Copertina
Autore Adriano Aprà
CoautoreP. Pistagnesi, G. Cavaggioni, T. Masoni, V. Fantuzzi, A. Standola, L. Buffoni, al.
Titolo Marco Bellocchio
SottotitoloIl cinema e i film
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, Saggi , pag. 336, cop.fle., dim. 155x213x21 mm , Isbn 978-88-317-8700-0
CuratoreAdriano Aprà
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe cinema , biografie
PrimaPagina


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Indice


IL CINEMA

 11 Tormenti, estasi, rigenerazioni.
    Una panoramica sull'opera di Marco Bellocchio
    di Adriano Aprà

 22 Il cinema di Bellocchio e la psicoanalisi:
    cenni di una ricognizione
    di Patrizia Pistagnesi

 36 Ipotesi di un rapporto:
    Bellocchio e l'analisi collettiva
    di Gabriele Cavaggioni

 56 La virtù adolescenziale.
    Forme della politica nell'opera di Bellocchio
    di Tullio Masoni

 70 Marco Bellocchio:
    tra sacralità e dissacrazione
    di Virgilio Fantuzzi

 92 «Stare sul corpo»:
    la visione dell'attore
    di Alberto Standola

107 A rebours.
    I documentari di Bellocchio
    di Laura Buffoni


I FILM

129 I primi cortometraggi
    di Luca Mazzei
135 I pugni in tasca
    di Emiliano Morreale
141 La Cina è vicina
    di Giovanni Spagnoletti
147 Nel nome del padre
    di Bruno Di Marino
151 Discutiamo, discutiamo.
    Sbatti il mostro in prima pagina
    di Flavio De Bernardinis
156 Marcia trionfale
    di Alberto Pezzotta
161 Il gabbiano
    di Paolo Spaziani
167 Salto nel vuoto
    di Orio Caldiron
171 Gli occhi, la bocca
    di Antonio Costa
177 Enrico IV. L'uomo dal fiore in bocca
    di Marco Vanelli
182 Impressions d'un Italien
    sur la corrida en France
    di Dario Marchiori
185 Diavolo in corpo
    di Fabrizio Natalini
190 La visione del sabba
    di Vito Zagarrio
195 La condanna
    di Stefania Parigi
201 Il sogno della farfalla
    di Roberta Vespa
205 Il principe di Homburg
    di David Bruni
209 La balia
    di Sandro Bernardi
214 L'ora di religione
    di Luciano De Giusti
219 Buongiorno, notte
    di Paolo Mereghetti
223 Gli ultimi cortometraggi
    di Sara Leggi


STRUMENTI

229 Biografia
    di Sara Leggi
237 Filmografia
    di Adriano Aprà e Sara Leggi
267 Bibliografia
    di Sara Leggi

 

 

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Pagina 11

ADRIANO APRÀ
TORMENTI, ESTASI, RIGENERAZIONI
UNA PANORAMICA SULL'OPERA
DI MARCO BELLOCCHIO



Una panoramica a sinistra di 360° apre il primo film girato da Marco Bellocchio fuori dal Centro Sperimentale, Abbasso il zio. Scorre lungo il muro di cinta di un minuscolo cimitero, cogliendo al di là una croce, che sembra anche una falce, portata via da un ladruncolo (dice la voce fuori campo), e scoprendo alla fine, appoggiati al di qua del muro, una falce e un rastrello che prima non c'erano, magicamente comparsi. Verrebbe voglia di dire che in questa piccola performance tecnica è sintetizzato gran parte del suo cinema: il muro, che racchiude e insieme separa, come tante mura, pareti, porte e finestre dei suoi film futuri; la croce, ossessione religiosa sempre respinta e sempre presente; la falce, che è la morte, sì, ma anche, con il rastrello (o con il martello), lo strumento del lavoro contadino, della classe lavoratrice (quindi della «politica»), e insieme il segno di quella cultura agricola provinciale, piacentina, da cui ci si distacca e alla quale ossessivamente si ritorna.

Il cinema di Marco Bellocchio è attraversato da costanti che, pur evolvendo, riemergono di film in film, tanto da poter costituire un temario di impressionante coerenza; nello stesso tempo, ogni film è stilisticamente diverso dagli altri, come per affrontare ciò che brucia dentro dal maggior numero di angolazioni possibile, e così facendo estrometterlo, oggettivarlo, consegnarlo al «mondo».


Solo violenza aiuta?

Dopo le rozze prove al Centro Sperimentale, La colpa e la pena e Ginepro fatto uomo, dove tutto è detto e nulla è messo in forma (a riprova dell'inutilità della scuola), Bellocchio esplode con I pugni in tasca. Il film è segnato dalla irrequietezza gestuale di Lou Castel, inasprita dal montaggio ellittico. Questa gestualità inventata è forse la vera novità del film rispetto al cinema italiano dell'epoca. Sandro/Sandrino/Alessandro/Ale: neppure il nome riesce a stabilizzarsi. Il film, pur ruotando attorno al corpo dell'attore, è preda, poiché non sta mai fermo, di un'agitazione nervosa, che lo alimenta, lo trascina, lo esalta e infine lo travolge e lo arresta: dopo il «canto», in un fotogramma fisso e una coda nera. Il gesto iniziatico di Bellocchio si libera con violenza di patria, religione, famiglia, adolescenza, sentimento, raziocinio, cultura; troppo in fretta e troppo bene, se deve sacrificare, sia pure con una morte bella, il suo sovversivo.

Con La Cina è vicina Bellocchio si mette a ragionare. La prosa si sostituisce alla poesia. Dall'esasperazione tragi-comica si passa alla commedia. Il nido di vipere viene addomesticato, suddiviso e ricomposto nelle sue parti, analizzato: «sceneggiato». Camillo replica, senza crederci, qualche gesto di Ale; ma non è più il centro dell'attenzione. Nessuno del resto lo è. Tutti i personaggi sono antipatici, tutti distanziati da uno sguardo che vuole mettere ordine e capire. Si ha l'impressione che Bellocchio si sforzi, volontaristicamente, di cercare un equilibrio: di costruire dopo aver distrutto. Ma il racconto, la narrazione consequenziale, non riesce a essere controllata sino in fondo, come pure si vorrebbe.

Meglio allora la farsa dichiarata di Discutiamo, discutiamo, che in presa diretta sugli eventi si fa beffa insieme del Sessantotto chiacchierato, del Centro Sperimentale (dove viene girato l'episodio) e dell'Ital Noleggio (che dà soldi gettati al vento in un'impresa «amatoriale»). Nel suo unico film in scope, formato giusto per un'opera «teatrale», Bellocchio riesce a iniettare veleno in ciò in cui pure, momentaneamente, crede (la sinistra extraparlamentare), a bollare il riformismo del Pci (lo studente con la parrucca) e a trasmettere comunque un'allegria giovanile lasciando briglia sciolta ai suoi improvvisati interpreti. È l'altra faccia della parentesi politica, che l'anno dopo, nel 1969, si farà seriosa, forzandosi all'ascetismo della non-forma, nei contributi ai collettivi Il popolo calabrese ha rialzato la testa e Viva il l° maggio rosso proletario. Che restano però dei documenti, per certi versi preziosi.

Il colore, pallido in Discutiamo, discutiamo, rosso-bandiera in Viva il 1° maggio, si accende in Nel nome del padre. Torna il travaglio de I pugni in tasca, che stavolta trascina con sé una foltissima compagine di facce tutte straordinariamente scolpite, su cui trionfa un Angelo che è insieme un Diavolo: un doppio inquietante, ancor di più nel suo liberarsi dalle schiavitù e dal disordine in compagnia di un proletario matto e visionario, il suo opposto e insieme 1l suo complemento. Siamo di fronte al film più caotico di Bellocchio, «senza capo né coda», fatto di bagliori improvvisi, di invenzioni «assolute», di frenesia incontrollabile; ma anche di una bellezza visiva quasi pittorica che ne compensa il dolore lacerante, di un senso esaltante della forma, già nettamente concentrata sui tre fronti della recitazione (o forse sarebbe meglio dire del casting), della luce (e delle ombre) e delle scenografie.

Sbatti il mostro in prima pagina è fratello gemello di La Cina è vicina. Ma poiché non vuol essere un film d'autore, riesce meglio del precedente a competere sul terreno di uno dei generi dominanti dei primi anni Settanta, assieme alla commedia all'italiana: il poliziottesco-politico. Rivisto oggi, è da annoverare fra i migliori di quella (peraltro infausta) tendenza, arricchito dai precisi riferimenti al contesto politico e sociale, e non solo per gli inserti documentaristici (una costante nel cinema di Bellocchio, quest'ultima, avviata con Nel nome del padre). E contiene una perla: la performance di Laura Betti praticamente nella parte di se stessa.


Confrontarsi col mondo

Ciò che Bellocchio non era riuscito a fare annullandosi nel collettivo dei marxisti-leninisti gli riesce con quello più ristretto e familiare di Nessuno o tutti. Siamo nell'ambito del cinema-verità, ma come è noto le nuove tecniche e le nuove pratiche documentaristiche introdotte in Francia, Stati Uniti, Canada nei primissimi anni Sessanta hanno trovato da noi rarissimi seguaci. Il gruppo della «11 marzo» è solo apparentemente fra questi: tecnicamente il film è inferiore, per esempio, ai quasi coevi Diario di un maestro (1972) di Vittorio De Seta (16mm, colore e presa diretta) e Anna (1972-75) di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli (video bianco e nero trasposto in 16mm e presa diretta); ma anche se le riprese sono spesso approssimative, la forza del sentimento buca lo schermo, fino a rendere la rozzezza tecnica quasi un pregio, una mediazione in meno. Bellocchio, pur condividendo la responsabilità con altri, stavolta non inventa, ma certamente ritrova nei reclusi e negli ex reclusi qualcosa che lo ha tormentato e continuerà a tormentarlo nelle finzioni (a volte non tanto tali: il servo matto di Nel nome del padre, Tino Maestroni, lo ritroveremo identico, nella sua realtà di Bobbio, nella seconda puntata de La macchina cinema). Tra i matti e i pur benemeriti rappresentanti delle istituzioni, Bellocchio sta nel mezzo, nella soglia sottile che separa la follia che sa dire la verità dalla sanità che cerca di esprimerla artisticamente. Nel ballo che conclude il film, faccia a faccia con gli «irrecuperabili», c'è forse disperazione, senso di impotenza, ma non la sconfitta che chiudeva, anche lì con musica, il balletto epilettico de I pugni in tasca. Bellocchio si è messo alla prova, dandoci un documento che ancora ci sconvolge e oggettivando le proprie ossessioni. Ne esce salutarmente rinfrancato: ha aiutato e si è aiutato.

Il film successivo, Marcia trionfale, analizza, come il collegio di Nel nome del padre e il manicomio di Nessuno o tutti, una «istituzione totale»: la caserma. Ma se il collegio era un incubo e il manicomio rievocato dai degenti una realtà, la caserma è una metafora oggettiva. Conserva quel tanto di credibile da renderla verosimile e insieme concentra gli elementi del rapporto oppressore-oppresso, carnefice-vittima, in maniera talmente rigorosa e didascalicamente calcolata da elevarsi a exemplum: la caserma come il mondo. Bellocchio non ha più bisogno, per questa sua nuova prova in prosa, di appoggiarsi a generi «di riferimento», come ne La Cina è vicina e Sbatti il mostro in prima pagina. Né ha bisogno di soggettivare poeticamente la violenza, come ne I pugni in tasca e Nel nome del padre. Ciò che ha da dire è diventato, per lui, un dato di fatto, che si tratta di esporre in maniera piana, narrativamente coerente, ma soprattutto costruendo un teorema dimostrativo. L'esposizione è rigorosa, fatta di elementi che si oppongono, si intersecano, si scontrano, si intrecciano, si separano. I personaggi sono guardati a tutto tondo, come «caratteri» rappresentativi: il padre autoritario e fragile, la donna (più che la moglie) capace istintivamente di ribellarsi, il figlio travagliato (già con qualcosa di un «pentito»), i sottomessi. Dopo i residui naturalistici-neorealistici de I pugni in tasca e La Cina è vicina, e dopo le abbaglianti invenzioni di Nel nome del padre, il lavoro di Bellocchio sulla luce e sullo spazio si stabilizza in questo film, secondo le linee che poi saranno una sua costante: il chiaroscuro (più scuro che chiaro) e la geometria «simbolica» delle linee scenografiche, dello spazio concentrazionario.


La macchina cinema: con anima e senz'anima

L'adattamento de Il gabbiano nasce probabilmente dal desiderio di Bellocchio di tornare a problematiche personali distanziandole con la mediazione di un testo classico. Il risultato è tuttavia diverso dalle attese. Il coinvolgimento degli interpreti è tale da trasformare il set, come risulta da varie testimonianze, nel palcoscenico di uno psicodramma. Filmato con abbondanza di primi e primissimi piani (troppo tagliati dal mascherino aggiunto nel gonfiaggio per la versione cinematografica), recitato in presa diretta, e spesso bisbigliato, come se si parlasse a se stessi (o all'autore, appena mediato da un'agile 16mm) più che al partner, il film, pur rispettando il testo di Cechov, finisce per essere una confessione intima sui temi della madre, dell'amore e dell'arte. La madre castratrice è una stupenda Laura Betti, troppo forte per poter essere eliminata come ne I pugni in tasca o in Nel nome del padre (ancora la Betti); l'amore è Nina (una intensa, fragile, eterea Pamela Villoresi), un tipo di personaggio femminile che fa qui per la prima volta pienamente la sua comparsa, dopo l'anticipazione di Miou Miou in Marcia trionfale; la riflessione sull'arte, sul dilemma fra purezza di ideali e compromessi (dover essere «impegnati», doversi conquistare un pubblico), permea un po' tutti í personaggi, da Konstantin a Nina, da Trigorin a Irina e a Sorin. È probabilmente quest'ultimo elemento che consente a Bellocchio di controllare lo psicodramma, di riflettere sul proprio ruolo di mediatore fra il dilagare dei sentimenti e la loro messa in forma, di capire quanto essere artista, riconoscersi e accettarsi in quanto tale, costituisca l'argine per contenere le minacce della follia e del suicidio, il dirompere dell'inconscio. Questo film autoriflessivo, stilisticamente unico nell'opera di Bellocchio, è un superamento della illusoria oggettività di Marcia trionfale, e anche della soggettività scatenata de I pugni in tasca e Nel nome del padre: un fragile e prezioso punto di equilibrio.

Sembra logico, a questo stadio della sua crescita, che Bellocchio affronti, di nuovo col collettivo «11 marzo», il cinema direttamente: per mettere alla prova dei fatti la sua scelta di essere artista, né sperimentale né compromesso, né fallito né incoronato. La macchina cinema si immerge disordinatamente, con tecniche ancora più rozze di quelle di Nessuno o tutti, nei vari aspetti del cinema italiano del momento. Con la minitroupe ostentata in campo, con una curiosità ai limiti dell'impudicizia (e con rischi di voyeurismo), si va dall'ingenuo amatorialismo provinciale (che in Era San Benedetto rivela una tendenza pedofila nell'inconsapevole autore del filmino) a quello ipocrita cittadino (i provini semiporno); dalla rinuncia di ex attori bellocchiani (Claudio Besestri, Tino Maestroni, Marino Cenna) e non (la generica Luciana, Daniela Rocca) – con un punto di congiunzione nel provino mancato di Tina Aumont per il ruolo di Nina ne Il gabbiano (una vera ossessione, questa, che ritornerà anni dopo nei corti Il gabbiano atto I, scena seconda e Nina) – alle mascherate del «grande» cinema (dove il tentativo di Ciccio Ingrassia di «dire la verità» viene prontamente represso); sino al confronto con l'altro da sé: da una parte lo sperimentalismo puro del bucolico Franco Piavoli e del materico Paolo Gioli; dall'altro il dialogo rivelatore con Marco Ferreri, l'unico che possa competere, da par suo, con le scelte di Bellocchio.

Una sorta di appendice a La macchina cinema può essere considerato Vacanze in Val Trebbia, che conclude questo periodo di lavoro in 16mm. Si tratta di uno home movie «professionale» girato in due momenti diversi (uno più inventato, l'altro più documentaristico). Bellocchio esibisce i propri conflitti famigliari (Gisella Burinato, moglie e attrice nei suoi film dai tempi di Nel nome del padre, con una punta di eccellenza ne Il gabbiano, e il figlio Pier Giorgio) e il traumatico distacco dal «passato» di Bobbio (il vecchio cimitero visto dall'auto all'inizio è quello di Abbasso il zio, la villa da vendere quella de I pugni in tasca), sublimati dalla messa in scena di sogni regressivi (il rientro nel ventre materno: la culla e la caverna sul fiume Trebbia). Il film, benché rivelatore, resta un po' informe, come se il momento di chiudere i conti non fosse ancora maturato.


Le case dell'inconscio

Gli appartamenti de I pugni in tasca e La Cina è vicina, opprimenti, labirintici, costellati di false apertura e di provvisorie uscite, in cui ci si spia, ci si nasconde, ci si tortura, trovano il loro apogeo in quello di Salto nel vuoto, progettato da Amedeo Fago alla INCIR De Paolis con una struttura ottagonale panottica. Dove tutto è sotto il controllo paranoico del giudice Mauro Ponticelli (un controllatissimo Michel Piccoli, dalla gestualità nervosa ma repressa), ciò che è «fuori campo» assume un rilievo preciso: dal vuoto oltre la finestra che apre e chiude il film (raddoppiato con valenza opposta dal rumore fuori campo delle onde nella casa al mare di Anna dove Marta si rifugia) alle presenze reali e immaginarie dei bambini; dal barcone sul Tevere del teatrante Giovanni Sciabola (un Michele Placido dopo il servizio militare di Marcia trionfale?) alla stanza in cui si rinchiude Marta (Anouk Aimée), e da cui spesso si sente la sua voce fuori campo. Il teatro dell'inconscio, indagato nella penombra dell'appartamento, riflesso negli specchi, si raddoppia capovolgendosi in quello spudorato di Sciabola e dei bambini, e ha un suo controcanto nella luce che invade la stanza «alternativa» della domestica Anna e di suo figlio (non a caso Gisella Burinato e Pier Giorgio Bellocchio). La macchina da presa è analitica (psicoanalitica): pedina il protagonista, lo controlla, lo giudica, e infine lo espelle impietosamente dopo una panoramica di 360°. Il suicidio per Bellocchio non è più un trauma; gli interessa di più la fuga luminosa di Marta, che prolunga quella ancora notturna di Miou Miou in Marcia trionfale. Salto nel vuoto è il primo film in cui Bellocchio riesce a trovare un punto di equilibrio solido, grazie al sapiente dominio della messa in scena, tra le forze dell'inconscio e quelle della ragione, tra soggettività e oggettività.

Forte di questa esperienza, può quindi permettersi di tornare su se stesso per sciogliere i nodi che ancora lo legano al passato. Gli occhi, la bocca vuole essere una dichiarazione di guarigione. Lou Castel (che ha un gemello suicida come Bellocchio) ritorna nella casa materna, per un po' vi si perde, ne viene travolto, poi riesce ad emergerne, raddoppiando e risarcendo il fratello nell'amore per la fidanzata di lui (Angela Molina) e per la madre (Emmanuelle Riva). Il finale, fuori dalla asfissiante casa materna, in un appartamento disadorno e luminoso, è il primo esplicitamente positivo del cinema di Bellocchio. Troppo esplicito. Come troppo espliciti sono i dialoghi, irrigiditi da meccanici campi/controcampi; voluti (dimostrativi) i passaggi da scena a scena, nessuna delle quali è «tenuta» per il tempo sufficiente a svilupparsi, come avveniva invece in Marcia trionfale e Salto nel vuoto; convenzionale la musica di Nicola Piovani (un aspetto, questo, che Bellocchio affronterà e risolverà splendidamente con Carlo Crivelli). Ma c'è una figura assai riuscita di padre (Antonio Piovanelli), la prima sulla cui miseria lo sguardo si posa con quotidiana compassione, senza la pietas che comunque eleva quella di Franco Nero in Marcia trionfale o il supremo disprezzo che marchia quella di Michel Piccoli in Salto nel vuoto.

Ciò che non era riuscito a fare con Il gabbiano, distaccarsi da sé con la mediazione di un testo classico, Bellocchio riesce a farlo con Enrico IV, intervenendo abbondantemente sull'originale pirandelliano. Il gioco delle maschere, accentuato dalla musica di Astor Piazzolla, svela l'ipocrisia dei «sani» nei confronti dei «malati»; rimette in scena allegramente, nel labirinto di una casa-castello, gli arrovellamenti dell'inconscio; libera le pulsioni dalle loro costrizioni psicoanalitiche (il personaggio di Leopoldo Trieste) e sociali (Paolo Bonacelli). E per Bellocchio il segnale di un nuovo percorso, verso una più approfondita terapia.


La bellezza del desiderio

Diavolo in corpo è un film incandescente; brucia di una energia a fior di pelle, che per manifestarsi non ha bisogno di esplodere scompostamente o violentemente (come ancora nel caso della ragazza nera all'inizio, o come ne I pugni in tasca e in Nel nome del padre). È tensione, dissonanza: nella recitazione e nel movimento dei corpi, nel ritmo del montaggio, nella luce e nel colore, nella musica, nel suono, nei campi delle inquadrature. Dissonanze che si incontrano: Giulia e la ragazza nera; che cercano un accordo: la storia d'amore fra Giulia e Andrea; che si oppongono: il campo/controcampo che separa Giulia dal fidanzato Giacomo; che si scontrano: Andrea e il padre; che si ignorano: la classe di Andrea e ciò che c'è oltre le finestre. Sono dissonanze irriducibili, non riconciliabili; sono le dissonanze che fanno di ogni individualità un «mondo», e che possono venire meno per un attimo magico, per l'accensione di una scintilla erotica che fa cadere le barriere (la lunga inquadratura del bacio in barca), ma che possono rapidamente riemergere (quella, antitetica, di lei stesa sul divano, dopo il rientro nella «casa degli sposi»); e che, nella scena dell'esame, finiscono col separare Andrea da Giulia, fra le lacrime. Il rosso degli abiti, abbozzato ne Gli occhi, la bocca, trionfa assieme al blu elettrico degli interni notturni e delle lenzuola come colore forte, deciso. Tutto il film del resto è caratterizzato dalla nettezza delle scelte formali: assertivo, senza reticenze e esitazioni. Bellocchio sfida il suo spettatore a prendere posizione, a schierarsi. Lo fa ostentando la bellezza dei suoi protagonisti, la sensuale risata nervosa e la sfacciata eleganza di Maruschka Detmers, il corpo levigato di Federico Pitzalis: è la giovinezza che entra prepotentemente nel suo cinema, con una coppia che resta la più memorabile di questa nuova fase. Anche i personaggi di contorno subiscono un mutamento rispetto alle opere precedenti: il padre psicoanalista freudiano, la madre castratrice, il figlio pentito, rappresentanti della norma, sono disegnati con la necessaria precisione e poi relegati sullo sfondo. Con loro i conti sono chiusi. Non ancora con l'emersione dell'inconscio e l'affermazione del desiderio.

La visione del sabba aspira quasi a filmare in diretta questa liberazione dell'inconscio dalle catene della guarigione freudiana. La fuoriuscita delle pulsioni represse invade il mondo al di là dei secoli. La follia della protagonista (una sconvolta Béatrice Dalle) si coniuga con la furia erotica delle streghe. Davide (il danzatore Daniel Ezralow) ne resta sedotto, ai limiti della trance: passa dall'altra parte, entrando nell'universo delle pulsioni sganciate da ogni limite. Come il protagonista, anche il film si lascia travolgere, e si propone generosamente di ribaltare la follia in bellezza e di affermare una vittoria: che resta però «sognata», più suggerita che davvero materializzata. Raramente Bellocchio ha rischiato tanto, di fallire proprio quando con più decisione vuole proclamare la propria indipendenza, forzando i «limiti» del suo cinema in direzione sperimentale.

La condanna torna alla «forma controllata» di Diavolo in corpo: portandola alle estreme conseguenze. Il film è strutturato come una pièce teatrale didattica secondo precise linee geometriche. Il cerchio, o forse sarebbe meglio dire la spirale, domina il primo atto; il movimento graduale di accerchiamento si stabilizza al centro nel totale fisso, rosso e blu, del ripetuto e violento amplesso fra Lorenzo (Vittorio Mezzogiorno) e Sandra (Claire Nebout). Il secondo atto è costruito su linee oppositive: un campo e un vero controcampo a 180°, con cui sono inquadrati frontalmente, di volta in volta, Sandra, Lorenzo e il giudice (Claudio Emeri), fra i quali si innesta, e piano piano prende sempre più corpo, la punta di un triangolo, costituita dal PM Giovanni Malatesta (Andrzej Seweryn). Nel terzo atto, durante la festa, riesplode il cerchio, che si conclude con una opposizione: la torta sbattuta da Sandra in faccia al PM. Nel quarto atto, finalmente all'aria aperta in mezzo ai campi luminosi, si perfeziona un'altra figura geometrica reiterata in precedenza: quella del carrello a precedere o a seguire personaggi che si incrociano o si abbandonano. La condanna è il film più formalizzato e lucido di Bellocchio, quasi hitchcockiano nella capacità di avvincerci con la suspense di un intreccio poliziesco-psichiatrico che incarna perfettamente le proprie metafore. Lo spettatore, convocato a giudicare, assiste a tre lunghi monologhi in cui i protagonisti espongono il loro credo: la bellezza, per Lorenzo; il sentimento, per Sandra; la ragione, per il PM. E non può decidersi, stretto com'è dalla geometria didascalica del film. Ognuno, in fondo, ha le proprie ragioni. Alla fine, la contadina (Maria Sneider) interviene a segnalare un punto di fuga, invitandoci a seguirla mentre scompare dietro un muro. Libera dalle costrizioni del vivere civile, lei «sa».

La riuscita solo parziale de La visione del sabba, l'impulso a liberarsi dalle convenzioni della società, della psiche e anche del cinema, serve a Bellocchio per affrontare con la coscienza del rischio il suo film più sperimentale: Il sogno della farfalla. I conflitti in seno alla famiglia, che producevano opposizioni irriducibili nei film precedenti, qui permangono ma entrando in circolo: sono esperienze dolorose ma condivise, non conflittuali. La frammentazione del racconto (una successione di scene, di «quadri», quasi indipendenti fra di loro) e degli spazi (un puzzle di ambienti esterni e interni per ricostruire, alla Ferreri, un territorio immaginario) non impedisce che la scelta radicale del protagonista (Thierry Blanc) – quella di non parlare ma di recitare, mettendosi da parte – circoli negli interstizi, impregni le atmosfere, si riverberi sugli altri, che a loro volta parlano come se citassero: toccati dalla forza oracolare che emana dal giovane. Il film ha momenti da tragedia greca, alla Cocteau, ma trova alla fine, nella cava bianchissima dell'ultima inquadratura, il trionfo di quella luce che Bellocchio ha sempre cercato e spesso fuggito. Finalmente, la famiglia può essere guardata ad occhi aperti, senza più rabbie né rancori. Le figure ricorrenti del cinema di Bellocchio, forse perché scarnificate, più anime che corpi (il doppiaggio degli attori stranieri ha senso anche in tale direzione), trovano nell'autore uno sguardo pacificato, di chi capisce e condivide il loro difficile cammino nella vita. Il padre legato a una cultura del passato, la madre che ama il figlio senza potergli comunicare questo amore, il fratello che ha trovato un suo equilibrio, la moglie che sente di poter cambiare, l'innamorata che accoglie con fiducia innocente la diversità: ciascuno vive consapevolmente il proprio destino, e altrettanto consapevolmente ne percepisce i limiti. Che le tre vecchie, incarnazioni della sapienza antica, si incaricano di rivelare. Nel tormento della forma, la bellezza del desiderio ha trovato la sua pace.


La riconcilazione col padre

Chiusi i conti col passato, quello interiore e anche quello esteriore (Sogni infranti, La religione della storia), Bellocchio si accinge a rileggere il proprio percorso di guarigione da altre angolazioni. Lo fa innanzitutto, dopo Il gabbiano e Enrico IV (meno significativo mi sembra l'esperimento in video de L'uomo dal fiore in bocca), con la mediazione di un testo letterario. Il principe di Homburg è il suo film più notturno. Ma stavolta il buio, le penombre così care al regista, non nascondono ma rivelano. La chiarezza del tema, il riconoscimento del figlio ribelle da parte del padre devoto alla Legge, esposto alla luce della notte guadagna in concentrazione. La soluzione dell'enigma famigliare è però racchiusa fra un incubo e un'ambigua realtà («È un sogno?», chiede incredulo Homburg nel finale; «Un sogno, certo, che altro?», gli risponde ironicamente Kottwitz): come se Bellocchio non fosse così sicuro di padroneggiare ormai il recupero della figura paterna. L'allentamento della tensione, che alimentava tanto suo cinema precedente, gioca a sfavore del film, che risulta l'esposizione di un tema predefinito.

Anche La balia è tratto da un opera letteraria, ma come spunto e come possibilità di collocare temi cari a Bellocchio in una cornice storica, distanziandoli e controllandoli. È un film di prosa, riconciliato; un film terapeutico, di rieducazione; volutamente privo di accensioni, trattenuto. Il triangolo è nettamente definito: il marito che tenta di «saltare il muro» arrestandosi prima; la moglie che sente il bisogno di vivere altrove la propria nevrosi, ma passivamente; la balia che introduce nella casa altoborghese la forza del desiderio, l'urgenza di un mutamento. E all'esterno le bandiere rosse che prolungano le tensioni della casa e del manicomio. Nel disegnare a tutto tondo le sue figure, Bellocchio dimostra abilità fin troppo professionale. Il padre con cui stavolta vorrebbe riconciliarsi è proprio il tipo di cinema da cui si era allontanato, giungendo a negarlo nei suoi film più radicali. Il figlio ribelle ha conquistato il rispetto del padre e si merita la corona d'alloro?

Con L'ora di religione Bellocchio ha tutte le ragioni per esigerla. Per la prima volta, al centro del film c'è un padre, Ernesto (un eccellente Sergio Castellitto), che ha elaborato la propria condizione di figlio e vive le nevrosi residue con la giusta ironia. Abita, serenamente separato dalla moglie e sanamente legato al figlio, in una casa-studio labirintica ma piena di luce. Convocato a tornare sul proprio passato, riesce ostinatamente a non lasciarsi travolgere, a traversare l'incubo guardando in faccia i fantasmi. Il film, come il suo protagonista, è in costante movimento, percorso da una febbre e da una tensione vitalistiche, che consentono di coniugare senza conflitti prosa e poesia, configurazione dei personaggi e accensioni improvvise. La religione, che tanto spesso si è insinuata nei suoi film come un morbo meschino, qui ha un rilievo tale da respingere ogni facile sarcasmo e porsi come antagonista con cui fare seriamente i conti. Che la spirituale Diana Sereni (Chiara Conti), più graziosa che bella, anzi «bellissima» come si ostina a dire Ernesto colto da coup de foudre, sia e non sia un'insegnante di religione, e che torni alla fine tra le sue braccia dopo un momento di suspense, lascia aperta la porta a un futuro dove forse anche con il papa ci si potrebbe intendere...

In effetti, nell'eleggere a padre-modello Aldo Moro (Roberto Herlitzka) in Buongiorno, notte, e nel cospargere anche altri film di presenze papali (da Pio XII in Nel nome del padre e La religione della storia a Paolo VI in Sogni infranti; ma mai, sintomaticamente?, il «papa buono» Giovanni XXIII), Bellocchio accetta il lato positivo dello statista, che è anche, forse principalmente, quello della sua fede. Racchiuso fra quattro mura come un cane, è chiaro che la sua forza interiore gli consente di trapassarle quasi non esistessero. Di fronte a lui i figli (c'è pure quello del regista, Pier Giorgio), così sicuri all'inizio dei propri ideali, pronti a morire in nome loro, fanno figura di fantocci: con l'eccezione di Chiara (Maya Sansa), che faticosamente intuisce il bisogno di realizzare i propri sogni, sia pure ancora sfocati, piuttosto che restare schiava della realtà. Il buio che domina nell'appartamento ricostruito in studio, e che trova un'alternativa nella scena della scampagnata, traduce meccanicamente i travagli del conflitto tra i figli e il padre. La dimensione onirica è più dichiarata che cinematograficamente espressa, e il sogno finale di liberazione, ripetuto due volte, con quello squallido esterno in cui si ritrova Moro, sembra tradire l'imbarazzo di Bellocchio nell'affidarsi a questa soluzione in positivo della tragedia. I conti col passato, stavolta, non sembrano chiusi.

Il ritorno sereno al passato, la rivisitazione del natio borgo, la conciliazione con le diverse generazioni della «famiglia» piacentina avviene nel canto lirico di «...addio del passato...», stupendo documentario che è insieme uno home movie, un diario, un saggio e un poema autoriflessivo. Ripercorrendo la trama de La traviata, Bellocchio alterna cantanti di tutte le età, dalla giovanissima Eleonora Alberici (che assurge allo statuto di personaggio) ai professionisti degli Amici della Lirica, agli amatori in età della Cooperativa Infrangibile, sino ai cantanti ormai in ritiro (alla più anziana è riservato l'onore di lanciare il recitativo di «E strano...» e di eseguire l'acuto supremo dell'estasi mortale, «O gioia!», che riverbera al ralenti nelle Violette più giovani). L'addio del passato, con tre puntini prima e tre dopo, quasi a dirci che non tutto è perduto e tanto altro ci attende, è il canto dell'arte.

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