Copertina
Autore António Lobo Antunes
Titolo Che farò quando tutto brucia?
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2004, I Narratori , pag. 528, cop.fle., dim. 140x220x35 mm , Isbn 978-88-07-01661-5
OriginaleQue farei quando tudo arde? [2001]
TraduttoreVittoria Martinetto
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe narrativa portoghese
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Pagina 11

capitolo



Ero certo di aver fatto quel sogno la sera prima o quella precedente

la sera prima

e per questo, senza svegliarmi, pensavo

— Non vale la pena preoccuparmi conosco già la storia

disinteressato a episodi che sapevo falsi

— Sto dormendo

mi avevano spaventato ieri, non mi spaventavano più

— Perché tormentarmi, tutte menzogne

conscio della posizione del corpo nel letto, di una piega del lenzuolo che m'infastidiva sotto la gamba, del cuscino

come sempre

che scivolava fra il materasso e la parete, le dita

indipendenti, per conto loro

lo cercavano, lo afferravano, lo tiravano su di nuovo, lo piegavano sotto la guancia che a sua volta ci si piegava sopra, quale parte di me il cuscino, quale la guancia, le braccia si avvinghiavano alla federa e io osservando le braccia

— Sono mie

stupito che mi appartenessero, conscio che uno dei platani del cortile, di notte una macchia nel vetro e adesso nitido, mi entrava nel sonno sollevandomi la testa

soltanto la testa visto che la piega del lenzuolo continuava a infastidirmi

in direzione della finestra e poi della stanza dove il medico scriveva una diagnosi o un referto

la scrivania, la sedia e l'armadio vecchi, la porta sempre aperta attraverso cui i malati spiavano chiedendo sigarette, con la barba lunga, con gli occhi morti

non sono mai riuscito a mangiare gli occhi dei pesci al ristorante, mio zio brandiva la forchetta e io cieco, a gridare

non mi danno retta, nessuno mi dà mai retta, gli infermieri si limitavano a spingermi fuori

- Via via

e i pesci seduti sulle panche, con la mano tesa, a chiedere sigarette, lo zio immobilizzando la forchetta

- Non ti piacciono gli occhi, Paulo?

la scrivania, la sedia, l'armadio, il medico a firmare qualcosa, a fissarmi, ad afferrare veloce la forchetta, ad avvicinarla al pagello o all'orata, mi piacciono gli occhi zio

- Domani puoi andartene a casa

e a mano a mano che mi svegliavo e un piccione dondolava su e giù sopra un ramo del platano la piega del lenzuolo smetteva di infastidirmi, il pesce che sono si separava dal cuscino che in fondo non sono, lo zio retrocedeva divertito verso il sogno della sera prima dove gronghi enormi, trasformati dalle pillole in bambole di pezza, mi chiedevano sigarette

- Non ti piacciono gli occhi, Paulo?

per esempio l'affogato alla mia sinistra che riaffiorava alla superficie del copriletto con una lentezza di marea, la moglie lo veniva a trovare la domenica con un sacchetto di pesche e lui rifiutando le pesche con una tensione di corda, senza completare il gesto

- Hai portato le sigarette Ivone?

mia madre Judite, mio padre Carlos, il medico, non questo, uno più grasso,

mi ricordavo della sua cravatta rossa quando mi avevano ricoverato, di una zingara che gridava

o ero io che gridavo?

il medico

- Come si chiama tua madre?

così come mi ricordavo dei pompieri chiamati dalla signora Helena che mi afferravano per i polsi

- Calmo, ragazzo

tanti piatti ancora da rompere in cucina, il vaso di fiori intatto, le lancette dell'orologio che sorvegliavano lo stufato

- Distruggici

se mi aiutassero i pompieri invece del medico più grasso con la cravatta rossa, non in questo studio, in una stanza senza finestra né armadio dove la zingara o io gridavamo oppure nessuno dei due, il rumore del vasellame

- Come si chiama tua madre?

mia madre Judite mio padre Carlos

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Pagina 16

— Mamma

e io pensavo speriamo che gli psicologi o gli studenti o i clienti della discoteca non se ne accorgano, dove saranno le figurine della torta, dove sarà il diadema, uno degli zingari comparve con una bacchetta e a suon di musica guidò i cavalli verso la pineta, rimpicciolirmi sotto i mobili come il cane che perdeva peli e schizzava urina, è tuo questo Carlos e mio padre zitto a tirargli pietre per costringerlo a scomparire dietro un angolo mentre il coccodrillo

— Mamma

non mi lasciate solo quando chiudete le persiane e l'uomo del tovagliolo

— Judite

non un uomo, fette di uomo nelle fessure delle persiane, guidatemi a suon di musica come i cavalli verso la pineta, il coccodrillo insisteva sulla soglia

— Lasciatemi rimanere con voi

spiegare loro che non sono io, che non ho colpa se lui si attacca alle loro gambe, le fette di mia madre ad aumentare, la metà degli occhiali indagando dalle fessure

- Hai sentito i cardini tu?

mi parve di vedere fette di bottiglia che venivano riposte in fette di credenza, si udivano gli aghi di pino e il fiume sotto il pontile a succhiarsi i denti con la lingua, sollevarono le fette di bottiglia e l'uomo del tovagliolo comparve con la bottiglia intera sulla soglia, seccato, grattandosi

il frigorifero con sopra il nano di Biancaneve, quello col piccone in spalla che comanda tutti gli altri, il nano a mia madre

— Non si sente nulla Judite devono essere stati i cavalli

che trottavano su uno sterpeto dove c'erano tende, carrozze, la bottiglia si divise di nuovo, sulla credenza, in striscette quasi nemmeno più vetro adesso, un altro reggiseno, barattoli di creme, uno stivaletto da donna sulla mensola più alta della dispensa, lanciato contro mio padre con l'inerzia del disprezzo, la lentezza delle alghe e dei ciottoli nell'acqua, non capisco se arrivano a muoversi o se sono le ombre

— È tuo questo Carlos?

che fanno scorrere il palmo sulla superficie delle cose allo stesso modo in cui è il marciapiede a rimanere indietro, non il treno, noi fermi e intanto un sospiro di vapori e di metalli, la banchina che si allontana, e lo stesso accade con il tempo, con la morte, le facce dei defunti a portata di mano e insieme lontanissime, più serie, più dignitose, se mia madre

— È tuo questo Carlos?

mio padre senza rispondere nella cassa da morto e io a difenderlo ridendo, gli avevano messo una cravatta, una camicia senza pizzi, un panciotto che lui avrebbe detestato, lo avevano pettinato come prima delle piume, dei lustrini e della parrucca, la figurina a tagliare la torta di nozze nella fotografia, con la guancia contro la guancia di mia madre e nel frattempo la mia guancia contro il cuscino, con il platano che mi strappava fuori dal sonno, conscio della posizione del mio corpo nel letto, dell'odore della creolina con cui lavavano il pavimento

— Domani puoi andartene a casa

e a casa il mastello in attesa del giorno in cortile

— Controlla se il figlio del finocchio è ancora là fuori

e a casa

— Hai sentito i cardini del cancello?

l'altra casa, quella della piazza del Principe Real deserta, la bara di Rui alla sinistra di mio padre, una cravatta, una camicia senza pizzi e un panciotto identici, non e morto come il pagliaccio

le scarpe di entrambi, separate dai pantaloni, a indicare il soffitto

lo hanno trovato sulla spiaggia con il cane col fiocco che lo annusava o abbaiava alle onde

senza annusarlo e senza abbaiare alle onde, girava, eccitato, intorno a una canna o a un collo di bottiglia, a casa di mio padre erano i disegni del tappeto a interessarlo, ore e ore a contemplare losanghe

— Pussa via

il poliziotto a me

— Sai chi è, lo conosci?

quattro paletti e una corda intorno al corpo di Rui, i fari delle auto lo puntavano come a teatro, fra qualche istante prima tamburi, poi musica, poi silenzio perché la musica si è inceppata, poi una corsa invisibile, poi

— Non imparerai mai idiota

poi

— Non è colpa mia hanno interrotto il nastro

poi musica forte, un ovale di luce sul sipario con tracce di bruciature, mio padre con le gambe all'aria e un diadema che gli scivolava sull'orecchio a cantare con le braccia incrociate sul petto perdonando peccati, mia madre rigirava fra le mani il diadema cui mancava qualche brillante

— E tuo questo Carlos?

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Pagina 76

capitolo



Di pomeriggio mi sedevo nel cortile di casa senza pensare a niente, senza sentire niente, senza guardare niente, il tempo grazie a Dio immobile, solo io libera per sempre da ciò che mi limitava e mi legava, libera da me stessa, le nubi gialle dalla parte dell'acqua e blu dalla parte dei pini, neutre, tranquille, la notte che non arrivava il mattino che non sarebbe venuto, se mi chiamavano

- Judite

se mi chiamavano

- Donna Judite

li detestavo perché mi obbligavano a esistere come loro rendendomi conto che la solitudine era finita a partire dal momento in cui potevano offendermi con le loro mani, le loro voci, le parole che qualcosa in me capiva senza che io le capissi e alle quali qualcosa in me rispondeva rimanendo io muta, mi accorgevo dell'assenza di mio marito e di mio figlio e nessun desiderio di rivederli, vedevo gli aironi e mi bastava, le onde arrivare e partire e il mio passato arrivare e partire insieme a loro in un viavai sprovvisto di significato e di importanza, io piccola quando mio padre tornava dal tempio dissertando su Geova e il sangue dell'Agnello, convinto di conoscere il sangue dell'Agnello e il sangue dell'Agnello era nel mio sangue che scorreva, io adolescente, qui a Bico da Areia, ad ascoltare nel buio le piante che soltanto nelle tenebre ci parlano e non parlavano di religione né della Bibbia, parlavano di se stesse come quelli che mi chiamano

- Donna Judite

è di se stessi che parlano, del loro egoismo, della loro paura, io maestra di bambini ad Almada, quasi della loro stessa età, ma preoccupata della primavera in cortile e del modo in cui aprile si faceva strada fra le mie cosce e mi obbligava a peccare contro la religione di mio padre conducendomi le dita, perfino durante le lezioni, per minuscoli luoghi di fiamme promessi all'inferno che io ignoravo di possedere, io di nuovo a Bico da Areia, arrivata in autobus all'ora di cena in cui mio padre si rimetteva la cravatta e in piedi, a capotavola, recitava i salmi, bevendo nella pineta di nascosto da noi, così se mi chiamavano

- Donna Judite

li disprezzavo come disprezzavo mio padre e il sangue dell'Agnello per lui dentro una bottiglia e per me quello che scendeva, fra due lune, dai miei fianchi al lenzuolo, mio padre e i discorsi sul Signore, i Suoi vangeli e i Suoi apostoli, il Purgatorio che nelle sue parole erano solo immagini che mi rifiutavo di guardare e dove vivevo bruciando in segreto afflitta dai rami dei mandorli e dagli occhi degli uomini che mi vibravano senza posa lungo i nervi, gli occhi, i gesti, gli odori appiccicosi nascosti sotto i vestiti con cui si avvicinavano a me seduta in cortile senza pensare a niente, senza sentire niente, senza guardare niente, senza alterarmi quando

- Donna Judite

- Ho qui il denaro donna Judite

- Non sono come gli altri donna Judite, io non ripago i favori fuggendo via

la spiaggia indifferente quanto me e la città in lontananza, nubi gialle dalla parte dell'acqua che diventano bianche a mano a mano che il mio nome si trasforma in quello che loro si aspettano e finge pure di aspettarli, in quello che si attarda con loro lasciando me qui, macchie più scure dove sulla bassa marea un promontorio, arbusti dove le anatre selvatiche e le rondini di mare, una specie di silenzio in cui io

l'altra

dopo immobile, mi ricordo del tempo in cui mio padre mi avvertiva tormentato dalle visioni, con la mano sulla mia spalla che aumentava le frasi, della severità e dei castighi dell'Angelo, non io, l'altra, donna Judite, a tirarsi su dal cuscino, a prendere la camicetta a imbattersi in me nello specchio, a ordinarmi indicando il sacchetto del pane

- Metti via i soldi che abbiamo guadagnato Judite

le dita di lei vuote e le tre banconote fra le mie, chiudere i bottoni, indossare la gonna, infilarmi le scarpe prima di aprire la porta a mio figlio

no, mio figlio sono vent'anni che non, non ho nessuno cui aprire la porta

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Pagina 140

capitolo



Abitavamo vicino a Sintra e quando la domenica mio padre ci portava a Cabo da Roca annunciava sempre è qui che il mondo comincia, questo è il principio del mondo, io mi guardavo intorno e soltanto la desolazione del vento, rocce, arbusti che si piegavano e il mare in basso, il vento più forte del mare perciò solamente il rumore del vento, non il rumore delle onde, l'Europa intera dietro di noi, l'Uruguay e il Canada da inventare, quello che mio padre diceva spinto lontano insieme alle nubi, nulla esisteva tranne noi e il piede della prua delle caravelle della maestra di scuola che tastava il vuoto cercando un gradino d'isola da scoprire in un mare di tenebre, c'era Sintra e al di là di Sintra Madrid o la Francia fra molto tempo, non adesso, adesso mio padre che si faceva una doccia perché nel finestrino dello scaldabagno invece di un petalo una corolla intera, mia madre ci versava la minestra, ci faceva tacere, ci

– Non giocare con la forchetta Otília

tutti i giorni della settimana

(e noi con moltissimi giorni della settimana da consumare, venerdì, giovedì, domeniche, non ricordo, ad esempio, una quantità altrettanto grande di venerdì come a quel tempo

– Non giocare con la forchetta Otília)

mercoledì e martedì e sabati, quello che non mancava erano giorni, parlatemi di un giorno qualunque e ve ne mostro una pila, prendete i giovedì, prendete le domeniche con Otília che giocava con la forchetta all'ora di cena, aveva appena finito di giocare con la forchetta che si sposò, mio padre venne investito e il petalo dello scaldabagno non si trasformò mai più in corolla, poi l'America dev'essere cominciata perché film e cose così, era appena uscito mio padre che il mio patrigno entrò con la valigia

– Buonasera

mia madre a lui

– E una settimana che mi sono liberata di Otília e mi è rimasta l'altra con le stesse manie, accidenti, lascia stare quella forchetta Gabriela

cominciai a lavorare nella mensa dell'ospedale e la quantità di giorni diminuì immediatamente, se mi chiedete i lunedì devo rubarli al calendario visto che non ne ho quasi più, il giorno dello stipendio mi accompagnava il mio patrigno in segreteria e ritirava il denaro

– Te lo metto via io non ti preoccupare

e lo metteva via con tale efficienza che non lo vedevo mai, mia sorella di tanto in tanto un paio di scarpe, una camicia con le ancore e i pesci che al marito non piace, immagino che Cabo da Roca e le rocce e il vento siano ancora laggiù, lungo la strada per Malveira, mio padre con nostalgia del mare a volte sull'autobus

– Quando andiamo a guardare le onde Gabriela?

io non so se incuriosita se contenta lo cercavo e nessuno, il bigliettaio

– Ha perso qualcosa signorina?

mio padre di ritorno dalla fossa duecentoquarantotto del cimitero di Sintra, non lapidi, terra e un numero conficcato su un bastone fra dozzine di numeri conficcati su bastoni, dopo la vecchia stazione dove facevamo finta di vendere biglietti dallo sportello senza grata, dopo il terreno abbandonato dove il circo a dicembre, se rimanessi immobile udirei le tigri di notte, un cinese con la matita dietro l'orecchio dava loro da mangiare polli d'allevamento, anch'io aprivo la bocca con voglia di pollo e mio padre ostinato, dimenticatosi di essere morto, con la mania di camminarmi al fianco senza che riuscissi a toccarlo, mi arrivava il suo odore, vedevo la corolla del gas

– Quando andiamo a guardare le onde Gabriela?

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Pagina 216

il tempo mi ha insegnato che non esiste nulla di tanto volatile quanto il dolore

e la prova che non esiste niente di tanto volatile quanto il dolore sta nel fatto che il medico alla prima visita, annunciando il glaucoma, aveva dichiarato con solennità fraterna lotteremo tutti e due con coraggio e queste gocce al mattino e alla sera e all'ottava o alla nona visita l'ho udito attraverso la porta dello studio sospirare all'infermiera dica all'orbo di entrare, l'infermiera prima di soffocare la risata in bagno entri signor orbo, mentre proseguivo con l'articolo verso il mio tavolo nell'angolo più distante dalla finestra dove nemmeno un pezzettino di cielo, un orizzonte di tavoli, pinzatrici, gomme per cancellare e ritagli di giornale sul muro, il capo ai colleghi quel disgraziato ce la mette tutta ma sessantadue anni non sono uno scherzo, non avete notato che la sua macchina da scrivere cade a pezzi e le mancano lettere, quasi l'intero alfabeto, ci presenta cartelle con i resti di naufragio di una mezza dozzina di vocali che galleggiano a casaccio e io, senza capire la sua eloquenza sfilacciata, i cadaveri di consonanti alla deriva, i detriti di emozioni e di sentimenti che gli sono avanzati in vecchiaia, ottimo, la gente legge ed è come se vedesse la scena, dove le andrai a trovare certe idee amico, da qualche giorno a questa parte per non andare più lontano

e per quanto lo riguarda può andare molto lontano che gli abissi dell'età sono infiniti

non trova niente di meglio che ingombrarmi la scrivania con la storia di certi mulatti e di un travestito mescolati a un tacchino nel forno, a un tugurio a Bico da Areia e a una genziana defunta, a una mocciosa di quattro o cinque anni che gioca alla settimana sulle lapidi di un cimitero di provincia

capite la confusione?

saturato dall'odore delle mimose, io alle prese con l'editoriale e lui quasi in braccio a me, con quell'impeto dei vecchi nelle culle delle loro sedie a rotelle, a insistere senza tregua sul reportage che è una risma di fogli pieni di quelle vocali smarrite, la creatura si chiama Soraia, signore, è stata seppellita l'altroieri, potremmo raccontare la sua vita a puntate e la tiratura, quanto scommettiamo, va alle stelle, lui mostrandomi pagine in bianco e sul bianco il travestito, il tacchino e la mocciosa del gioco della settimana definitivamente annegati, avrei potuto girare per ore e ore nei dintorni imitando una scialuppa di salvataggio senza trovare la minima traccia di gente e ciononostante il vecchio decrepito, con la speranza dei genitori che aspetteranno, fino all'ultimo giorno, il figlio divorato dai calamari, noti questo episodio a pagina cinquantasette signore, i mulatti a Príncipe Real in attesa, una piazza dove nel mio racconto, sta scritto chiarissimo, piove, dato che gocce che oscillano, ho scritto proprio così, non è venuto male mi pare, in questa riga, la decima contando dal basso e nessuna riga come c'era da aspettarsi, un punto interrogativo a un terzo della pagina, a sinistra, una virgola qualche centimetro più avanti e lui orgoglioso, ecco, qui, gocce che oscillano dal cedro, guardi le luci spente del caffè con la macchina delle sigarette accanto alla vetrina e la giacca con i bottoni gialli del padrone appesa a un chiodo, guardi gli alberi in latino, guardi il cedro e la panchina sotto il cedro dove il figlio del travestito si sedeva aspettando che il padre

guardi Soraia in quest'angolo

un accento grave e una maiuscola assente che il nastro non aveva stampato

che ritorna dalle discoteche della Rua da Imprensa Nacional, certe cantine con gradini in penombra e al fondo dei gradini musica, le ballerine, la birra a buon grezzo, la cameriera

donna Amélia

con un vassoio di cioccolatini, profumi e sigarette americane, il paradiso dei puri di cuore, omosessuali, viziosi, malinconici, trasformisti, lesbiche e solitari come me che hanno perso il loro amore ideale trentacinque anni

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Pagina 290

capitolo



Non dico tutti i giorni, ma almeno una volta alla settimana veniva a trovare mio marito e me, nell'appartamentino che era stato di mia suocera dove abitavamo quasi di fianco al castello, udendo i pavoni che ci impedivano di dormire gridare da otto secoli, fra l'edera dei merli, abbasso i saraceni viva il Portogallo, mio marito cui il medico aveva prescritto riposo e una dieta

niente fritti e questo flacone di gocce per il gonfiore alle gambe, dieci dopo pranzo e dieci dopo cena in mezzo bicchiere d'acqua con un pizzico di zucchero, che sono amare intesi?

mio marito metteva sul balcone latte di meliga mescolata a veleno per scarafaggi protestando non sopporto quelle bestie ma erano i gabbiani a morire, non i pavoni, il giorno dopo gabbiani penzoloni sui peschi o affogati nelle mangiatoie dei pollai spaventando le oche, i pavoni intatti sulle torri abbasso i saraceni viva il Portogallo e mio marito a mia suocera, rovistando nel baule e trovando foto del bambino che era morto dentro di lui e continuava a morire a ogni nuovo capello bianco, a ogni nuova ruga, a ogni nuovo spasmo dell'ernia, dov'è finito il fucile di papà, mamma, una canna mozza che spuntava dal calcio con cui molti anni prima lui spaventava i vicini facendo pum con la bocca, scendere tre piani con il fucile, fare pum ai pavoni, magari i pavoni, come capitava con i vicini, si sarebbero portati la mano al petto, avrebbero rovesciato gli occhi e dichiarato mi hai ucciso finche lui non se ne andava, contento, il castello in silenzio, consegnava l'arnese alla madre vantandosi non c'è stato nemmeno bisogno di premere il grilletto per stendere i pavoni, visto? il bambino faceva capolino per un attimo e gli si installava di nuovo sulla faccia, con il colletto ricamato, in grembo alla madrina che non avevo conosciuto e che mi assicurava dalla cornice, smettendo di sorridere nel vedermi, non sei la donna per Alvaro, e forse davvero non ero la donna per Alvaro dato che ci siamo conosciuti non nella cantina dove lavoro adesso, che non esistevano cantine del genere a quei tempi, ma in un locale di periferia dove si dimenticavano le miserie della vita che invece di progredire regredisce accidenti, con festoni di carta, birra a buon prezzo, una fisarmonica e un pianoforte su un palco, io a diciassette anni

anzi sedici e malgrado avessi paura del buio e dormissi con una gallina di bachelite che si tirava un cordino e agitava le ali e le usciva un uovo di vetro, un corpo da trenta e una faccia da trentacinque che mi spaventavano perché mi sembrava di essere la matrigna di me stessa, ordinandomi getta via quella gallina Amélia che non ha nemmeno il becco, sedici anni e la professione di stare seduta, sotto i festoni di carta e le farfalle delle lampadine, in attesa degli uomini per i quali la vita regrediva soltanto accidenti, di ballare con loro, di ascoltare le loro lamentele, si è mai vista scalogna peggiore della mia porca miseria, di coricarmi per consolarli in una delle stanze del retro pensando speriamo non spengano la luce, la gallina di bachelite, decisa a proteggermi, a portata di mano finché mio marito una sera, senza osare avvicinarsi, annientato di timidezza al bancone con l'aria smarrita della fotografia del baule, capace di tirare il cordino e di rimanere incantato davanti all'uovo come si meravigliava della fisarmonica e del pianoforte, passando ore e ore noncurante del boccale di birra ancora pieno a seguirmi con lo sguardo quando durante un valzer o un tango partivo accompagnata da un uomo per il quale la vita accidenti verso una delle stanze del retro, dove talvolta un uovo di vetro cadeva solitario in silenzio e ci scommetto che il bambino della fotografia lo sentiva, tante volte avevo tirato il cordino per lui senza che mio marito immaginasse che ogni uovo era il mio modo di pronunciare il suo nome che ignoravo, tiravo il cordino e gli uomini per i quali la vita accidenti non sono qui per contemplare il tuo pollo, mentre io aspettavo che le loro ali smettessero di agitarsi e mi concedessero puoi andartene Amélia, cercando quel che rimaneva di sé nelle lenzuola e che a me sembrava una paura del buio simile alla mia gli uomini a raccogliersi tentoni pensando di raccogliere i vestiti, guarda una gamba, un gomito, un dito mignolo che credevo di aver perso, buffo, riunendosi fino a formare una creatura che lottava con i legacci delle scarpe ingarbugliati e una voce dal buio più buio dove minacce di streghe ma alla fine alberi, boscaglia

— Lasciami vestire in pace

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