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| << | < | > | >> |IndicePremessa 7 La cittadinanza a portata della buona pratica alimentare 9 di Dario Esposito Introduzione 11 IL CIBO NARRATO 1: STORIE E RACCONTI 13 Dalla mano alla bocca. Saggio fantastico 15 di Brunella Antomarini Il cibo impazzito. Vecchie e nuove mucche pazze 23 di Emanuele Trevi L'altro per pranzo. Il civile cannibalismo dei popoli 29 barbari e il barbaro cannibalismo dei popoli civili di Ambrogio Borsani La fame del popolo e i restaurants parigini 37 durante la rivoluzione francese di Luca Maria Caggianelli La scarpa di Paul Valéry. Un racconto di Earlie Fires 45 di Barry Callaghan TRA FILOSOFIA E MEDICINA 47 Corpo, bisogno, cura. Alimentazione e filosofia 49 di Massimiliano Biscuso, Franco Gallo Il corpo umano come pentola. 75 Il nesso primario tra medicina e cucina di Franco Voltaggio L'asse cervello-pancia: alimentazione e immunità 83 di Francesco Bottaccioli Anoressia e bulimia. 101 Che cos'è un disturbo del comportamento alimentare di Gianfranco Buffardi MANGIARE MEGLIO, MANGIARE TUTTI 115 Ciò che non si dice degli OGM 117 di Marcello Buiatti Accesso alla terra e sicurezza alimentare. 141 Lo sviluppo territoriale negoziato di Sylvia Clementi, Stephan Dohrn, Federica Ravera, Michaël Reyburn, Catia-Isabel Santonico Ferrer Uso e abuso dell'acqua. I rischi della privatizzazione 149 di Alasdair Cohen Il mito della «giusta» alimentazione 167 di Rita Ruscitto Educare il gusto per conservare il futuro 175 di Carlo Petrini IL CIBO NARRATO 2: MITI E TRADIZIONI 179 Simulacri del cinema culinario 181 di Alain J.-J. Cohen Cibo sacro, nutrimento profano. 187 Il cibo nella cultura araba di Francesca M. Corrao Incarnazioni. Il cibo nella cultura ebraica 197 di Richard Cohen Mozzarella di bufala, un mito d'oggi 209 di Alessandro Lanni I gesti culinari, un'ossessione privata 215 di Pia Candinas Sed contra 221 Summaries 231 Indice dei nomi 237 Hanno collaborato 241 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Mangiare e bere sono azioni comuni, che ripetiamo ogni giorno più volte, azioni necessarie, perché senza mangiare e bere non potremmo sopravvivere. Alimentarsi è un'azione, dunque, quanto mai naturale e materiale, propria di tutti gli organismi viventi, che ricercando il nutrimento e assimilandolo entrano in relazione con l'ambiente. E tuttavia l'essere umano si distingue dagli altri esseri viventi perché non si limita ad assimilare il nutrimento, ma trasforma l'ambiente circostante per renderlo adatto alle proprie necessità alimentari come nessun altro animale fa, soprattutto per il modo in cui trasforma il nutrimento e per il significato sociale che assegna all'atto del mangiare. Proprio per il suo carattere naturale e insieme culturale, individuale e al tempo stesso sociale, l'alimentazione può offrirci un punto di vista da cui rendere conto di attività umane assai più complesse e immateriali, ma non per questo autonome dall'atto fondamentale della nutrizione, come il rapporto teoretico e pratico uomo-mondo o le rappresentazioni che i singoli o i gruppi sociali hanno di sé e dei conflitti che li attraversano. La nostra proposta è quindi quella di assumere l'alimentazione come chiave di accesso per comprendere problemi filosofici, medici, antropologici e politici. Viceversa, la complessità dell'alimentazione umana può rivelarsi pienamente solo alla luce delle sue implicazioni antropologiche e politiche, filosofiche e mediche. La prima e la quarta sezione, intitolate entrambe Il cibo narrato, indagano la dimensione culturale e simbolica dell'alimentazione, mettendo a fuoco l'esperienza del preparare, mangiare e parlare del cibo come funzioni socializzanti e umanizzanti fondamentali, ma anche le forme alienate dei rapporti sociali che si manifestano con evidenza nell'alimentazione odierna. I temi trattati spaziano dal rapporto alimentare madre-figlia/o (Antomarini) alle riflessioni sulla letteratura e il cinema (Trevi, A.J.-J. Cohen), dal cannibalismo (Borsani) alle differenze di classe colte nelle diversità di stili alimentari durante la rivoluzione francese (Caggianelli), dal significato religioso dell'alimentazione nella cultura islamica e in quella ebraica (Corrao, R. Cohen) ai moderni miti alimentari d'oggi (Lanni). Le sezioni sono arricchite da due racconti (Callaghan, Candinas). La seconda sezione, Tra filosofia e medicina, raccoglie contributi incentrati sul tema della corporeità; qui troviamo riflessioni sul significato filosofico dell'alimentazione, atto in grado di rivelarci le dimensioni del bisogno e del prendersi cura proprie dell'uomo (Biscuso e Gallo), sul nesso tra arte medica e arte culinaria, indagato a partire da testi medici antichi (Voltaggio), sul cibo come modulatore del network psiconeuroendocrinoimmunitario (Bottaccioli), sull'anoressia e la bulimia (Buffardi). La terza sezione, infine, intitolata Mangiare meglio, mangiare tutti, affronta il duplice ma connesso tema della qualità dell'alimentazione e delle abitudini alimentari nei paesi ricchi, e della scarsità di cibo e acqua nei paesi poveri. Apre la sezione il saggio di Buiatti, che mette in evidenza come il tentativo di imporre sul mercato prodotti derivati da organismi geneticamente modificati sia dovuto al tempo stesso ad un modello di scienza meccanicistica e riduzionista, oggi non più difendibile, e ad interessi economici moralmente e politicamente non accettabili; seguono due interventi che avanzano proposte per garantire la sicurezza alimentare alle popolazioni rurali (Clementi, Dohrn, Ravera, Reyburn, Santonico Ferrer) e l'accesso universale all'acqua potabile (Alas. Cohen); chiudono la sezione due contributi che sottolineano la necessità di un consumo consapevole e personale, non appiattito su modelli precostituiti dall'industria alimentare (Ruscitto, Petrini). | << | < | > | >> |Pagina 491. COME L'ALIMENTAZIONE DIVENNE UNA QUESTIONE FILOSOFICA, OVVERO DEL CONFLITTO DELLE FACOLTÀ MEDICA E FILOSOFICA Al contrario di quanto potrebbe suggerire un'ingenua ricostruzione della storia della scienza di sapore positivistico, la medicina non nasce in Grecia separandosi dalla filosofia, dopo essersi ritagliata dalla totalità dell'ente un oggetto particolare di indagine. In origine è il conflitto tra due forme di sapere altrettanto orientate ad indagare il tutto e a prendersi cura dell'uomo; due forme di sapere che nascono dal bisogno di far fronte al male – la malattia dell'ignoranza e l'ignoranza delle malattie. Sulla base della natura iatropsichica tanto della medicina che della filosofia, e sul costituirsi di due diverse strategie nel fronteggiare i limiti e le sofferenze della condizione umana prende così corpo un confronto polemico che porterà, alla lunga, alla sussunzione del problema dell'alimentazione da parte della filosofia e a una sua soluzione radicale e autoritaria. L'autore del trattato ippocratico L'antica medicina (§ 20) rigetta nettamente la tesi di quei filosofi, come Empedocle, secondo i quali solo chi sa «che cosa è l'uomo e come in origine è apparso e di quali elementi è formato» può conoscere la medicina. La filosofia appare un sapere astratto e inutile, un simulacro, una scrittura che non dipinge la realtà ma costruisce una narrazione autoreferenziale. Invece di dedurre la medicina dalla narrazione sulla natura, bisogna al contrario indagare la natura a partire dalla medicina; si tratta però di un compito per il futuro, visto che sarà possibile «solo quando la medicina sarà tutta quanta esplorata con metodo corretto». Per ora al medico è sufficiente sapere «che cos'è l'uomo» non in astratto, bensì «in rapporto a ciò che mangia e a ciò che beve e a tutto il suo regime di vita, e quali conseguenze a ciascuno da ciascuna cosa derivino» (Ippocrate 1976a: 182-4). L'attenzione all'alimentazione e al regime è centrale nella medicina olistica di Ippocrate: cibi, bevande, stili di vita, condizioni atmosferiche, in particolar modo repentini mutamenti dei venti del clima, sono gli agenti concreti e visibili che modificano gli invisibili equilibri del corpo e dei suoi umori, generando le malattie. Anzi, per Ippocrate la medicina nasce proprio dalla riflessione sulla necessità di differenziare l'alimentazione dei sani da quella dei malati; agendo su uno dei fattori controllabili che entrano nel corpo, si favorisce il ristabilimento dell'equilibrio fra gli umori e fra le dynameis, e quindi della salute: «non sarebbe stata scoperta l'arte medica [...] se per gli uomini ammalati fosse stato opportuno seguire lo stesso regime e la stessa alimentazione, che seguono i sani nel cibo, nelle bevande e in tutto il modo di vita» (L'antica medicina § 3; Ippocrate 1976a: 164). La medicina ippocratica quindi cura i corpi. L'attenzione all'alimentazione è fondamentale per la cura del corpo, perché è parte integrante e primaria del «regime (díaita)» di vita dell'ammalato che deve ristabilirsi. Non solo: le stesse malattie mentali non sono dovute all'intervento degli dèi; non hanno sede in una realtà immateriale, ma nel corpo: «è a causa del cervello stesso che impazziamo, e deliriamo». Infatti tutte le attività mentali sono causate dal cervello: «da null'altro si formano i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, se non dal cervello, e così i dolori, le pene, la tristezza e il pianto. E soprattutto grazie ad esso che pensiamo e ragioniamo e vediamo ed udiamo, e giudichiamo sul brutto e sul bello, sul cattivo e sul buono, sul piacevole e sullo spiacevole» (Male sacro § 17; Ippocrate 1976b: 311-2). | << | < | > | >> |Pagina 645. ALIMENTAZIONI, CURA DI SÈ, CURA DELL'ALTROAllora, per concludere, riproponiamoci la domanda iniziale: cosa significa prendersi cura di sé? Non basta negare la risposta platonica («prendersi cura di sé significa prendersi cura della propria anima»), bisogna anche saper valorizzare la ricchezza che l'ontologia della corporeità, sopra appena abbozzata, attribuisce all'uomo, senza cadere in vieti errori di un materialismo timido e inconseguente. E bisogna anche chiedersi cosa significhi riproporre l'antica domanda in un contesto storico radicalmente mutato. [...] Ciò porta a due rilevanti risultati, insieme diagnostici e terapeutici, cui è possibile solo accennare in conclusione. In primo luogo, seguendo l'ipotesi di Virno (2003 e 2004) – secondo la quale gli aspetti perenni dell'essere umano (la costituzione fisiologica e biologica dell' Homo sapiens, la sua potenza, attestata, oltre che dalla non specializzazione istintuale e dalla mancanza di un ambiente univoco, dalla facoltà di linguaggio) sono oggi direttamente messi al lavoro dal «capitalismo biolinguistico», nelle forme della flessibilità di comportamenti e di risposte ai problemi, delle competenze linguistico-comunicative, delle capacità relazionali -, concludiamo che la cura di sè e dell'altro assume ai nostri giorni la forma metaforica della necessità di una formazione permanente, e la forma letterale dell'efficienza fisica e mentale. Il problema, evidentemente, è non ridurre la cura di sé a massimizzazione efficiente della propria capacità di esperienza e raffinamento del proprio orizzonte di piacere, perché si riverberebbe allora sul soggetto proprio quella logica di massimizzazione dei consumi che l'intero contesto della nostra società tende a proporci come realizzazione delle nostre opportunità. Contro questa prospettiva non si può invocare la strategia reazionaria del contenimento del desiderio, che inevitabilmente finisce per tradursi nell'esortazione rivolta agli altri di contenere i loro consumi, perché incompatibili con gli equilibri ambientali del pianeta (salvo scordarsi di tali equilibri quando gli altri assumono la figura economica della domanda di merci), senza ovviamente ridurre i propri. Né è possibile limitarsi egoisticamente alla nietzscheana ricerca di un personale stile di vita, conforme alle proprie convinzioni, senza curarsi degli effetti sugli altri delle proprie scelte. Non è un caso che íl movimento che lotta per un altro mondo possibile abbia messo a fuoco innanzi tutto il problema dell'ineguaglianza della distribuzione e del consumo delle risorse, specialmente di quelle alimentari – ma anche dei medicinali, per non parlare dei beni immateriali come l'informazione e l'istruzione – che pure sono prodotte in quantità che sarebbero sufficienti per tutti. In tale ineguale distribuzione si squaderna infatti in modo assolutamente evidente, metaforico e insieme drammaticamente letterale, la contraddittorietà tra l'esigenza di una continua cura di sé richiesta dall'attuale organizzazione postfordista in termini di informazione, istruzione, capacità relazionali, e la necessità di escludere una parte di umanità da tale processo, pena l'implosione del sistema. Perché si dia una cura di sé responsabile deve allora essere infranto il feticcio della merce-cibo e insieme devono essere criticate, simbolicamente e letteralmente, le forme in cui si oggettiva lo sfruttamento. Si è così reso manifesto il fatto, in secondo luogo, che cura di sé e cura dell'altro sono intimamente intrecciati, perché originati da una medesima radice biologica: la neotenia. Il problema è che questa cura non può esercitarsi nella forma platonica dell'applicazione ai corpi di una disciplina decisa a livello delle soluzioni ottimizzatrici (e tecnocratiche) che vogliono la disponibilità del sapere per una élite ristretta di competenti e per tutti gli altri l'ordinata applicazione e interiorizzazione degli stili di vita conformi ai bisogni del sistema. La cura di sé deve riprendere la strada di un sapere antico che non disdegna certo il metodo e la formalizzazione, ma, come l' Antica medicina laica, non prevede la rigida subordinazione della pratica di autocostituzione alimentare della salute ad una fisiologia autoritaria che progetti ex novo il regime degli individui secondo i bisogni presunti della società, dello Stato o della politica. La consapevolezza del regime deve dunque nascere dal basso, dalla capacità intrinsecamente empirica e politica degli individui di confrontare la propria prassi quotidiana con best practices documentate e suggerite e con i bisogni reali della specie ed equilibrarle con una esperienza personale capace di sottrarsi alla suggestione della presunta massimizzazione delle prestazioni edonistiche o salutistiche, a costo zero, che l'offerta alimentare quotidiana ci squaderna dinanzi. | << | < | > | >> |Pagina 2091. MODE ALIMENTARI Era qualche tempo che mi ronzava in testa una questione. In sostanza la si potrebbe riassumere così: perché una volta i ristoranti italiani erano pieni di cocktail di gamberi e pennette alla vodka e ora non lo sono più? Possibile che non ce ne sia più traccia? Sì, è possibile: non vedremo più comparire improbabili conchiglione con qualche crostaceo appoggiato su di una foglia di lattuga e affogato nella salsa rosa né tantomeno pasta corta ai superalcolici. Quei menù ricompariranno tuttalpiù in qualche amarcord alimentare. D'altra parte, basta poco per accorgersi che quei piatti sono stati sostituiti da altri. Da Ragusa a Bolzano, esistono altri cibi che spopolano in ogni trattoria, ristorante, pizzeria, spaghetteria, bruschetteria. Di bocca in bocca, è proprio il caso di dirlo, nuove scoperte attraversano senza remore le nostre terre, colonizzando le nostre tavole, omologando il gusto senza che nessuno si fermi a guardare nel piatto in cui mangia. E su di esse, su tali novità ci concentreremo più avanti. Esiste un vero e proprio fenomeno evoluzionistico. Un piatto compare sul pianeta dalla ristorazione; vince la lotta per la sopravvivenza per qualche anno; poi, in breve tempo, viaggia verso l'estinzione, verso lo status di fossile alimentare. Quali sono le ragioni di questa ascesa e del suo inevitabile declino? Molteplici, si dirà. Certo, il mercato conta. Certe esplosioni sono determinate dal mercato. Se qualcosa costava 100 pochi anni fa e oggi costa 10, è lecito aspettarsi che se ne trovi in maggior quantità nel circuito della produzione e della vendita. Tuttavia, noi in questo articolo formuleremo un'altra ipotesi. Chiediamoci: e se la parabola di un cibo rispondesse alla stessa logica della nascita e della fine di una moda? Le categorie buone per analizzare un fenomeno come quello del trend nell'abbigliamento, del look, possono funzionare per capire meglio quelle che si presentano come vere e proprie «mode alimentari»? Ecco, questo è il punto. Proviamo a partire da un classico e vedere di capirci qualcosa. «La moda», scrive Georg Simmel nel suo saggio più celebre, «è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale» (1911: 15). In poche parole, il padre della sociologia tedesca individua i due concetti chiave dell'analisi tanto psicologica quanto sociologica del fenomeno della moda. Secondo Simmel, negli uomini l'impulso a seguire le mode è determinato dalla sicurezza che un modello è in grado di trasmettere e dalla capacità di integrazione nella società che tali mode realizzano. Ma la moda in generale è anche altro. È estro, fantasia, creatività, distinzione. E Simmel non lo dimentica, anzi sottolinea proprio che essa «nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi» (1911: 15). La moda, anche nel suo senso più esteso, è questo susseguirsi dialettico di desiderio di integrazione e fuga dalla normalità. E uno scatto in avanti verso il nuovo e una sosta nel nuovo che è intanto divenuto la regola. Questa trasformazione ciclica è ciò che fa sì che le mode passino, siano a tempo determinato, con una data di scadenza. Non si dà moda in assoluto, essa per sua intima essenza è caduca. Ecco perché non si vedono più in circolazione cocktail di gamberi, nessuno ambisce più a distinguersi attraverso quel piatto. L'epoca si è conclusa e il piatto è tornato nell'oblio.
Un contributo importante per l'analisi di almeno una delle due
tendenze sociali che determinano la moda è fornito dalla celebre opera
di
Pierre Bourdieu,
La distinzione
(1979). Si tratta, come è noto, di un corposo lavoro nel quale il sociologo
francese si rivolge in diverse direzioni, tra le quali, una confutazione di
qualsiasi critica del gusto di tipo intellettualistico. A differenza di Kant, il
giudizio di gusto secondo Bourdieu è radicato nella concretezza dell'esistenza e
nella struttura stessa delle classi sociali. Ci sono ragioni ben precise di ceto
e di censo perché si giudica bella un'opera d'arte, ma anche — e questo preme
molto a Bourdieu — per cui si beve una marca di whiskey piuttosto che
un'altra o si sceglie un determinato tipo di musica. Chi fa parte della
classe dominante crea la propria identità anche attraverso la cultura
cosiddetta «bassa», per esempio quello che sceglie in pizzeria. Chi non
appartiene a quella classe, e ambisce ad entrarci, la scimmiotta. «La
cosiddetta volgarità», ha detto una volta Bourdieu in un'intervista,
«consiste spesso nel fatto che uno che non è naturalmente distinto,
cioè non plasmato in modo da esserlo spontaneamente, assume gli
atteggiamenti di chi è distinto» (1993). Non si tratta di «snobberia»
sostanzialistica del sociologo francese. Piuttosto, Bourdieu mette in
evidenza il fatto che i giudizi di gusto sono radicati in una rete di pratiche
sociali che non possono essere messe tra parentesi.
2. UN LATTICINO D'ÈLITE DIVENUTO DI MASSA
Sulla scorta di queste indicazioni tratte da due classici dell'analisi
sociologica del gusto riprendiamo in mano il tema dal principio.
Esistono oggi una o più
mitologie
(nel senso anche di Barthes 1957)
della cucina affini a quelle passate alla storia? Noi pensiamo di sì. Esiste un
case study
eclatante della nostra ipotesi sulla analogia tra la
moda e i cibi che vanno per la maggiore: la mozzarella di bufala.
Questi latticini DOP (denominazione di origine protetta) stanno ai
nostri anni come i cocktail di gamberi in salsa rosa stavano agli anni
Ottanta. Nella fenomenologia delle mode alimentari, «la bufala» è
divenuta uno dei maggiori
status symbols
della ristorazione. Trecce, bocconcini, mozzarelle giganti si trovano ormai
ovunque. Un letto di rucola (ci sarebbe un discorso da fare anche su questa
specie d'insalata, che un tempo si trovava solo nei campi e si chiamava
«rughetta»), pomodorini, volendo, qualche fetta di prosciutto San Daniele o di
Parma. In pizzeria c'è la pizza con la bufala e i pachino. È la variante
chic,
si fa per dire, e costosa della classica Margherita.
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