Autore Daniela Antoni
CoautoreB.M. Gombac, V. D'Alessio, D. Mattiussi, C. Di Sante, P. Purini, G. Scotti, S. Volk, R. Sarti, G. Candreva, A. Di Gianantonio, M. Verginella, A. Kersevan, G. Bajc,
Titolo Revisionismo storico e terre di confine
EdizioneKappa Vu, Udine, 2007 , pag. 216, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-89808-30-6
CuratoreDaniela Antoni
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe storia contemporanea d'Italia , storia criminale , scuola , guerra-pace , citta': Trieste , regioni: Friuli-Venezia Giulia , paesi: Slovenia












 

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Indice

INTRODUZIONE di Daniela Antoni                               7

BORIS M. GOMBAC
Trieste-Trst, due nomi una identità. Contributo ragionato
sulla storia degli sloveni di Trieste fino al 1918          11

VANNI D'ALESSIO
Limiti e formazione degli schieramenti nazionali in Istria.
Identità e confini vecchi e nuovi dell'Ottocento asburgico  33

DARIO MATTIUSSI
Il fascismo di confine                                      53

COSTANTINO DI SANTE
L'occupazione italiana della Jugoslavia e la questione
dei crimini di guerra                                       65

PIERO PURINI
Gli esodi dimenticati: Trieste 1914-1956                    77

GIACOMO SCOTTI
Il ricordo selezionato e la storia falsificata              89

SANDI VOLK
Esodo e insediamento                                       107

RENATO SARTI
Il processo Cecchelin                                      127

GINO CANDREVA
La storia consumata: revisionismo, uso pubblico
della storia e manuali scolastici                          135

ANNA DI GIANANTONIO
Luoghi comuni da rivisitare.
Memoria e contesti generali al confine orientale           153

MARTA VERGINELLA
Il contributo storiografico alle pratiche
di negoziazione del confine italo-sloveno                  167

ALESSANDRA KERSEVAN
La malastoriografia. Esempi nella storia
del confine orientale                                      175

GORAZD BAJC
Le "foibe": contributo ad un dibattito storiografico
in corso                                                   195

GLI AUTORI                                                 207
BIBLIOGRAFIA                                               213

 

 

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Pagina 7

Introduzione



Di revisionismo storico, riabilitazione del fascismo e del "blanchissage di Salò", secondo la definizione di Tabucchi, si discute da una quindicina d'anni. Si tratta di un'operazione a vasto raggio, che ha coinvolto il mondo politico ed istituzionale in forme diverse. Si va dall'incontro Violante-Fini a Trieste del '98 sui "bravi ragazzi" di Salò alle parole di Ciampi nel 2001 sui "giovani che fecero scelte diverse e che le fecero credendo di servire ugualmente l'onore della propria Patria", passando per le vergognose esternazioni di chi dipingeva un fascismo "mite", che mandava gli oppositori in vacanza al confino.

Si è arrivati a proporre un provvedimento legislativo per equiparare i nazifascisti della repubblica di Salò ai combattenti partigiani. La tesi eversiva di una pari dignità di chi aveva combattuto negli anni '43-'45 è caduta ma voleva condurre, secondo Enzo Collotti, a «un risultato che equivarrebbe ad una sorta di suicidio ideologico del parlamento repubblicano, indotto da una maggioranza priva di senso storico e di responsabilità civica a smentire le proprie origini».

Il dibattito culturale è stato sommerso in questi anni dal revisionismo storico, l'obiettivo esplicito è quello di mettere sotto accusa la Resistenza ed annullare ogni sistema di valori e ogni valutazione autenticamente storica. Per realizzare questo ribaltamento del paradigma interpretativo della storia del movimento di liberazione e di lotta al nazifascismo bisognava scrivere un'altra storia e a scriverla non potevano più essere gli storici, ma i media e la pubblicistica. Si è cercato di costruire un senso comune lontano dai valori etici e dalla correttezza storiografica, che cancellasse nella coscienza civile le fondamenta resistenziali della repubblica.

Banalizzazione, omissione e conseguente manipolazione sono le premesse necessarie per questa operazione: aggrediti ed aggressori vengono messi sullo stesso piano, si relativizzano i crimini commessi, non ci si assume alcuna responsabilità rispetto al passato coloniale, non si contestualizzano gli avvenimenti, si pone l'accento su singoli episodi estrapolati, si scelgono e usano i dati numerici piegandoli a esigenze strumentali.


A Trieste

L'attacco revisionista ha avuto ricadute pesanti al confine orientale: per anni in città non si è potuto celebrare degnamente il 25 Aprile né la giornata della Memoria nella Risiera di San Sabba, l'unico campo di sterminio con annesso forno crematorio dell'Europa meridionale. All'apologia del fascismo si è affiancato il rilancio del razzismo antislavo, con assessori che celebravano la Marcia su Roma mentre in città si vagheggiava di "memorie condivise" o di "pacificazioni".

Come insegnanti siamo dovuti intervenire pubblicamente in due occasioni, che qui vogliamo ricordare per far comprendere il clima nel quale è stato necessario e doveroso realizzare il corso di aggiornamento per il personale della scuola su "Revisionismo storico e terre di confine".

Nel maggio 2004 si è celebrato il cinquantenario del ritorno di Trieste all'Italia: vengono distribuite nelle scuole (ma non in quelle con lingua d'insegnamento slovena) 22.500 confezioni del "kit tricolore" nell'ambito del "Progetto Italia". Il kit prevedeva una maglietta (bianca o rossa o verde) che gli alunni e gli studenti avrebbero dovuto indossare per formare la più grande bandiera vivente in piazza dell'Unità d'Italia (l'ambizioso progetto prevedeva la consacrazione nel Guinness dei primati), una bandiera, il testo dell'inno nazionale e una nota della Lega Nazionale sugli ultimi 130 anni di storia in queste terre.

Il testo della nota è talmente scandaloso da meritare una citazione sia per le omissioni che per gli errori contenuti. Non si citano i 20 e più anni di squadrismo fascista, - particolarmente brutale in queste terre per la volontà di assimilare forzosamente le componenti slovena e croata - , le persecuzioni e le condanne a morte del tribunale speciale fascista, né tantomeno l'esistenza della Risiera o l'annuncio fatto proprio a Trieste da Mussolini dell'introduzione nel 1938 in Italia delle leggi razziali.

I Comitati di Base della Scuola, unico sindacato a prendere posizione, denunciano l'oltraggio alla città intera, diffidano i dirigenti scolastici dal distribuire i kit e dal far partecipare le scolaresche al "grande evento" senza seguire l'iter della discussione in Collegio docenti e nei Consigli di classe. Mentre gli insegnanti di storia lanciano un appello pubblico sul giornale della città, un deputato locale post(?)fascista invita il ministro Moratti a prendere provvedimenti contro gli insegnanti «solerti nello svilire e nell'annientare l'amor patrio» (sic). Il progetto viene comunque portato sommessamente e faticosamente a termine (la bandiera vivente si rivela un flop indimenticabile) anche se ormai la sua essenza revisionista è svelata a tutta la città. Rimane la percezione dell'offesa alla scuola pubblica, nella quale è stato possibile far circolare un siffatto materiale impresentabile ad uso didattico. Pagato, per di più, con pubblico denaro.

Passano solo pochi mesi e, in occasione della "Giornata del ricordo", - istituita dalla legge n. 92 del 30.3.2004 al fine «di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» -, viene proposto in televisione uno sceneggiato sugli avvenimenti in Istria nella II Guerra Mondiale. L'immagine di "italiani brava gente" viene ineffabilmente ribadita senza alcuna menzione dei crimini compiuti nel ventennio fascista e delle atrocità dell'occupazione e della guerra nei Balcani e in Jugoslavia. L'uso della violenza, non solo contro i partigiani, ma contro tutta una popolazione considerata inferiore, la guerra nella quale non si facevano prigionieri (circolare 3C del marzo '42 del generale Roatta) non trovano qui alcun riscontro.

L'archiviazione dei processi contro i criminali di guerra italiani del 1951 è stata, d'altronde, una tappa fondamentale nel processo di rimozione. "La più complessa vicenda del confine orientale" viene alla fine così rappresentata: il mito dell'occupante italiano buono e pietoso commuove la platea e porta all'oblio della realtà dell'occupazione. Nel clamore causato da chi grida alla pulizia etnica comunista o da chi si percuote il petto si rischia di perdere il senso di ciò che sta accadendo. L'odio verso l'altro, il perfido e barbaro "slavo", può essere fatto rivivere ad uso e consumo dei novelli "divulgatori di storia".

A nessuno viene in mente di rendere note le cifre delle vittime civili durante l'occupazione italiana in Jugoslavia, né tantomeno un presidente della Repubblica italiana ha sentito il bisogno di fare i conti con le passate responsabilità e fare ciò che ha fatto il presidente tedesco Rau a Marzabotto, il quale nel 2002 si è inchinato e ha commemorato le vittime della ferocia nazista.

La rimozione del passato, l'uso politico e la strumentalizzazione delle foibe, la falsificazione della storia abbandonano con questo sceneggiato l'angusto confine orientale e guadagnano la ribalta televisiva nazionale.


Di fronte al montare del razzismo, alle visioni falsificate della realtà del confine orientale e all'emergere di una nuova categoria di sedicenti storici — gli "storici" mediatici — abbiamo creduto nostro dovere organizzare una riflessione sulla storia delle nostre terre. In questo corso abbiamo voluto unire rigore scientifico, lavoro sulle fonti, interventi storiografici e attenzione alla didattica, che è il senso ultimo del nostro fare scuola.


Ringraziamo le relatrici e i relatori che ci permettono di dare alle stampe gli atti, l'ANPI di Trieste per il patrocinio dato al corso e il vasto pubblico di operatori della scuola e studenti che ha seguito e partecipato alla nostra due giorni di lavori, confermandoci, con la sua attenzione, nel senso del nostro agire. Ringraziamo Gorazd Bajc per il suo contributo inedito, frutto di un suo recente studio negli archivi britannici.

La deriva politica e antropologica di questo paese si riassume tutta nella nuova "memoria storica" che si sta pericolosamente elaborando. Noi crediamo che le radici ideali della repubblica, l'antifascismo e la Resistenza, ne siano ancora valori fondanti e vadano declinati, oggi come ieri, per rendere concreti e attuali proprio quei principi, che preludevano a una società altra e possibile.

Per il gruppo CESP di Trieste, Daniela Antoni

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Pagina 89

GIACOMO SCOTTI
Il ricordo selezionato e la storia falsificata



In una sua "nota" pubblicata sul giornale di Trieste "Il Piccolo" in data 19 agosto 2005, lo scrittore friulano Ferdinando Camon scrisse: «Per la seconda metà del secolo scorso, e per tutto questo secolo, e chissà per quanti secoli ancora, la Polonia resterà come emblema di Stato-vittima, e la Germania come Stato-carnefice, autore dei più orrendi crimini che la storia conosca». Ed è vero. Ma oltre alla Polonia le vittime delle aggressioni nella seconda guerra mondiale, le vittime della follia criminale dell'Asse Roma-Berlino che mise a ferro e fuoco l'Europa, furono pure la Russia, la Grecia, la Jugoslavia ed altri paesi occupati e martirizzati. Purtroppo in Italia il fascismo macchiatosi di crimini orrendi nella II guerra mondiale non viene quasi mai ricordato come regime e stato-carnefice. Anzi dall'Italia di oggi vengono lanciate e non da oggi, pesanti accuse e offese contro i popoli dell'ex Jugoslavia, definiti "barbari" per aver reagito all'aggressione ed all'occupazione con la lotta di Resistenza, o partigiana, durante la quale avvennero certamente anche episodi atroci, che però non ci danno il diritto di mettere sullo stesso piano aggressori e vittime dell'aggressione. Nel caso dell'Istria, poi, i crimini fascisti contro gli slavi non cominciarono nella seconda guerra mondiale, ma subito dopo la fine della I guerra mondiale, quando quei territori ex austriaci furono ceduti all'Italia e l'Italia vi instaurò il suo dominio illiberale, fascista, fatto di snazionalizzazioni, persecuzioni, privazione d'ogni diritto perfino alla lingua, ai cognomi, alla propria cultura.

Purtroppo, falsificando la stessa legge che ha istituito la "Giornata del Ricordo", in base alla quale vanno ricordate tutte le «tormentate vicende del confine orientale» susseguitesi nel Ventesimo secolo, la destra italiana ha ridotto il "ricordo" alle sole foibe ed all'esodo, dimenticando le barbarie compiute dal fascismo italiano nel ventennio precedente la seconda guerra mondiale e durante quella guerra. Quegli anni di oppressione e quelli ancor più insanguinati della guerra, incidendosi profondamente nella memoria delle vittime, portarono poi alle foibe, alla sconfitta del fascismo, alla perdita dei territori e infine all'esodo di gran parte della popolazione italiana dell'Istria e del Quarnero.

Ma questa è una riflessione che pochi fanno. Si privilegia la comoda memoria selettiva, che punta alla rimozione di un certo passato scomodo per i nostalgici dell'ideologia fascista, alla rimozione dei crimini delle occupazioni fasciste fino al settembre 1943 e, per quanto riguarda l'Istria, dei crimini compiuti dai fascisti al servizio dei tedeschi nel territorio dell'Adriatisches Kόstenland dopo il settembre 1943 e fino al maggio 1945.

Contemporaneamente si cerca di togliere spazio alla valutazione di quel passato, criminalizzando e ingiuriando chiunque, come il sottoscritto, cerca di fare chiarezza e di contrapporre i documenti storici alla retorica propagandistica che vuole coprire i crimini di guerra del regime monarco-fascista italiano nei territori annessi e occupati. Si insiste invece sulla memoria conveniente, per strumentalizzare i buchi neri della Resistenza — che ci furono e vanno ricordati — ma in questo caso si arriva a falsificare la storia. Non a caso oggi si tende a far credere che la Resistenza e il comunismo erano la stessa cosa; non a caso imperversa la strumentalizzazione delle foibe, e tutto ciò per collezionare punti a favore della destra.


In considerazione di questa mia "introduzione", l'intervento continuerà sulle "premesse delle foibe" (e dell'esodo) ma anche su queste premesse non potrò essere esaustivo. Preciso, inoltre, che mi soffermerò soprattutto sull'Istria e dintorni.

La politica che si nasconde dietro la strumentalizzazione del Giorno del Ricordo da parte della destra postfascista nasconde l'ottusità politica nel costruire rapporti civili con i vicini stati di Slovenia, Croazia e Montenegro, i paesi che maggiormente soffrirono l'aggressione e l'occupazione italiana nella seconda guerra mondiale e che oggi col pretesto di ricordare i nostri morti e i nostri esodati, vengono nuovamente aggrediti con accuse di barbarie. Assecondare il revanscismo italiano che le forze di destra non hanno mai smesso di cavalcare, significa zavorrare l'Italia col peso del suo peggiore passato, quel passato dal quale scaturirono le vendette delle foibe dopo l'8 settembre 1943 e l'esodo delle popolazioni dei territori annessi alla ex Jugoslavia in seguito agli esiti della guerra e del trattato di pace del 1947. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che gran parte di quanto è accaduto dopo l'8 settembre 1943 in Istria e negli altri territori passati alla Jugoslavia (Zara, Fiume, le isole di Cherso, Lussino e Lagosta e soprattutto l'Istria) è il risultato del fascismo di Mussolini: l'oppressione e le repressioni subite dai croati e sloveni di quei territori annessi dall'Italia dopo la prima guerra mondiale e la politica di snazionalizzazione che per oltre venti anni fu seguita da Mussolini e dal suo regime in quei territori, ma soprattutto l'aggressione alla Jugoslavia nell'aprile del 1941. Per la prima volta nella storia moderna italiana fu scatenata una guerra non dichiarata, per la prima volta in una guerra furono subito annesse al Regno d'Italia vaste fette dei paesi occupati: la Provincia di Lubiana, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro, territori della Macedonia inserite nella Grande Albania, senza contare l'imposizione del Protettorato sul Montenegro. Venne imposta la logica dei conquistatori.


Nel decimo volume di "Asti contemporanea" dell'Istituto per la storia in provincia di Asti, edito nel dicembre 2004, lo storico piemontese Brunello Mantelli pubblicò uno splendido saggio dal titolo La memoria rimossa, politiche persecutorie e crimini di guerra fascisti che dovrebbe entrare in tutti i libri di scuola. A un certo punto l'autore si chiede «Come mai trova così poco spazio nel nostro immaginario collettivo quella che gli studiosi tedeschi chiamano la valutazione del passato?» E si chiede, per esempio, quanti tra gli italiani informati e attenti sanno della carestia provocata in Grecia durante l'occupazione italiana, che causò quarantamila morti? E quanti conoscono il nome di Kampor sull'isola di Arbe/Rab nel Quarnero? Kampor fu un campo di sterminio istituito dopo l'occupazione italiana della Dalmazia, un lager che per fortuna rimase in funzione soltanto 14 mesi, durante i quali la mortalità dei civili — in maggior parte donne, vecchi e bambini — superò la percentuale del campo nazista di Dachau. Θ recentissima la pubblicazione di un libro dello storico Carlo Spartaco Capogreco, I campi del Duce: l'internamento civile nell'Italia fascista dal 1940 al 1943 nel quale si documenta la morte di parecchie decine di migliaia di persone, sloveni, croati e montenegrini, deportati dai territori occupati, colpevoli soltanto di essere famigliari di partigiani.


Durante l'occupazione della Jugoslavia, le truppe italiane massacrarono 250 mila civili, e questa cifra — scrive Mantelli — è «solo una stima di massima» perchè purtroppo non è stata mai fatta una ricerca approfondita né per opera di studiosi italiani né da parte jugoslava, ma «è un calcolo con ogni probabilità inferiore al reale». Quei morti furono le vittime della cosiddetta "civilizzazione romana" voluta da Mussolini. Una "civilizzazione" alla quale si opposero le popolazioni slovene, croate, montenegrine ed altre, giungendo fino alla ribellione armata. In quell'insurrezione, trasformatasi poi in vera e propria guerra di liberazione nazionale con un forte esercito partigiano contrapposto alle truppe straniere di occupazione, le autorità militari italiane imitarono i tedeschi applicando misure da stato di assedio, comportandosi in modo rigorosamente coloniale, facendo proprio il seguente ragionamento: «siccome noi portiamo la superiore civiltà latina e loro invece di gioirne fanno resistenza, allora sono veramente dei barbari di razza inferiore, e come tali vanno trattati». Del resto anche oggi, in molti discorsi fatti nella Giornata del ricordo, gli slavi ovveri sloveni e croati vengono definiti barbari. In quanto "barbari" sono giustificate le fucilazioni, la distruzione con fuoco di centinaia di villaggi, la deportazione di centinaia di migliaia di persone. Se l'occupazione italiana non fosse cessata nel settembre 1943 e se fossero stati applicati i piani elaborati dal Supersloda (così era chiamato il Comando della II Armata, stanziata in Slovenia e Dalmazia) l'intera popolazione di quelle terre sarebbe stata deportata in Italia, sostituita in Slovenia e Dalmazia da coloni italiani di "razza pura" e di "provetta fede fascista". I piani erano questi. Dal 1941 al settembre 1943, nonostante le scarse capacità organizzative dei comandi italiani di occupazione, furono deportati dalla Slovenia, dalla Dalmazia, dal Montenegro e dalle altre regioni occupate o annesse un decimo dei residenti. Finirono nei "campi del Duce", da Molat ad Arbe in Dalmazia, da Buccari a Fiume; da Gonars nel Friuli a Cairo Montenotte nell'Appennino di Savona ed in un centinaio di altri lager, dove molti morirono di stenti, di fame e di malattie. «Non sappiamo cosa sarebbe successo se quell'Italia non fosse crollata politicamente il 25 luglio e militarmente l'8 settembre '43, ma sappiamo dove si stava andando», scrive Mantelli. Di tutto questo si tace nelle celebrazioni della cosiddetta Giornata del Ricordo.


Venti anni di squadrismo e la guerra

Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò l'Istria all'Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo squadrismo in camicia nera, importato da Trieste, che si manifestò con particolare aggressività e ferocia. Gli stessi storici fascisti, tra i quali l'istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti – dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola ed altri, alla distruzione delle Camere del lavoro ed all'incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la creazione del regime: furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e degli sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia; migliaia di persone finirono al confino. Nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, furono cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato.


La sostituzione delle popolazioni "allogene"

Mi è capitato per le mani un opuscolo del ministro dei Lavori Pubblici dell'era fascista Giuseppe Cobolli Gigli. Figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Cobol, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928 anche perché sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà. Questo signore, fu autore di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali Il fascismo e gli allogeni, (in "Gerarchia", settembre 1927) in cui sosteneva la necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle popolazioni "allogene" autoctone con coloni italiani provenienti da altre province del Regno. Tra l'altro volle tramandare ai posteri una canzoncina in voga fra gli squadristi di Pisino. Il paese sorge sul bordo di una voragine che – scrisse il Cobol-Cobolli – «la musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali dell'Istria». Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio, di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella Foiba. La canzoncina di Sua Eccelenza (testo dialettale e traduzione italiana) diceva:

A Pola xe l'Arena / la Foiba xe a Pisin: / che i buta zo in quel fondo / chi ga certo morbin.

(A Pola c'è l'Arena, / a Pisino c'è la Foiba: / in quell'abisso vien gettato / chi ha certi pruriti).

Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo. Putroppo essi non rimasero allo stato di progetto e di canzoncine. Riportiamo qui, dal quotidiano triestino "Il Piccolo" del 5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924.

«Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al lavoro "coatto", in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica d'Albona. Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 – poi sono stato trasferito a Verteneglio – ha dell'incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l'italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro. Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti. Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica d'Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finchè vivrò (...). Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea - che da Trieste era diretta a Pisino e Pola - in un burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti. (...) Ho lavorato fra Santa Domenica d'Albona, Cherso, Verteneglio sino all'agosto del '43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti). L'accordo e l'amicizia era grande e l'aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la verità, che io posso testimoniare».

Naturalmente l'estrema destra filofascista italiana ha cercato di smentire il Camerini, come ha fatto il libellista triestino Giorgio Rustia nel suo Italiani infoibatori?, un quaderno di poco più di dieci pagine (venduto a 5 euro) pieno soltanto di argomentazioni pretestuose, edito senza data nel 2006, sotto il patrocinio dell'Associazione Famiglie e Congiunti dei Deportati italiani in Jugoslavia uccisi o scomparsi, associazione finanziata pubblicamente e della quale il Rustia è factotum.

D'altra parte la 'storiografia' di estrema destra si guarda bene dal ricordare la più grande carneficina di minatori avvenuta durante il regime fascista in Istria, una strage che alimentò ulteriormente l'odio delle popolazioni istriane contro il fascismo e lo Stato fascista italiano. Per lo sfruttamento sfrenato dei minatori e della miniera di carbone di Arsia-Albona e per mancanza delle più elementari misure di sicurezza sul lavoro, il 28 febbraio 1940 crollarono i livelli 14, 16 e 17 di quella miniera, uccidendo e seppellendo a centinaia di metri di profondità 185 minatori! Per nascondere all'opinione pubblica il disastro, il più grande nella storia di quelle miniere, le autorità fasciste tennero segreta per molte ore alle famiglie la tragedia; i soccorsi furono mandati in ritardo e soltanto un minatore fu estratto ancora vivo. Morì all'ospedale. Le famiglie dei morti si vendicheranno, ahimè, denunciando agli insorti improvvisatisi partigiani del 9 settembre 1943 il capocantiere ed altri funzionari fascisti della Direzione del Bacino carbonifero. E una ventina di loro finiranno purtroppo infoibati.

[...]

Centomila nei campi di concentramento

Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco: «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell'aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l'incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento». In particolare evidenzia che il numero dei condannati e confinati "slavi" della Venezia Giulia e dell'Istria fu particolarmente elevato, sicché dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza degli "ospiti" dei campi di concentramento italiani era costituita da civili sloveni e croati. Il numero totale dei civili internati dall'Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le "leggi eccezionali".

Più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. All'inizio del lungo elenco troviamo i generali Mario Robotti, Mario Roatta, Gastone Gambara, Ruggero ed altri. Nessuno di loro fu mai processato per questi crimini.


I campi di concentramento nei quali furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi erano disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Non si contano, poi, i campi "di transito e internamento" che funzionavano lungo tutta la costa dalmata, sulle isole di Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat). Quest'ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi». In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. Il 15 dicembre 1942 l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico, il col. Vittorio Finderle di Fiume (che dopo l'8 settembre si unì ai partigiani) in visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame». Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».

Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo d'Armata in cui si parlava di «briganti comunisti passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il trattamento dei sospetti (...). Cosa dicono le norme 3C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!». Il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da testa per dente».

Furono circa 200.000 i civili "ribelli" falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla "Provincia del Carnaro", dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti. Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell'Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento. Mi limiterò, per l'Istria, ad alcuni episodi che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943.

Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi, San Matteo e Spincici; i loro beni, compreso il bestiame, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero fucilate.


I deportati in Italia, i villaggi rasi al suolo, i fucilati

Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnico, a nord di Fiume. Per ordine del prefetto Temistocle Testa, reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum all'alba del 13 luglio. Rastrellata l'intera popolazione, questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi incendiato. Oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame minuto furono portati via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie finirono nei campi di internamento italiani: più di cento maschi furono fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena.

Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò: «Ierisera tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti militari dell'armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop».

Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette villaggi; furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono deportate e precisamente 842 uomini, 904 donne e 565 bambini; furono incendiate 503 case e 237 stalle. Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici "covi di ribelli". Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici.

Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un "Fronte nazionale antifascista" al Prefetto Giuseppe Cocuzza. Era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista. Nel documento, si fa una denuncia drammaticamente circostanziata delle vessazioni, arresti, devastazioni ed esecuzioni sommarie «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza di certe autorità». Nell'iniziativa era evidente, oltretutto, un «diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi indiscriminatamente sugli Italiani dell'Istria come reazione «alla tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave».


Le foibe istriane

Il periodo delle cosiddette "foibe" istriane va dall'inizio della seconda metà di settembre al 4 ottobre 1943, coincidendo con l'insurrezione generale del popolo dell'Istria. Quell'insurrezione vide uniti croati, sloveni e italiani senza distinzione. Un primo tentativo di rivolta c'era già stato il 25 luglio, ma le forze di polizia lo impedirono ovunque, richiamandosi allo stato di guerra.

All'indomani dell'8 settembre, invece, nulla poté fermare il popolo; il movimento assunse il carattere di una "jacquerie" contadina nell'interno prevalentemente abitato da slavi e di una rivoluzione antifascista sulla fascia costiera occidentale prevalentemente abitata da italiani. Il popolo, ma soprattutto croati e sloveni che erano stati oppressi per un ventennio, privati d'ogni diritto, perfino della lingua, esultò per la fine di una lunga tirannide e per la fine – almeno così si sperava – della guerra; al tempo stesso fu reclamata la punizione dei fascisti e il loro allontanamento dal potere. Le autorità italiane, purtroppo, furono sorde alle richieste ed in molti casi reagirono ordinando di aprire il fuoco contro la folla, come avvenne a Pola. In quel capoluogo istriano stazionavano più di 15.000 soldati e marinai, ma questa enorme forza militare fu usata non per far fronte alla calata dei tedeschi che era stata preannunciata, ma per sbaragliare i dimostranti riunitisi nel centro città la mattina del 9 settembre: tre operai furono uccisi, numerosi altri feriti, altri ancora arrestati. Dopo di che, alcuni giorni dopo, l'intero potere militare venne ceduto a un battaglione di poco più di 350 tedeschi presenti in città da prima.

A fine mese, con l'arrivo di alcuni reggimenti corazzati germanici che occuperanno l'intera penisola, i gerarchi fascisti usciranno dall'ombra in cui si erano nascosti per una settimana, accompagnando quei reparti nazisti nelle azioni di rastrellamento, repressione e sterminio. Il 16 settembre ci fu la prima strage: ai prigionieri rilasciati dal carcere di Pola per iniziativa dei secondini, fu data una caccia spietata dai fascisti e dai tedeschi e tutti quelli che vennero catturati, almeno venticinque, furono trucidati o impiccati agli alberi di via Medolino e in località Montegrande.

Nell'interno dell'Istria, dove invece i tedeschi non riuscirono a mettere piede fino ai primi di ottobre, il popolo prese nel frattempo il potere nelle proprie mani, costituendo Comitati di liberazione, Comitati di salute pubblica eccetera. Ma spesso ci fu il caos.

Qua e là i contadini assalirono i municipi, le case del fascio, i tribunali ed altre istituzioni, dando fuoco agli archivi; inoltre aggredirono, arrestarono e talvolta uccisero persone considerate caporioni del vecchio regime. Alcuni gerarchi, alcuni ricchi possidenti terrieri, ma anche semplici fascisti e perfino innocenti furono massacrati. I più, tuttavia, vennero consegnati agli improvvisati "tribunali del popolo" che dal 15 settembre avevano cominciato a funzionare a Pisino, Pinguente ed Albona. Quasi sempre i "giudici" condannarono gli imputati alla fucilazione, dopo processi sommari, ed i cadaveri trovarono oltraggiosa sepoltura nelle cavità carsiche dette "foibe" o nelle cave di bauxite. Ma in alcune di queste finirono infoibati partigiani, presunti tali e ostaggi presi dai tedeschi con l'immancabile collaborazione dei fascisti repubblichini italiani. Un caso per tutti: nella foiba di Santa Lucia a 500 metri dalla stazione ferroviaria di Degnano i fascisti del reparto MDT di Degnano al servizio delle SS di Pola, gettarono i corpi dei giovanissimi Carlo Nadeni diciannovenne e Carlo Bersi quattordicenne e cugino del primo dopo averli massacrati. Le vittime erano del villaggio di Jusici: ciò avvenne nell'aprile 1945, una settimana prima della resa dei tedeschi in Istria!

Nella loro maggioranza le vittime dell'insurrezione furono italiani, ma non ci fu un piano preordinato di genocidio, né si può parlare di genocidio.

In molte località i fascisti arrestati furono rimessi in libertà; a Pinguente furono liberate 100 persone. Gli italiani furono la maggioranza delle vittime perché in stragrande maggioranza erano stati italiani i podestà, i segretari del Fascio, i detentori del potere politico ed economico, i grandi proprietari terrieri ed altri esponenti del regime. Non mancarono però fra le vittime croati e sloveni, accusati di essersi posti al servizio dei fascisti durante il ventennio. Fra gli slavi, anzi, furono più numerosi gli innocenti, uccisi per vendette personali. D'altra parte, in una regione dove nei secoli, attraverso matrimoni misti, si sono mescolati slavi e italiani, è pressoché impossibile distinguere dai cognomi gli uni dagli altri. Tanto più che nel ventennio fascista il regime cambiò per legge i cognomi ai cosiddetti "allogeni" e/o "alloglotti". I Nikolié divennero Niccolini e Niccoletti, i Simunovié cambiarono in Simonetti, Simoni e Simoncini, i Milié si trasformarono in Millo, gli Jugovac in Meriggioli, i Miljavac in Miglia, i Knapié in Cnappi e Nappi, e si potrebbe continuare. Come distinguere slavi da italiani leggendo i nomi e cognomi degli infoibati nel settembre 1943? Erano tutti italiani. Certo, ci fu anche una spinta nazionalistica slava, e non sarò io a sminuire il grado della violenza e l'orrendo aspetto degli infoibamenti; né si può coprire col silenzio il sangue delle vittime innocenti della rivolta istriana. Θ però necessario tracciare un quadro corretto degli avvenimenti, contestualizzandoli, inserendoli nella cornice storica, ricordando i precedenti.

Le vittime di un odio accumulatosi per venti anni, frutto di umiliazioni, espropriazioni, persecuzioni, di centinaia di condanne al carcere, al confino ed anche a morte, furono alcune centinaia, ma le cifre sono ballerine. Dalle cavità carsiche furono estratte 203 salme nelle operazioni di recupero organizzate dalle autorità nazifasciste e, sempre in quell'epoca, strumentalizzate per mesi e mesi ai fini della propaganda anti-"slavocomunista". Tuttavia, sempre in quell'epoca, la cifra fu "arrotondata" e portata alle 350-400 unità con l'aggiunta ad occhio e croce di salme che non poterono essere recuperate e di cosiddetti "scomparsi". Nel secondo dopoguerra gli storici più seri, al di là degli orientamenti politici, hanno calcolato che le vittime ammontarono a circa 500. Su questa cifra concordano S. Millo autore del volume I peggiori anni della nostra vita, Galliano Fogar, Roberto Spazzali, ed altri.

Altri storici, fra cui in particolare ex fascisti o neofascisti, invece, sparano cifre che vanno dagli 800 di Gaetano La Perna, per salire via via a mille, alcune migliaia. Naturalmente "tutti italiani" e tutti vittime della "barbarie slavocomunista". Luigi Papo ex ufficiale della Milizia fascista al servizio dei tedeschi in Istria, il più fecondo "storico" delle foibe di estrema destra, è arrivato a scrivere che gli "eccidi" portarono alla «eliminazione del 5 per cento degli Italiani»! Insomma, si sono toccati livelli incredibili di esagerazioni e di falsificazioni. Queste mistificazioni non fanno certamente onore ai vivi che vedono travolta la realtà dei fatti, né fanno onore ai morti. Dietro c'è una voglia di giustificazione del tradimento, del collaborazionismo e dei crimini di guerra commessi dai fascisti. Più avanti fornirò alcuni esempi di come sono stati falsificati perfino gli elenchi nominativi degli infoibati per poter aumentare le cifre.

Ma prima è opportuno ricordare un altro fatto storico della vicenda istriana dell'autunno 1943, anche per rispondere a coloro i quali affermano che il «genocidio degli italiani in Istria è rimasto impunito». Alla breve parentesi dell'insurrezione popolare e della sanguinosa violenza che l'accompagnò, fece seguito l'ancor più feroce violenza degli occupatori tedeschi e dei collaborazionisti fascisti italiani. Dilagati in Istria con ingenti forze dal 2 al 10 ottobre, guidati dai fascisti locali, i tedeschi fecero terra bruciata appiccando il fuoco a decine di paesi, fucilando, impiccando, deportando. Nel solo mese di ottobre 1943 – stando ai loro bollettini di guerra – trucidarono 5.216 persone, in maggior parte civili e partigiani, ma anche parecchi "badogliani". Altre diecimila persone (certe fonti parlano di dodicimila) furono invece deportate. Per inciso l'Istria ha dato oltre 17.000 morti tra vittime della repressione nazifascista morti nei lager e caduti nella Resistenza armata.

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ANNA DI GIANANTONIO
Luoghi comuni da rivisitare
Memoria e contesti generali al confine orientale



Quello che oggi appare indispensabile nella scuola — riguardo all'insegnamento della storia — non sono forse pratiche didattiche improntate ad una maggiore attenzione psico pedagogica oppure semplificazioni e riduzioni di programmi o enfatizzazioni degli aspetti sociali e di costume della materia, ma, al contrario, sembra esserci necessità di visioni vaste, di linee d'orizzonte, di sguardi generali, di problemi da risolvere che vengano esplicitati e messi sul tappeto, di metodi di analisi e di confronto che colleghino, seppure con tutte le cautele del caso, i problemi di oggi alle loro radici passate.

A mio avviso il problema del revisionismo storico non si gioca tanto nella dialettica tra visioni di "destra" o di "sinistra" della storia.

Davanti a distorsioni od omissioni di vario genere un insegnante, attento e curioso, è in grado, con una certa facilità, di porre rimedio, integrando o discutendo le informazioni che i ragazzi ricevono dai manuali o dai mezzi di comunicazione di massa.

Mi pare invece che il revisionismo di cui si debba essere più consapevoli si annidi piuttosto nei presupposti profondi e non espliciti del discorso storico, nel "non detto" di alcuni studi.

Il revisionismo più pericoloso si situa, a mio avviso, nel nascondimento o nella minimizzazione dei rapporti di forza e dei meccanismi di potere, di esclusione, di emarginazione sottostanti al divenire storico e nella negazione — che appare tanto più evidente nel contesto locale della legittimità per settori sociali, politici e per singoli intellettuali di pensare in modo differente a concetti quali "patria", "nazione", "potere".

Probabilmente non è solo il nozionismo che allontana i ragazzi dallo studio della disciplina, quanto il suo aspetto asettico, il divenire mondato «dalle lacrime, dal sangue e dal rumor di catene» che spesso fa da sfondo ai quadri di civiltà che vengono offerti ai ragazzi.

Una storia politicamente corretta, che rigetta la lotta per il potere e confina la violenza in un passato ormai del tutto archiviato da condannare moralmente, che edulcora la realtà e non riesce a comprendere e a spiegare quanto invece i ragazzi vedono e vivono quotidianamente, né a mettere in luce fratture, continuità e questioni aperte ancora da risolvere, non è una storia che possa appassionare.

Ciò che fa crescere l'attenzione degli alunni è il «rumore del campo di battaglia», ma anche le relazioni concrete tra esseri umani, le emozioni, le passioni, le complessità degli accadimenti, gli «ambigui vincoli tra forti e deboli», che condizionano ancor oggi i rapporti sociali.


Cos'è il revisionismo. Spunti e riflessione attorno ad alcuni autori, alcuni volumi e alcune ipotesi di studio.

Nel volume Il revisionismo storico. Problemi e miti, Domenico Losurdo adotta una definizione del revisionismo che offre un contributo, a mio avviso, importante anche per comprendere i problemi della storiografia del confine orientale.

Losurdo definisce il revisionismo come il tentativo di relativizzare l'orrore del nazismo e della soluzione finale che vengono giudicati - Losurdo commenta nel suo volume, tra le altre, le posizioni dello storico tedesco Ernst Nolte - una conseguenza del cosiddetto Terrore Rosso del 1919-1920. Senza il gulag - secondo Nolte - non sarebbe stato possibile il campo di sterminio, che nasce come risposta alla paura della rivoluzione russa.

Per Francois Furet, allo stesso modo, i crimini del Terzo Reich, almeno sino al 1941, furono molto inferiori a quelli attuati in Unione Sovietica.

Lo storico francese afferma che il "fenomeno staliniano" chiama in causa direttamente la rivoluzione francese e la tradizione giacobina.

Θ dalla Francia del 1789 che il virus di una specie nuova e sconosciuta - come definiva la rivoluzione Alexis de Toqueville - comincia ad infuriare nel Novecento.

Le due rivoluzioni - quella francese e quella russa - sono accusate di essere due sistemi identici di meticolosa coercizione del corpo e dello spirito contro cui fascismo e nazismo, ultimi totalitarismi - che potremmo definire "difensivi" - si sarebbero contrapposti.

Losurdo sostiene dunque che il revisionismo è un movimento storiografico, culturale e politico, il cui scopo è la demonizzazione dell'intero ciclo rivoluzionario che va dal 1789 al 1917. Fascismo e nazismo sarebbero dunque nient'altro che tentativi di difesa dal morbo rivoluzionario, scatenatosi in Europa dalla fine del 1700, seguito dagli avvenimenti del 1848, divampato tragicamente nella Comune di Parigi ed infine incistatosi come un tumore dopo il 1917 in Russia.

Per molti pensatori liberali le rivoluzioni giacobine erano guidate da «idee geometriche che in nome di astratte teorie sacrificano la vita del singolo»: era nel liberalismo che si incontravano invece nuove concezioni che esaltavano l'individuo, la sua libertà personale e le sue peculiari caratteristiche.

Davanti all'equiparazione tra totalitarismi e alla valutazione del liberalismo come l'unico pensiero e sistema politico garante della libertà, Losurdo suggerisce di usare come strumento di verifica il metodo comparativo, sottoponendo i sistemi politici, fascismo, nazismo, comunismo, ma anche liberalismo - che spesso risulta indenne da ogni critica, costituendo piuttosto il contesto muto da cui si parla - ad una valutazione complessiva, anche dal punto di vista della violenza, della coercizione, dell'uso dello sterminio e del terrore; questo non certo per ridistribuire più equamente le colpe, quanto al contrario per imparare ad analizzare i diversi contesti politici e le loro interrelazioni e per rintracciare con maggiore precisione il dibattito interno allo stesso pensiero liberale, dibattito né pacifico, né scontato, anche se presenta dei tratti comuni su alcune questioni di grande importanza.

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