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| << | < | > | >> |Indice11 Premessa di Adriano Aprà IL CINEMA 17 Il cinema etico di Luigi Comencini di Patrizia Pistagnesi 31 Stato di famiglia. La battaglia civile (e amorosa) di Comencini di Tullio Masoni 43 Vecchio come il cinema. Comencini documentarista di Laura Buffoni 54 Identità nascoste: "Pane amore e fantasia", "Pane amore e gelosia" di Andrea Martini 65 Comencini nei generi: i film "minori" di Alberto Pezzotta 76 Della sottrazione. Il lavoro di Comencini con le attrici di Alberto Standola 90 La musica di Comencini di Sergio Bassetti I FILM 103 Proibito rubare di Sara Leggi 107 L'imperatore di Capri di Alberto Anile 113 Persiane chiuse, La tratta delle bianche di Emiliano Morreale 120 Heidi di Francesco Bono 126 La valigia dei sogni di Stefania Parigi 133 La bella di Roma di Bruno Di Marino 138 La finestra sul luna park di David Bruni 143 Mariti in città, Mogli pericolose, Le sorprese dell'amore di Roy Menarini 147 ...und das am Montagmorgen di Francesco Bono 154 Tutti a casa di Fabrizio Natalini 161 A cavallo della tigre di Flavio De Bernardinis 165 La ragazza di Bube di Fabio Francione 170 Incompreso di Paolo Mereghetti 175 Senza sapere niente di lei di Alberto Pezzotta 177 Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano di Bruno Fornara 181 Le avventure di Pinocchio di Luciano De Giusti 187 Lo scopone scientifico di Federico Rossin 192 Delitto d'amore di Goffredo Fofi 196 Mio Dio, come sono caduta in basso! di Dario Marchiori 201 L'ingorgo di Vito Zagarrio 206 L'ascensore (ep. di Quelle strane occasioni) di Piero Spila 209 Voltati Eugenio di Mariapia Comand 213 Cercasi Gesù di Silvio Grasselli 217 Il matrimonio di Caterina di Stefania Carpiceci 222 Cuore, La Storia di Antonio Costa 231 Un ragazzo di Calabria di Marco Vanelli 235 La Bohème, Buon Natale Buon Anno di Sergio Grmek Germani 239 Marcellino pane e vino di Alessandro Faccioli STRUMENTI 245 Biografia di Sara Leggi 251 Filmografia di Adriano Aprà e Sara Leggi 287 Comencini critico cinematografico e giornalista. Bibliografia di Adriano Aprà 301 Bibliografia di Sara Leggi |
| << | < | > | >> |Pagina 17A Luigi Comencini Queste pagine avrebbero dovuto essere dedicate a Simon Mizrahi, uno degli amici che non ci sono più, compagno di esaltanti scorribande parigine alla scoperta delle rimozioni della critica italiana: film e autori ignorati o vituperati che non avevano cittadinanza nelle storie ufficiali del nostro cinema. Ma la militanza cinéphile di Simon andava ben al di là, e tanto si deve al suo inesauribile lavoro multiforme se oggi nessuno più oserebbe discutere lo statuto di autore di Luigi Comencini. Il quale è venuto a mancare, dopo una lunga malattia, proprio mentre scrivo queste pagine con un'emozione dolente e la sensazione di onorare finalmente un debito contratto all'inizio della mia carriera, quando tutti si tenta di supplire con la teoria, la passione e l'ingordigia voyeuristica all'inesperienza. Allora su Comencini ci si divideva ancora, si doveva ancora dibattere e dare battaglia; e non solo a destra, contro chi cioè lo considerava l'onesto artigiano di cinema commerciale, ma anche contro lo snobismo di chi ne criticava da sinistra la mise en scène revisionista. In quegli anni Settanta, accanto ai capolavori della maturità, da Le avventure di Pinocchio a L'ingorgo, alzavamo la bandiera dei suoi primi melodrammi, Persiane chiuse, La tratta delle bianche, sottovalutati da Luigi stesso, di un film saggio come La valigia dei sogni e di una precoce prova d'autore come La finestra sul luna park. Il debito di riconoscenza che mi lega a Comencini è dovuto, oltre che alla disponibilità affettuosa con cui mi diede accesso alla raccolta di articoli, sceneggiature, materiali vari sul suo cinema, anche alla possibilità che mi offrì di essere coinvolta nel suo lavoro. Comencini è stato, con altri, Ennio De Concini, Marcello Fondato, Goffredo Lombardo, uno dei mici maestri. Ho avuto il privilegio di vederlo all'opera e la fortuna di collaborare con lui. Per noi, appena transfughi dalla politica che ci aveva deluso, la critica cinematografica era un'ennesima forma di militanza e presupponeva un'inarrestabile attività di incontri, interviste, ricerche, dibattiti, collaborazioni, organizzazione di rassegne e di festival. Ricordo una delle prime rassegne all'estero dell'opera di Comencini che si svolse a Rotterdam, nell'ambito di un festival raffinato come era allora quello diretto da Huub Bals.
Ma la consuetudine con Luigi ha voluto dire anche lavorare fianco a
fianco con lui per le ricerche e la produzione de
L'amore in Italia,
godardiana inchiesta sull'evoluzione dei rapporti affettivi nel nostro paese
prodotta dalla RAI. Ricordo la discrezione di cui si ammantava l'autorevolezza
della sua esperienza, delle sua capacità, e sotto la quale nascondeva l'acutezza
della sensibilità, la dote di comprendere la condizione umana e di cercare in
ognuno la traccia di un talento, di una qualità. Metteva soggezione
a me giovanissima l'uomo e il regista da cui emanava una grande sicurezza
nel trattare di persone e delle loro storie. E conoscendo lui e il suo cinema,
sembrava sempre più immotivata e miope una certa doxa critica che lo accusava di
essere stato, da
Pane amore e fantasia,
l'affossatore del neorealismo, e che gli rimproverava il successo commerciale
dei suoi film.
Vocazioni In realtà la raffinata, quasi aristocratica formazione del giovane Comencini, cinefilo e architetto, critico e fotografo, svoltasi a cavallo di due nazioni, fra l'Italia e la Francia, lo metteva al riparo dai tanti pregiudizi che inquinavano la cultura italiana. La scommessa, per lui, mi sembrava essere sempre come nel suo rapporto con le persone o con gli attori-bambini, così anche con le sceneggiature più inerti o con le proposte produttive meno esaltanti tirar fuori quella qualità di cui era estremamente curioso e di cui la sua opera, e mi piace pensare la sua vita, sono state una costante ricerca. In questo era un po' come il suo Gesù-Beppe Grillo: un esploratore dell'anima con lo sguardo intatto del bambino, del folle; lui apparentemente così razionale, sempre capace di sorprendersi o indignarsi, sempre capace di inventare la sua interpretazione, appunto come i bambini, tra le righe di rispetto, di educazione, regole, generi, divi, produttori. L'ironia di Luigi, certi momenti di un suo sorriso sornione, sembravano proprio nascere dalla consapevolezza di sapere, senza mai parere, tirar fuori quel piccolo segreto di un soggetto, di un attore, di una persona. Di piegare l'occasione alla verità. Pensiamo solo al travestitismo di Totò ne L'imperatore di Capri, uno dei suoi film più sottovalutati, come diceva il mio buon amico Simon. Forse anche per questo amava e metteva in scena così tanto i bambini: per complicità, per fratellanza, per prossimità con la capacità che essi hanno di indovinare, di sentire la verità al di là di qualsiasi nostro inganno di adulti. Eppure il cinema di Comencini è sempre, fin dagli inizi, un cinema adulto. In grado di utilizzare appieno le possibilità dei generi, le regole drammaturgiche, i corpi degli attori e il linguaggio cinematografico che egli piega con assoluta spregiudicatezza alla sua incessante ricerca dell'essenziale. In questo, partecipando dello sfacciato anticlassicismo e antiaccademismo di tutta la commedia italiana, Comencini fa storcere il naso ai puristi, ai cultori dell'inquadratura, della giunta di montaggio, e occorre lasciarsi prendere dal suo energico procedere narrativo, dall'incessante e asciutto movimento della sua macchina da presa che non ci risparmia zoom e sbavature quando sono necessarie al racconto. Comencini è uno degli ultimi convinti e fiduciosi assertori del senso. Il linguaggio cinematografico per lui è il mezzo asservito a una ricerca psicologica ed etica, alla comprensione di una realtà alla cui esistenza egli ancora crede, per quanto degradata e abietta essa possa essere. Si dice regista di «un cinema "delicato e gentile"», ma è una definizione che pecca di modestia, e che piuttosto si adatta ai protagonisti che predilige, i bambini, e le giovani donne che popolano i suoi film, da Mara a Cinzia, a Carmela, fino a Ida e a Caterina. Il suo è, come del resto quello di alcuni suoi coevi di genere quali Risi e Monicelli e degli sceneggiatori che li coadiuvano, da Fondato a Pirro, da Sonego, Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi a Zapponi, un cinema maschio, assertivo, che non sopporta accademie, ridondanze, orpelli. Θ un cinema che, anche nelle ricostruzioni in costume, non eccede mai nel particolare, nella ricercatezza scenografica, nello sfarzo del décor o dei costumi: che sia il Settecento veneto, o l'Ottocento parigino, o la fin de siècle della Torino dei Savoia, sempre sobrio ed essenziale è l'impianto realistico, il contesto che fa da sfondo a ciò che interessa elettivamente l'autore, l'essere umano che vi si muove, le sue azioni e scelte, il suo pensiero, il suo sentire. | << | < | > | >> |Pagina 65Nella filmografia di Luigi Comencini i film che creano i generi si alternano a quelli che si inseriscono in filoni già sfruttati, le opere che riesce facile inserire in un percorso d'autore ai lavori su commissione. Ciò rende difficile l'opera del critico (o storico-critico), che oggi è portato automaticamente a risarcire l'atteggiamento spesso liquidatorio dei recensori dell'epoca, e magari è tentato a sopravvalutare le tracce autoriali o personali in film poco considerati (anche dallo stesso regista). E forse bisognerebbe cominciare col distinguere, almeno come ipotesi, tra la poetica dell'autore, i tocchi personali e la sua mano. Per esempio, la ricorrenza nei film di Comencini, in precisa funzione comica, degli insulti "putana" (pronunciato con accento romagnolo ne La bugiarda), "mignotta" (in Italian Secret Service) o "puttana" (con l'accento milanese della Melato ne Il gatto) e la centralità della prostituzione in Eritrea e L'equivoco (quando già in Pane amore e fantasia il maresciallo Carotenuto si informava se la Bersagliera esercitasse il "meretricio", e i maschi di Mariti in città favoleggiavano di massaggiatrici e pittrici mercenarie) segnalano un tratto idiosincratico e forse sintomatico, che rimanda alla rappresentazione ironica e complice di una certa mentalità maschile, e misogina: ma è sufficiente a legittimare un nesso autoriale tra film e film? E per quanto riguarda la "mano", in un'inquadratura particolarmente elaborata (come quella con due specchi in profondità di campo de Il compagno don Camillo, a 84'40" del DVD), che la si voglia definire calligrafica o espressionista, segnala un'insolita accensione formale in un film eseguito svogliatamente: ma la firma, se rimanda alla consueta eleganza e perizia stilistica del regista, non autorizza una lettura in chiave autoriale del film medesimo.
La
riconoscibilità
di Comencini non sempre è sufficiente a elevarlo ad autore: ciò vale per
qualunque regista, anche se spesso lo si dimentica. In
ogni caso, gli strumenti di una critica autoriale di discendenza francese
rischiano di essere i meno pertinenti per cogliere la vivacità e l'adattabilità
di questo regista all'interno dell'industria cinematografica dell'epoca.
Ed è senza pregiudizi o tesi da dimostrare che questo intervento si concentra su
alcuni dei suoi film più trascurati, girati tra la nascita e la fine
della commedia all'italiana. Il termine
post quem
è rappresentato da
Tutti a casa
(1960) e
A cavallo della tigre
(1961), due film ugualmente fondatori, per quanto di diverso successo e fama
critica; il termine
ante quem
da
L'ingorgo,
che nel 1979 suggella la stagione della commedia con un pessimismo apocalittico
e con un altro mezzo insuccesso, e in seguito semidimenticato. Entro questi
termini anche espressivi Comencini si cala nel
genere con adattabilità e curiosità, in una tensione tra divulgazione e
innovazione spesso inavvertita. E i suoi film "minori" costituiscono un capitolo
non trascurabile in quel testo collettivo che è la commedia all'italiana
degli anni Sessanta, di cui mettono in luce opzioni e varianti tra le meno
scontate.
Flashback. Nascita della commedia Prima, però, occorre ricordare quanto è successo nel decennio precedente. Come Monicelli, Risi e Lattuada, Comencini appartiene a una generazione che negli anni del neorealismo si è confrontata con le forme del cinema popolare, alienandosi (fin da allora) i favori di una critica ideologizzata. Ormai è pacifico trovare la culla della commedia all'italiana degli anni Sessanta nei film della metà del decennio precedente interpretati da Alberto Sordi e spesso scritti da Rodolfo Sonego (Il seduttore di Franco Rossi, 1954; Un eroe dei nostri tempi di Monicelli, 1955; Lo scapolo di Pietrangeli, 1955), prima ancora che nel canonico I soliti ignoti di Monicelli (1958). In questo contesto, Comencini appare un regista ondivago: esordisce in chiave "autoriale" con Proibito rubare; accetta il compromesso alimentare de L'imperatore di Capri; si lancia con sicurezza espressiva nel dittico mélo-noir di Persiane chiuse e La tratta delle bianche, dove conta la suggestione dei film di Germi e di Cerchio; si installa ai vertici del botteghino con Pane amore e fantasia, che allora viene giudicato come un tradimento del neorealismo, e anche oggi può apparire di retroguardia rispetto alla spregiudicatezza e all'attualità dei ritratti di italiano medio, pavido e cinico, che comincia a sbozzare Sordi. Θ interessante notare, comunque, come il «finto rustico» (Spinazzola) di Pane amore e fantasia, che nasce da una vulgata de-ideologizzata del cinema ciociaro-sovietico di De Santis e di quello popolano e tardo-calligrafico di Castellani, diventi subito genere: il cosidetto neorealismo rosa. Lo alimenta Comencini stesso in Pane amore e gelosia e La bella di Roma, e poi Risi in Pane, amore e... (1955), Poveri ma belli (1956) e via dicendo. E ne risente lo stesso I soliti ignoti, di ambientazione urbana, ma legato a una tipologia di personaggi da commedia dell'arte, socialmente vicina al "rosa" e più quietista rispetto alla campionatura antropologica dei film con Sordi. Nasce qui una figura ricorrente nelle vicende produttive comenciniane, quella del regista che accetta malvolentieri un progetto e poi dichiara: «Non avrei dovuto farlo» (è il caso di Pane amore e gelosia), e autorizza la divisione tra le opere girate con la mano sinistra (per esempio Mariti in città) e quelle più personali e magari non coronate dal successo (come La finestra sul luna park), inseribili in una poetica tradizionalmente identificata nell'attenzione all'infanzia e magari nel sentimentalismo crepuscolare. All'alba del decennio successivo, si è detto, Comencini contribuisce alla nascita di un genere ben più duraturo e complesso del neorealismo rosa: la commedia, in due varianti precise. | << | < | > | >> |Pagina 90Tracciare un identikit musicale di Luigi Comencini sembra impresa destinata al fallimento, almeno se tramite questa operazione si intende far affiorare un pensiero musicale forte, sbalzato, e in vario grado ricorrente nell'intera filmografia del regista: in questo senso individuale, quindi, e riconducibile a lui e a lui soltanto. Idealmente solidale con altri cineasti cui negli anni si è visto più o meno legittimamente associato, come Monicelli e Risi, Comencini sembra attribuire alla musica un ruolo ancillare, di lineare sostegno espressivo e/o informativo, ben allineato a una concezione classica di commento musicale inteso come valore aggiunto, proficua integrazione, ma "senza delega": un ruolo che sembra frustrare, se non contraddire, ogni ulteriore ambizione d'indagine, quantomeno nei termini di un progetto musicale strutturato e accuratamente pianificato che possa dirsi "firmato" Comencini. E non sembra fuor di luogo far richiamo, per questo suo disinteresse, alla "trasparenza" cui fa riferimento Aprà quando, a proposito dello stile e del linguaggio adottati, nota come Comencini «ami mimetizzarsi, per così dire, nella regola dominante del momento in cui opera, guardandosi bene dall'introdurre scarti che lo distinguano». Né poi nel corpus di interviste e testimonianze del regista la musica sembra assumere un valore diversamente apprezzabile: Comencini non fa mai cenno spontaneamente a peso e funzioni che assegna alle partiture nei suoi film, e anche quando confida il suo debito nei confronti dei vari apporti tecnico-artistici, quello verso la frazione musicale viene dato per implicito, non essendo mai riconosciuto espressamente. Unica eccezione, un breve questionario su valori, forme e metodologie della musica per film che la rivista francese «CinémAction» sottopone, nel 1991, a lui come a una folta rappresentanza di registi e musicisti cinematografici: ottenendone risposte che sostanzialmente confermano la prima impressione di un rapporto, tra Comencini e la musica cinematografica, essenziale, senza doppi fondi, giocato sulla norma e sulla redditività immediata. Ma di quelle domande e risposte torneremo a parlare cammin facendo. Quanto sin qui sostenuto sta a dire di una relativa anonimità funzionale delle pagine musicali nei film di Comencini, senza per questo affermarne inadeguatezze o fragilità formali; il regista infatti si è sempre valso, nei più di quarant'anni della sua attività, della collaborazione di musicisti di innegabile se non esemplare valore, tanto che l'inventario dei compositori che lo hanno affiancato si configura come un ideale gotha della musica cinematografica nazionale. Da Rota a Nascimbene a Cicognini, passando per Lavagnino, Rustichelli e Trovaioli, e via via fino a Piccioni e Morricone senza contare quel Fiorenzo Carpi la cui voce sembra la meglio intonata alla sensibilità del regista , le più eterogenee e dotate personalità musicali espresse dal cinema italiano si sono misurate con le immagini di Comencini, senza tuttavia che forse con la sola eccezione del citato Carpi, col suo Le avventure di Pinocchio nessuno di loro abbia saputo forgiare il risultato memorabile, la partitura sensazionale: probabilmente a causa della natura formale stessa del cinema comenciniano, così sfrondata di sovratoni drammatici e avara di contrasti violenti; ma anche per avere subìto tutti, verosimilmente, i rigidi condizionamenti di una regia poco propensa a voli pindarici su pentagramma o a soliloqui musicali autonomi, e men che mai estetizzanti; preoccupata, piuttosto, di gettare benzina evocativa sul fuoco delle espressioni figurative e verbali. Sono effetti, «effetti ben precisi», che il regista persegue: e che la rigida prospettiva corale dei contributi tecnico-artistici rischi di produrre talvolta risultati musicali anodini e sin troppo dejà entendus, appare al regista un prezzo ragionevole, e persino bene accetto, ai fini del raggiungimento di un effetto cumulativo conveniente, ben dosato. In questo procedimento, quella che viene negata è una concezione più moderna della musica nel film, finalmente promossa a risorsa espressiva "titolare" e affrancata, se è il caso, da quell'idea di rigida subordinazione che, fatte salve sporadiche eccezioni, ha regolato l'impiego delle partiture cinematografiche dal dopoguerra in avanti. | << | < | > | >> |Pagina 187Si può idolatrare per anni un grande divo, e quando infine lui si degna d'esser lieto di fare la nostra conoscenza, ai suoi convenevoli formali rispondergli solo: Bastardo! Rispetto al mito, alla leggenda e alla stessa fiaba, la favola si distingue per l'appartenenza a una fase di pensiero più matura, più critica, più moralistica: la sua puntuta denuncia del male presente nel mondo è scevra di qualsiasi illusione riformatrice, di qualsiasi soluzione pratica. Eppure la favola non è un rassegnato e cinico elogio dell'adattamento all'esistente, semmai un invito rivolto ai deboli perché sfruttino ogni loro ingegno e risorsa spirituale e morale al fine di riscattarsi di fronte alla prepotenza dei forti. «Trovo che Lo scopone scientifico sia una favola molto giusta sulla lotta dei deboli contro i potenti»: è lo stesso Comencini a dare una definizione di genere e di sostanza al suo film uscito nel 1972. L'Italia di allora è un paese in cui conflittualità sociale, strategia della tensione, prime avvisaglie terroristiche e arroccamenti conservatori sono lo sfondo di un mutamento antropologico sempre più rapido e inesorabile: tutto questo ne Lo scopone scientifico non c'è, e non ci può essere. Comencini parla da una dimensione "altra" che gli permette di evitare le pastoie del cosiddetto cinema impegnato e la superficialità della commedia di costume: il suo è un apologo che parla di rapporti di classe fondati su base antropologica prima ancora che storica. E se l'acuto Rodolfo Sonego racconta di aver scritto il soggetto del film ricordando un fatto vero di cui fu testimone a Napoli nel 1947, il film è per calibrata scelta non realistico: i personaggi sono maschere di una vicenda di cui conosciamo in partenza gli sviluppi e incarnano ruoli da commedia dell'arte privi dunque di evoluzione psicologica e morale; l'apparente ambientazione neorealistica della baraccopoli è immediatamente mutata di segno dall'incombente presenza della villa della vecchia americana (il castello della strega, si vorrebbe dire) che pare costruita proprio su di essa. Si è parlato, e a ragione, di un'influenza brechtiana per questa trasparente «allegoria sul potere» con cui Comencini raggiunge il suo obiettivo artistico di sempre, «un cinema di testa» girato con «un linguaggio popolare»: la lotta di classe, il ruolo malefico e falsamente liberante del denaro, l'oppressione imperialistica americana sulle "colonie" (sull'album fotografico sfogliato nel film ci sono Siria, Cile, India, Filippine, Brasile, e il quadretto di famiglia si sta per completare con l'Italia...), la cecità colpevole del sottoproletariato, la falsa coscienza dell'intellettuale di sinistra mancato, l'attendismo ignavo del prete... Tutti temi raccontati attraverso una metafora talmente scoperta da risultare quasi ovvia: quella del gioco. Eppure una lettura unicamente ideologica del film non ci soddisfa più. Lo scopone scientifico è anche qualcos'altro (e questo nulla toglie al suo valore sinceramente libertario e straordinariamente politico, starei quasi per dire eversivo): è un film sul cinema italiano e sui suoi rapporti con quello americano, una surcommedia autoriflessiva in cui i personaggi non possono più avere uno spessore perché sono ormai modelli saturi di una storia che è già finita. Solo i bambini del film ci sembrano avere una sostanza vera, una sofferenza vissuta, un comportamento saggio («Qui stamo a lavorà, non stamo mica a giocà»): e proprio uno di loro avvelenerà la vecchia vampira che non può tollerare alcuna perdita di denaro-sangue. Invece Sordi non è mai stato così macchietta e stereotipo di se stesso (consapevole e straordinario) ed è pronto per il salto nel grottesco nero di Un borghese piccolo piccolo e per l'allegoria mostruosa de L'ingorgo; Silvana Mangano, tornata a un personaggio "realistico" dopo la beatificazione viscontiana e l'ascesi pasoliniana, sembra calcare ironicamente su toni eccessivi; Bette Davis è il fantasma del cinema americano classico degli anni Trenta e Quaranta (quel cinema che Comencini ammirava da cinefilo prima ancora che da regista), ormai ucciso dalla televisione e ridotto a una tragicomica icona itinerante e senza vita; Joseph Cotten è infine un personaggio costruito su citazioni, reinvenzione patetica dello Stroheim del Sunset Boulevard wilderiano e anche sopravvissuto al suo ruolo in Portrait of Jennie (durante la confessione in bagno rivela di aver fatto il ritratto alla giovane innamorata Bette Davis, che nel film di Dieterle era un'apparizione fantasmatica...). Lo scopone scientifico si configura così come l'evoluzione manieristica e insieme la pietra tombale della commedia all'italiana (e un parodico epicedio per il cinema americano classico) e nella filmografia comenciniana si allunga a ponte (insieme al film-favola gemello eppure assai diverso Delitto d'amore) fino a raggiungere la fantascienza al presente de L'ingorgo: e i due film letti sinotticamente sembrano inverare le tristi parole che Pasolini andava scrivendo in quegli anni: «Il diritto dei poveri a un'esistenza migliore ha una contropartita che ha finito col degradarla. Il futuro è imminente e apocalittico». In questo irrealismo volontariamente praticato negli anni Settanta solo l'esperienza documentaristica sembra garantire a Comencini una libertà espressiva che il classicismo un po' amorfo dei suoi film nasconde: eppure anche tra le pieghe di un'opera tanto formalmente e narrativamente coerente come Lo scopone scientifico si incontra un brandello di quella pratica filmica. Θ proprio quell'universo infantile indagato nelle serie televisive degli anni Settanta a far esplodere per un solo attimo utopico la crosta apparentemente non scalfibile di zoom panoramiche carrellate invisibili e "normalizzate". Vale la pena di descrivere la brevissima inquadratura in questione: la sequenza è quella della cena della famiglia sottoproletaria in attesa della telefonata della vecchia. Improvvisamente arriva il professore marxista per restituire il tegame di un pasto che gli era stato offerto: porta con sé anche un regalo per la coppia di giocatori, un rarissimo libro, Lo scopone scientifico, che sarà, secondo lui, la chiave di volta per battere l'americana. Fin qui la mdp ha servito con elegante invisibilità il muoversi dei personaggi nell'angusta baracca, ma ora, dal tavolo a cui siedono i protagonisti, inizia un'inquadratura girata con camera a mano che vede la famiglia imbambolata davanti a un televisore sintonizzato su un vecchio western in bianco e nero. Sembrerebbe una semplice soggettiva di un personaggio che si alza, ma non è così: la mdp finisce per inquadrare solo il televisore e il vano della porta escludendo tutti gli altri personaggi; qui appare Cleopatra, la figlia menomata e chiaroveggente che darà una svolta terroristica e libertaria alla storia del film (anche se solo illusoria, anche se solo sognata): e guarda in macchina, ci guarda come i bambini guardavano Comencini che nei suoi documentari li faceva parlare della loro vita, della loro verità («La bambina è l'unica a possedere la verità. Di fatto, ho portato una grande attenzione a questa bambina, e credo che questo si veda». E ancora: «Ha un senso preciso della realtà, vede le cose come sono, non vive nella stessa illusione della sua famiglia e di tutto il tessuto sociale della baraccopoli in cui si trova: illusione che li porta tutti alla follia»). Quella finta soggettiva girata con macchina a mano è la firma del regista, il suo modo di dirci chi è il vero protagonista della storia (della Storia?), di alzare per un momento la cappa del genere e della forma: anni dopo Comencini dirà la stessa cosa che qui solo per un istante ci fa intravedere: Sono nauseato dall'eleganza delle riprese, dalla raffinatezza delle immagini. Non conoscevo i film di Cassavetes, ho visto, giorni fa, Una moglie; è così che si fa il cinema, senza far posare gli attori alle "belle figurine", con tanti vezzi figurativi. Vorrei aver l'aria di guardare ai personaggi quasi di soppiatto, con un occhio indiscreto e con gli stessi toni dei reportages di attualità. Senza accademie, senza preziosismi e, per prima cosa, con la macchina a mano e sempre in movimento. E tanto più in movimento quanto più i miei personaggi staranno fermi, inchiodati.... All'inizio degli anni Settanta la commedia all'italiana è finita e così la Hollywood dei tempi d'oro: resta la possibilità di sfuggire alle maglie infide della nostalgia e dell'autoassoluzione praticando un cinema più libero e de-genere; e Comencini, con la sua produzione documentaristico-televisiva da una parte e i suoi ultimi e liberissimi film dall'altra, si dimostrerà all'altezza del compito.
Oggi, guardandoci attorno, non possiamo non sperare in altre Cleopatre piene
di rabbia e disillusione: o forse la bambina de
Lo scopone scientifico,
così saggia e amara, ci pare di averla intravista in
Brutti sporchi e cattivi,
trasformata in uno degli orrendi baraccati così lontani dai ragazzini
che salvarono il mondo nel '68.
Perché fate quelle smorfie da matti? Noi siamo qua soltanto per annunciarvi che la vostra guerra è finita prima ancora dell'inizio. Ma non dovete prendervela troppo. Un giorno, invero assai lontano per voi (ma per noi no) voi pure, poveri diavoli assassini e magnacci dovrete inevitabilmente ritornare al Paradiso. E là noi quel giorno vi spiegheremo perché la vostra guerra pure quella comunque vi andasse, vittoriosa o persa, e per quanto lugubre, oscena e feroce vi riuscisse ALLA FINE IN SOSTANZA E VERITΐ NON POTEVA ESSERE STATA MAI, PURE QUELLA, NIENT'ALTRO CHE UN GIOCO | << | < | |