                  84
La riconquista dello "spazio della fede"                91
Una domanda al cardinale Joseph Ratzinger: non è forse
    più che auspicabile un ritorno a Pascal?            97

 

 

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Pagina 9

La "competizione" vista come la più alta forma di collaborazione


Problemi-teorie-critiche. Con queste tre parole Karl Popper — in Problemi, scopi e responsabilità della scienza — delinea l'intero modo di procedere della ricerca scientifica. Inciampiamo in qualche problema, tentiamo di risolverlo proponendo ipotesi o congetture, sottoponiamo queste congetture ai controlli più severi e, qualora dovessero rivelarsi false, la comunità scientifica è costretta a inventare e vagliare un nuovo percorso. La ricerca scientifica avanza dunque sul sentiero delle ipotesi e delle smentite. E parte sempre da un problema: essa rappresenta il continuo tentativo di soluzione di un qualche problema e la scoperta di nuovi problemi da risolvere. La soluzione, se c'è, è frutto di una severa concorrenza tra idee. Più idee costituiscono sempre una ricchezza; mentre possiamo definire "misero" colui che presume di essere in possesso del «monopolio della verità». Ha scritto Albert Einstein: «Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi». La logica della ricerca scientifica non è quella dell'assenso e del consenso alla "verità manifesta"; piuttosto è la logica della "discordia" o, per essere più esatti, della concorrenza tra più idee per la soluzione dei problemi.

La "presunzione fatale" - per dirla con Friedrich A. von Hayek - di avere in mano il "monopolio della verità" trova i suoi equivalenti, in politica, nel totalitarismo e, in economìa, nella pianificazione centralizzata. Al contrario, l'idea di fallibilità della conoscenza umana, il rifiuto di dogmi, la dispersione tra milioni e milioni di uomini delle conoscenze di situazioni particolari di tempo e di luogo e, soprattutto, l'idea di ricerca scientifica come processo senza fine di soluzione ai problemi, attraverso la concorrenza di più ipotesi, trovano un equivalente politico nella società aperta e un riscontro economico nel mercato. Non ci vuol molto a comprendere che la logica della scienza è analoga a quella del mercato, ossia alla logica dell'imprenditore che inventa nuovi prodotti e li mette alla prova su quei "dati di fatto" che sono le preferenze dei consumatori. Ne "L'azione umana" Ludwig von Mises osserva che l'imprenditore «si occupa delle condizioni incerte del futuro. Il suo successo o insuccesso dipende dalla correttezza della sua anticipazione di eventi futuri [...]. A stabilire ciò che ha da essere prodotto non sono né gli imprenditori né gli agricoltori né i capitalisti, ma i consumatori». L'imprenditore crea e propone soluzioni per nuovi bisogni o nuove soluzioni per vecchi bisogni. Il mercato mette a prova gli imprenditori, eliminando quelli che, nella competizione, non riescono a soddisfare le preferenze dei consumatori. Da tutto ciò si vede come la logica dell'economia di mercato si risolva anch'essa nel metodo per tentativi ed errori. Ricerca scientifica, mercato e democrazia sono uniti dall'unico grande principio della competizione. Ed è proprio la competizione a costituire la più alta forma di collaborazione: "cum-petere" significa, infatti, cercare insieme, in modo agonistico, la soluzione migliore.

Il mercato, a sua volta, ha bisogno di una solida cornice legislativa, che ne permetta il funzionamento. Da parte sua, lo Stato di diritto — che assolve a questa funzione legislativa — non potrà esistere senza economia di mercato, senza la proprietà privata dei mezzi di produzione. Mercato e Stato di diritto vivono e muoiono insieme. Economia di mercato significa innanzitutto proprietà privata dei mezzi di produzione, che garantisce a sua volta le libertà politiche e i diritti individuali.

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[...] E ancora: se valgono le cose dette, da esse consegue che non è possibile neppure cominciare da capo. Noi siamo eredi di una tradizione, siamo impastati di tradizione. Se vogliamo arrivare in qualche punto da qualche porto bisognerà pur partire, e con determinati mezzi piuttosto che altri. Noi non possiamo ricominciare veramente da capo. E se questo fosse possibile, allora dal punto di vista biologico dovremmo cominciare a competere di nuovo con l'ameba, e dal punto di vista culturale — ricorda Popper — non arriveremmo più in là di dove arrivò Adamo quando morì, o, al massimo, si arriverebbe all'uomo di Neanderthal. L'utopista è un reazionario.

L'utopista ha ceduto alla tentazione del serpente («eritis sicut dei cognoscentes bonum etmalum», come dèi conoscerete il bene e il male) e presume così di conoscere il bene e il male. (Il serpente, ovviamente non conosceva la legge di Hume!). In base a questa sua (presunta) conoscenza, egli vuoi costruire un uomo a sua immagine e somiglianzà: a lui non interessano le sofferenze di questi uomini che vivono male qui ed ora. Le sue idee non sono in funzione degli uomini; questi, invece, debbono essere in funzione delle sue idee, dei suoi sogni illuminati. L'utopista è un dogmatico.

L'utopista vuol cambiare tutto e far piazza pulita di quanto esiste, cancellare la preistoria dell'umanità. E vuol fare questo perché è convinto (magari in buona fede) di conoscere tutto. L'utopista si presenta come il possessore della verità totale, ultima e definitiva. E di fronte a questa verità totale ed assoluta ci sono soltanto o le insignificanti verità frantumate delle scienze empiriche ovvero gli errori. L'utopista pensa di essere il possessore della verità e da ciò deduce che gli altri, tutti gli altri sono in errore, sono alienati, accecati dai loro interessi e dalle loro fedi illusorie. E, come ci dimostrano tutte le avventure totalitarie, la via più breve per ottenere il consenso e per convertire gli altri dall'errore alla verità, è l'«argomentum ad baculum» cioè la tortura, la prigione, la censura, l'assassinio politico, il terrorismo intellettuale, l'intimidazione morale, ìl manicomio, i campi di sterminio.

L'utopista è un totalitario.

Il leninismo, per esempio, è fare violenza agli altri, con la presunzione di fare il loro bene. Ed anche l'inquisitore Torquemada bruciava i corpi, credendo di salvare le loro anime! L'utopista è un totalitario. Egli non discute, condanna; non insegna, indottrina; non convince, bastona. L'utopista è infallibile.

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[...] Sennonché è illusorio — per quanto oggi se ne possa sapere — cercare fondamenti certi nella scienza, dove nulla vi è di certo: né gli asserti generali né gli asserti singolari. Ogni teoria, per quante conferme possa aver ottenuto, resta smentibile di principio. A tal proposito è necessario comprendere l'asimmetria tra conferma e smentita di una teoria: asimmetria — dice Popper — «che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venir contraddette da asserzioni singolari». Ciò equivale a dire che miliardi e miliardi di conferme non rendono certa una teoria, mentre — dal punto di vista logico - è sufficiente un solo fatto negativo per distruggerla. Sino a Poincaré si è pensato che la meccanica di Newton fosse una teoria indistruttibile; oggi, dopo Einstein, le cose appaiono in una luce ben diversa. Non possiamo verificare (fare vera) una teoria, ma ci è possibile falsificarla (farla falsa). Di conseguenza, se ci preme il progresso della scienza, se ci sta davvero a cuore l'incremento di quello scopo irrazionalmente scelto che è il raggiungimento di teorie sempre più ricche di contenuto informativo (esplicativo e previsivo), allora dobbiamo tentare di falsificare ogni e qualsiasi teoria; dobbiamo trovare crepe, errori e ciò per la ragione che prima si trova un errore, prima la comunità scientifica è posta nella stringente necessità di inventare e mettere alla prova una nuova teoria, un teoria migliore. In tal modo, l'individuazione e la correzione dell'errore si trasformano nel motore della scienza. «Trai profitto da ogni errore», questo scriveva Wittgenstein in un appunto del 1948. Le teorie scientifiche, dunque, sono e restano in stato di assedio. E c'è da ricordare che non esiste un metodo o una procedura meccanica per scoprire una nuova teoria: ogni scoperta contiene il suo elemento irrazionale, «un'intuizione creativa nel senso di Bergson».

Definita la verità di un enunciato come il suo accordo o corrispondenza con la realtà, non è difficile accorgersi, seguendo Tarski, che non ci è possibile venire in possesso di un criterio di verità, Popper propose un criterio di verosimiglianza (o di approssimazione alla verità), allo scopo dì permettere la scelta congetturale della teoria più verosìmile tra quelle in competizione. L'obiezione che è stata mossa a questo concetto di verosimiglianza è che tra due teorie false, l'una non può essere più verosimile dell'altra. E Larry Laudan è giunto alla conclusione che è razionale scegliere quella teoria che risolve più problemi - e al contempo problemi più importanti — e che quindi realizza maggior progresso.

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Pagina 64

Qua giunti, tuttavia, c'è da affermare che quanto di più importante la ragione può fare nel campo dell'etica sta nel farci vedere che l'etica non è scienza e che i valori non trovano un fondamento razionale ultimo e certo. Non è possibile costruire in ambito etico un fondamentum inconcussum, non siamo in grado di fondare razionalmente nessun sistema di norme etiche, nessun valore supremo, nessun principio etico ultimo. La "legge di Hume" è una vera e propria legge di morte per siffatte pretese. Difatti, una norma si fonda, all'interno di un'argomentazione, presupponendone almeno un'altra, e questa la si accetta perché ne viene presupposta ancora un'altra. E cosi in avanti fino a che si giunge a quella norma (o a quell'insieme di norme) che fonda (o fondano) il sistema, ma che, da parte sua (loro), non si fonda (o non si fondano) su nulla. Esse non derivano logicamente da altro. Sono norme poste, pre-poste all'intero del sistema: sono proposte etiche, e queste non si fondano né si confutano. Si accettano o si respingono. Si potrebbe dire che la legge di Hume è la base logica della libertà di coscienza. I valori supremi sono oggetto di scelte di coscienza: non sono né teoremi "dimostrati" né assiomi "autoevidenti" e "autofondantisi". Certo, non è escluso che le conseguenze di una scelta etica possano rivelarsi "insoddisfacenti"; e allora il principio potrà venir messo in discussione e magari abbandonato. Ma in questo caso si saranno scelti altri valori — quelli incarnati in conseguenze diverse da quelle "insoddisfacenti". La scelta rimane inevitabile. Inevitabile, quindi, il relativismo in etica o, se si ha paura di questa espressione, il pluralismo in etica. Il pluralismo non rende i sistemi etici uno uguale all'altro — ogni sistema etico è diverso dall'altro. Abbracciarne uno invece di un altro dipende dalla nostra intelligenza delle conseguenze e dal nostro coraggio ovvero dalla nostra stupidità o vigliaccheria.

Pluralismo; dunque, scelta; scelta, dunque libertà; libertà, dunque responsabilità.

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La filosofia contemporanea, nelle sue punte più avanzate e scaltrite, ha esattamente devastato le pretese di un uomo che ha tentato di erigere vitelli d'oro — che ha negato Dio e ha popolato la terra di mostri, di Gulag e di Lager. In quest'opera di demolizione degli «assoluti terrestri» particolarmente efficaci si sono mostrati gli strumenti concettuali forgiati nell'arsenale epistemologico-ermeneutico. Così, per esempio, è stato Karl Popper ad assestare il colpo decisivo allo scientismo: le teorie scientifiche sono e restano smentibili; i discorsi non scientifici, quali le teorie filosofiche, non sono affatto insensati (come pretendevano i neopositivisti); il cervello non spiega la mente; il determinismo è falso; falso è il conseguente fatalismo; e il futuro resta aperto alle nostre scelte e al nostro impegno di cittadini liberi e responsabili in una società aperta. Hans-Georg Gadamer ci ha fatto capire che noi leggiamo il mondo con un linguaggio fatto di concetti non assoluti, di a-priori temporalizzati, per cui non paiono più possibili quei grandi racconti che pretendevano esibire fondamenta inconcussa. Contro lo pseudo-razionalismo di quanti, come i marxisti, si sono creduti in possesso di leggi ineluttabili della storia, si è battuto non solo Popper, ma — tra altri — anche Friedrich A. von Hayek, premio Nobel per l'economia nel 1974, il quale, insistendo sulle inevitabili conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali, è giunto a concludere, in una prospettiva anticostruttivistica, che «l'uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino». E Kelsen, Popper ed Hayek - e, certamente, non solo loro — hanno messo a nudo la totale inconsistenza delle argomentazioni a sostegno dello Stato totalitario, offrendo al contempo ragioni logiche, epistemologiche ed economiche della «società aperta» (Popper) o «Stato di diritto» (Kelsen) o «Grande società» (Hayek).

All'interno di siffatto orizzonte — dove con evidenza vengono scolpiti i tratti della contingenza umana — riemerge più irreprimibile che mai la domanda metafisica. L'umanitario scomparire tutta — ha a disposizione i mezzi per una possibilità del genere. E con ciò l'intera storia degli uomini può trasformarsi in un assurdo. La storia di tutte le esperienze e sofferenze degli esseri umani potrebbe apparire come una muffa cosmica — l'espressione è di Gabriel Marcel — che emerge per caso, prospera nella sofferenza, e scompare per errore, stupidità o malvagità. Ebbene, proprio l'essere gettati di fronte a tale possibilità oggettiva, costringe come non mai a non restare indifferenti dinanzi alla domanda metafisica fondamentale: perché essere piuttosto che il nulla? Domanda metafisica che trova il suo nervo scoperto nella sofferenza, e in special modo nella sofferenza innocente. Perché la sofferenza? Ma poi, e soprattutto, perché la sofferenza di tanti innocenti? Tale interrogativo — annota con profondità Norberto Bobbio — «è una richiesta di senso, che rimane senza risposta o, meglio, che rinvia ad una risposta che mi pare difficile chiamare ancora filosofica».

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