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| << | < | > | >> |IndiceDietro le parole 9 1937: Stazione di Napoli 13 La famiglia Grossi: la storia oltre confine 25 Ezio Murolo: un antifascista borghese 41 Antonio Ottaviano: alle radici di un distacco 51 Un liberale: Luigi Maresca, antifascista e patriota 55 La guerra: Napoli, 1940 59 Una scuola privata: l'Istituto Colonna 67 L'opposizione da destra 79 Vincenzo Martucci: l'irregolare 85 Rete Anarchica 93 Francesco Cacozza 99 L'opposizione cattolica 115 L'opposizione comunista 119 In basso a precipizio: l'estate 1943 125 La Nuova Italia 133 Note ai capitoli 145 |
| << | < | > | >> |Pagina 9La questione del consenso popolare al fascismo, così come l'ha posta De Felice, separando il regime dal suo "duce" e, di conseguenza, dall'apparato che di fatto costruì il mito di Mussolini, ha agevolato una sostanziale rivalutazione del fascismo e ha offerto efficaci strumenti a quanti, anche da "da sinistra", hanno inteso utilizzare in chiave politica le forzature ideologiche caratteristiche del revisionismo di destra. A sgombrare il campo dalle ambiguità, d'altro canto, non hanno certo contribuito alcune generalizzazioni sociologiche secondo le quali la classe lavoratrice, benché "storicamente sconfitta", conservi "un rapporto ideale con il passato classista della sua storia". Un rapporto che si traduce "o in un 'sovversivismo' o in una fondamentale anomia nei confronti del potere aziendale e di quello fascista" e produce una interpretazione fondata su verità di fede: la classe operaia dissente per definizione, i ceti medi fatalmente consentono e confini di classe segnano "le linee di divisione di assenso e dissenso alla politica del Regime". In realtà, l'idea di "consenso" in un regime totalitario costituisce un'insanabile "contraddizione terminologica" che rende sinonimi due sostantivi antitetici — imposizione e adesione — e fa passare per realtà una pura finzione. Potrà apparire strano, ma la ricchezza dimenticata del latino, con i meccanismi logici di selezione che regolavano la scelta delle parole, avrebbe probabilmente impedito a Renzo De Felice di costruire sull'ambiguità del linguaggio la sua polemica con la storiografia "ideologica" dell'antifascismo militante, nel momento stesso in cui disegnava un'immagine ideologica dell'Italia fascista: l'Italia del "consenso". Ci ho pensato più volte, mentre in archivio avevo davanti vecchie e ingiallite carte di polizia e riempivo di appunti le fotocopie che oggi, alla fine di un appassionante lavoro di ricerca, mi conducono alla pagina bianca sulla quale comincio a stendere questo mio saggio. Dietro il nostro indeterminato "consentire", il latino riconosceva condizioni e stati d'animo diversi tra loro e li esprimeva con parole differenti: consentire, inteso nel senso attribuito alla parola da De Felice, era sinonimo di concordia derivata da una scelta solidale, era condivisione di valori e comune sentire. In quanto tale, presupponeva una piena libertà. Una tirannide era incompatibile con questa accezione del consenso. Cedere, stava per condiscendere o approvare e nel riconoscere il potere di consentire per autorizzare, ammetteva implicitamente il diritto di dissentire; era inappropriato, perciò, farne uso, riferendosi a una condizione di soggezione. Opprimi indicava un consenso obbligato, il cedimento di fronte a una pressione, la scelta di "piegarsi". Consentire, quindi, per i colpi subiti, soggiacere per la forza di una stretta era il solo consenso compatibile con la tirannide, per la quale il dissenso è il dissidere latino, la "dissidenza", che al primo manifestarsi è già sovversione. La storia della dissidenza, quella che De Felice espelle dalla sua ricostruzione dell'Italia fascista, la storia di quanti, per dirla con un vecchio libro di Ernesto Rossi, hanno opposto un "no al fascismo" com'era possibile farlo, vivendo con oscura dignità la faticosa vicenda che è spesso la vita quotidiana, è la storia che meno conosciamo. Una lacuna grave, dal momento che essa ci riconsegna la dimensione umana dell'antifascismo, la vicenda degli "oppressi", le mille forme di un'opposizione che si intreccia alla molteplicità dei percorsi individuali e si manifesta in una gamma fortemente diversificata di atteggiamenti che, partendo dalla frase impulsiva e dal gesto istintivo di insofferenza, giungono sino alla scelta della clandestinità, dell'antifascismo militante, del carcere e del confino, per configurarsi come "resistenza" e comporsi in un quadro di valori che consente di delineare una cultura antifascista, operaia, popolare e talvolta borghese. È, nel suo insieme, la cultura dell'Italia liberale, che il regime prova invano a cancellare: Croce, Nitti, la ricca tradizione anarchica e socialista, l'anima bordighista e poi gramsciana del primo comunismo, i fermenti di un moderno europeismo. Per quello che mi è stato possibile, ho fatto di questa ricerca una sorta di viaggio in un treno virtuale, che mi ha consentito di percorrere in maniera approfondita e inedita la nebulosa dell'antifascismo; ho potuto così provare a tirare fuori dalla vicenda collettiva nomi e volti dei protagonisti d'una resistenza durata vent'anni, lasciandomi alle spalle l'esigenza di un "canonico" ordine cronologico, per seguire quello logico che segna la successione delle scelte individuali e, come sempre accade quando si viaggia in treno, conduce a snodi cruciali, a punti d'incontro, alle mille stazioni disseminate sul percorso. | << | < | > | >> |Pagina 13Ho in mente, salendo sul treno, l'Italia che penso di conoscere, quella in cui "non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo" e quella del "consenso": il Paese che esalta il regime e il suo duce, "l'entusiasmo popolare, gli osanna iperbolici della stampa", Mussolini che gode della stima "di uomini tutt'altro che banali, intellettuali di grido, grandi finanzieri, militari dal brillante passato" e rimane eccezionale persino quando gli avversari lo attaccano: "colui che governa l'Italia — scrive il "Time" — crede di essere un Cesare, ma è il vero tipo dell'imperatore assiro Antioco, chiamato «il Brillante» e soprannominato «il Pazzo»". Un Paese stretto intorno al duce, un uomo convinto che il fascismo abbia "realizzato l'unità degli italiani e che, in ogni caso, il suo prestigio personale" sia "la garanzia e al tempo stesso l'elemento decisivo del consenso popolare attorno al regime"; un uomo che ha contro solo se stesso e un manipolo di dissidenti, sui quali oggi, quando non sono morti, "l'ombra del comunismo, con il suo carico enorme di sofferenze e di atrocità si allunga, nonostante la loro estraneità personale agli orrori del Gulag, fino a farli apparire improbabili, come campioni di moralità e maestri di democrazia". È l'Italia del 1937 quella che attraverso, c'è aria di crisi, ma il regime è "ben solido, ancora passibile di sviluppi ipotizzabili in direzioni diverse, politicamente inattaccabile dall'interno e certamente non a opera dell'antifascismo". Mi fermo a Napoli. Nonostante il caldo di luglio, l'aria è tersa e la città accogliente, ma, come scendo dal treno, incrocio, sul marciapiede che affianca il binario, in catene, uno dietro l'altro in fila indiana, un gruppo di detenuti scortati dai carabinieri. Sono "politici" e c'è una donna tra loro. Alcuni prendono la via durissima del confino, uno attende di essere processato e gli altri, diffidati o ammoniti, hanno evitato la galera, ma avranno di che penare con un precedente così pesante: antifascismo. Non tutti hanno alle spalle una storia di militanza o una precisa idea politica, ma nessuno è fascista e, a quanto pare, Mussolini non li ha mai incantati. La donna, ad esempio, tenutaria di un postribolo, ascoltando alla radio il duce che, dopo l'aggressione all'Etiopia e l'intervento in Spagna, insiste da un po' sulla necessità dell'autarchia – e non ci vuole molto a capire che a modo suo preannuncia un'altra guerra – ha commesso l'imprudenza di lasciarsi andare: "Parla – ha esclamato – lui parla, fa i discorsi, ma siamo noi che paghiamo le tasse! Mussolini ha i milioni nelle banche estere e se succede qualcosa in Italia lui mangia lo stesso!" Per questo sfogo, la Commissione Provinciale le ha dato tre anni di confino e Teresa Pavanello, napoletana nata a Itapira, in Brasile, da genitori emigranti, ora s'avvia in catene a Bianco, in Calabria, la sede del confino. Ci resterà poco, ma se ne andrà via solo per finire sepolta nel manicomio provinciale di Napoli: "delirio cronico d'interpretazione", diagnosticheranno i medici. Stenti, fatica, il germe d'un male che covava da tempo? Difficile capire. È certo però che non rimarrà sola, ma troverà compagni di sventura, colti come lei dall'indecifrabile e repentina pazzia che nasce e si sviluppa, come per contagio, nelle zone d'ombra d'un regime che non tollera "sbandati", che colpisce il dissnso con l'emarginazione e riduce alla disperazione chi si oppone. Come per una inspiegabile predisposizione, la Pavanello si ritroverà a percorrere la via di Tommaso Serino, un disoccupato che ad aprile, incarcerato a sua volta, ha prima confessato di essere l'autore di scritte antifasciste comparse sui muri di Secondigliano poi, senza manifestare segni premonitori, è improvvisamente "impazzito"; col Serino, troverà rinchiuso Vincenzo Guerriero un antimilitarista anarchico e irriducibile, che ha conosciuto Ustica, Tremiti, Ventotene, Santo Stefano e Pantelleria, è finito in galera con Crispi, Rudinì e Giolitti, è sfuggito due volte all'ospedale psichiatrico perché i medici l'hanno trovato sano, poi ha ceduto di schianto e ormai non è più in grado "di concepire e manifestare qualsiasi idea e tanto meno di natura politica". Assieme al Serino e al Guerriero, la Pavanello incontrerà Salvatore Masucci, un sellaio anarco-socialista che ha dato filo da torcere ai fascisti, s'è fatto quindici mesi di carcere preventivo per l'accusa di complicità nel mancato omicidio di uno squadrista ed è poi fuggito a Marsiglia. Acciuffato a Ventimiglia nell'aprile del '27 e trovato in possesso di materiale di propaganda anarchica, non ha avuto scampo: cinque anni tra isole di confino, carcere e ospedale psichiatrico, poi la morte civile in manicomio. La donna non farà in tempo a incrociare Giovanni Bergamasco giornalista e compagno del duce ai tempi dell' Avanti!, perché il forte carattere l'ha salvato e l'ha tirato fuori da quell'inferno anni prima. Si fossero trovati assieme, le avrebbe raccontato la sua storia, con le parole ferme e pacate usate in una lettera inutilmente inviata alla stampa pochi mesi prima: i bolscevichi mi espropriarono — le avrebbe detto — i fascisti fecero assai di peggio; essi mi privarono dei miei diritti politici e civili. Mi levarono il permesso d'armi, il voto politico e amministrativo, mi cancellarono dall'elenco dei professori governativi alle scuole medie, m'impedirono di continuare la professione di giornalista. [...] Tre volte mi mandarono al manicomio, sperando di murarvimi dentro, e tre volte ne uscii [...] dichiarato sano dí mente. Una ventina di volte venni arrestato. Di tutto questo la Pavanello non saprà mai nulla e nulla in fondo saprà nemmeno di se stessa. In compenso, però, nel reparto donne, messo sottosopra dalla notizia che il Segretario Generale dell'ospedale, il fascistissimo avvocato Antonio Airola, improvvisamente sparito, è finito in manette per gravi irregolarità amministrative, incontrerà, silenziosa compagna di sventura, una bella intelligenza antimilitarista e libertaria, Clotilde Peani, che fino al 1929 s'è divertita a beffare fascisti e questurini che le piombavano in casa con manette e mandati di perquisizione e ormai si va spegnendo; un tempo, sotto i falsi nomi di Angela Angeli e Angela Mallarini, si muoveva abilmente tra Napoli, Milano, Londra e Parigi, teneva conferenze e la polizia la considerava pericolosa perché, "come donna, capace di suscitare eccitamento tra la folla con la sua audacia". Ho nello sguardo una domanda, quando mi volgo perplesso a un ferroviere che allarga le braccia sconsolato: se ne starà zitto, sembra dirmi, e ne intuisco i motivi. Potesse parlare, mi direbbe che è sempre così. Non sono molti ma, mese dopo mese, è un andirivieni continuo. Stranieri nel proprio paese, sono appena saliti sui treni, col loro carico di disperazione, i soliti immigrati "rimpatriati" col foglio di via, perché privi di possibilità di lavoro. Conquistatori di un "impero", non sanno come tirare avanti: la sabbia del deserto non basta ad accoglierli tutti e in Spagna, dove servono giovani, c'è già molta più gente di quanta ne occorra per massacrare i repubblicani. Nei primi sei mesi dell'anno, mi direbbe se potesse il ferroviere, sono stati rispediti ai paesi d'origine quasi in quattrocento, senza contare la famiglia che in qualche caso si sono portati dietro col foglio di via. Fascisti di certo non sono, come non lo sono gli oltre quaranta "sovversivi" confinati e i ventuno fermati, arrestati, ammoniti o diffidati. Potesse parlare, ma si guarda bene dal farlo, il ferroviere mi direbbe che del fascismo sono in tanti a non poterne più, che la vita si fa sempre più difficile, che il "prestito forzoso" sulla proprietà ha messo in ginocchio impiegati e piccoli proprietari, che "i macellai macellano carne di scarto", i grassi, l'olio, mancano, i generi di prima necessità sono tutti aumentati e si gioca a scaricabarile tra i dettaglianti e le autorità. "Manca un listino che fissi i prezzi all'ingrosso, che sono più alti di quelli al consumo e quindi non c'è utile", sostengono i commercianti, che intanto fanno il bello e il cattivo tempo. La polizia sa bene che i "grossisti non rilasciano fatture e occultano così il vero prezzo di vendita", e non le sfugge nemmeno "che la canapa venduta all'estero consente affari d'oro e contrabbando all'Associazione Produttori col favore e l'acquiescenza della Federcanapa", ma non c'è nessuno che muova un dito e chi paga è la povera gente: persino l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia è ridotta in difficoltà tali che "d'ora innanzi i suoi Centri dovranno trasformarsi in Consultori, rifiutando assistenza, medicine e mensa alle donne gravide indigenti", alle quali, in sostanza, si dovranno "fornire solamente dei consigli da parte dei sanitari specializzati che fanno servizio nei Centri". Cresce la disoccupazione nei settori della pastificazione, della molitura, dell'edilizia, dei guanti, della metallurgia e della cantierista e c'è malumore per le paghe basse e per la riduzione delle ore di lavoro. Le corporazioni tacciono e a gennaio "cento operai hanno protestato al sindacato per le scarse possibilità di collocamento loro offerte dai dirigenti e per le irregolarità [...] nelle assegnazioni dei turni di lavoro". Dopo due anni di crisi e sensibili perdite di posti di lavoro, continuano metodici i licenziamenti e le sospensioni per mancanza di materie prime: 3.500 disoccupati a Torre Annunziata, 1.800 nella sola Caserta, con gli edili messi praticamente in ginocchio, una cinquantina di operai mandati a casa dalle "Industrie Meccaniche Meridionali", 300 sospesi alle "Ferriere" di Torre Annunziata, più di 100 alle "Officine De Luca", 200 alle "Industrie Meccaniche Aeronautiche Meridionali", che fanno capo al gruppo FIAT e hanno imposto ai ribattitori un turno di lavoro di tre giorni alla settimana. I lavoratori si sono ribellati, ma "il comando militare della 5a zona, d'accordo con la Direzione dello stabilimento, ha espletato un'inchiesta in seguito alla quale tutta la maestranza del reparto [...] è stata sospesa per due giorni e tre operai, ritenuti maggiormente responsabili, sono stati oggetto di proposta di licenziamento". Come non bastasse, all'Ilva la Direzione, approfittando della complice debolezza del sindacato, "in base al nuovo contratto nazionale dei Siderurgici ha ridotto le ore lavorative a circa 450 operai". La tensione è così evidente che le forze dell'ordine tengono sotto controllo gli edifici del collocamento "allo scopo di prevenire ed eventualmente impedire incidenti e incomposte iniziative". La fila dei detenuti intanto si è fermata. Se ne va tra due carabinieri – l'istruttoria non è ancóra conclusa – Vincenzo di Caprio, un insospettabile impiegato postale che, pur non avendo precedenti politici, è finito in carcere dopo il ritrovamento nel suo ufficio alla ferrovia di alcuni volantini con la scritta "Abbasso il duce e il re. Viva il comunismo. Viva la Spagna rossa". Gli ammoniti, tutti e sei comunisti e tutti e sei sfuggiti per caso al confino, liberati dalle catene, sono invitati ad allontanarsi e non perdono tempo, ma per loro non ci sarà pace fino alla caduta del fascismo. Vincenzo Merola, un impiegato postale già schedato dal 1931 e da anni strettamente sorvegliato, è ormai segnato a dito e, in quanto agli altri, Antonio Embrice, che è stato segretario della sezione comunista di Torre Annunziata, Pietro Antonio Fabbrocino, Carlo Di Martino, Domenico Ierardi e Raffaele Verdezza, operai occupati presso un mulino della zona vesuviana, hanno ormai un fascicolo aperto a loro nome al Casellario Politico e non si toglieranno dalle costole la polizia fino alla caduta del regime. Tra i detenuti non ci sono però solo comunisti. Fascicoli personali sono stati aperti per Giovanni Tavano, un sarto antifascista che non ha precise idee politiche, per il fabbro Francesco Esposito, un ex combattente della "grande guerra" che idee politiche non sembra averne e che, tuttavia, parlando della guerra d'Africa coi compagni dell'Officina Meccanica "Bencini", non ha esitato a dichiarare che "il governo italiano fa schifo e in caso di guerra i poveri soldati nostri morirebbero di fame e sarebbero costretti a deporre le armi". Apolitico, stando alle schede di polizia sarebbe anche Ciro Migliore, un meccanico occupato con Esposito alla "Bencini", che però ha vissuto la giovinezza negli anni del primo socialismo napoletano, quello delle "campagne morali" e della lotta alla malavita organizzata, e ne conserva evidentemente il ricordo se finisce al confino come il suo compagno di lavoro, perché commenta sempre sfavorevolmente le iniziative del regime e, definisce "festa della camorra" il "23 marzo", anniversario della fondazione dei fasci. A conti fatti, ci vuole davvero poco per finire in manette: una coincidenza, una lettera anonima, un confidente che si sbaglia o è a corto di notizie. Ci vuole così poco, che se la cava davvero a buon mercato, ammonito dalla Commissione Provinciale, Salvatore Monfregola, un vecchio contadino che non ha saputo nascondere vaghi ricordi d'una antica fede socialista e si è lasciato sfuggire un'imprecazione: "fanno bene in Spagna che ai volontari fascisti tagliano la testa!". In realtà, il tema della Spagna è di quelli che scottano e la cautela è d'obbligo. Sono mesi che la polizia politica, allarmata dall'efficace "controinformazione" diffusa da una radio repubblicana attiva a Barcellona, si dà un gran da fare per "silenziarla" e sta sul chi vive per cogliere sul fatto i "segreti ascoltatori". A marzo, nel Casertano, è stato facile togliere dalla circolazione l'avvocato Corrado Graziadei che se n'è andato in giro a raccontare notizie giunte via radio da Barcellona. Comunista schedato, guardato a vista da oltre un decennio, è stato rapidamente identificato e non ha potuto evitare il confino. Chi ascolta nell'ombra, tuttavia, non sempre appartiene alla cerchia ristretta dei "noti sovversivi" soffocati dal controllo asfissiante del regime. | << | < | > | >> |Pagina 51Il tracollo del regime di Mussolini coincide certamente con la catastrofe in cui la guerra getta il Paese, ma ha radici più lontane e profonde. Di fatto, l'antifascismo che espatria, abbandonando il campo e rifugiandosi all'estero, non si lascia alle spalle un vuoto totalmente riempito dai notabili liberali che si acconciano al compromesso col fascismo e gli fanno da sponda. Accade indubbiamente anche questo, ed è il fenomeno "macroscopico", quello più semplice da rilevare e che più facilmente impressiona. C'è, tuttavia, dell'altro. C'è, invisibile, nelle pieghe dei vergognosi compromessi, nell'ombra dei voltafaccia, nella sequela ininterrotta delle scelte opportunistiche o anche solo di una inevitabile acquiescenza, un tessuto di opposizione di alto profilo morale, che fa riferimento a significative e radicate tradizioni culturali, a esperienze di lotta e di trasformazioni economiche e politiche presenti nella storia e nella coscienza collettiva del paese — siamo mediamente ben più in alto dello standard qualitativo espresso dalla "rivoluzione" fascista — che il regime non sa assorbire e non può liquidare e che, di conseguenza, non asservisce e non annichilisce. Così, se Nitti espatria e molti nittiani passano lentamente e opportunisticamente al fascismo, non per questo si dissolve completamente ciò che egli ha in qualche modo significato per il Paese. Non si cancella, soprattutto, e non è il fascismo a poterlo fare, ciò che di nuovo e vitale egli ha portato nella cultura politica dell'Italia liberal-democratica. Il fascismo non è figlio d'una rivoluzione di popolo come la Russia dei Soviet e, nel momento in cui nasce, non ha un suo nuovo e concreto programma politico da realizzare — gli manca un progetto, fosse anche il lucido delirio che Hitler indica nel Mein Kampf al nazionalsocialismo — e, di conseguenza, non è in grado di trascinare in catene tutto ciò che fa capo a Croce o ancora vive nell'apparente silenzio del mondo che si lasciano alle spalle Nitti, Turati, Salvemini, Labriola. Una sostanziale miseria morale lo induce a colpire Amendola e Gobetti nell'illusione di spegnere l'opposizione prodotta dal pensiero liberale, a pugnalare Matteotti e i fratelli Rosselli per eliminare il socialismo, a finire Gramsci di galera nell'intento di paralizzare la cospirazione comunista. Tuttavia, il ricorso metodico all'assassinio e alla persecuzione dei leader dell'opposizione, che inchioda il "duce del fascismo" alle responsabilità etiche e politiche che si assume davanti alla storia, non consente al regime di piegare il dissenso mediante la paura e crea dei martiri, dei "modelli positivi", che gli si rivolgono contro come micidiali "boomerang" e, in qualche modo, arricchisce sensibilità e culture politiche mai del tutto cancellate dalla memoria collettiva. Significativa, in questo senso, la vicenda di Antonio Ottaviano, un meccanico nato ad Avellino e residente a Napoli, la cui esperienza personale è, a ben vedere, figlia diretta della fertile tradizione mazziniana e delle intuizioni del socialismo liberale di Rosselli, che contrappone al nazismo e al fascismo un ideale superiore rappresentato degli Stati Uniti d'Europa. Militare di leva in forza alla Sanità in un battaglione del Genio dislocato in Libia, nel 1938, assieme ad altri tre campani – il compagno di reparto Salvatore Maraffa, il caporalmaggiore Ciro Reale, e Giovanni Russo, un giovane falegname estraneo all'esercito – l'Ottaviano aderisce all'associazione clandestina "Europa Unita", formata soprattutto da militari, convinti che la Germania di Hitler rappresenti un pericolo per l'Europa e per la stessa Italia e che, per impedire ai nazisti di realizzare i loro progetti espansionistici, non ci sia che un modo: "conseguire l'unità degli stati europei così come la sognava il grande Mazzini". Di Mussolini – è scritto in un opuscolo destinato alla propaganda – non c'è da fidarsi: "dopo l'avvento del fascismo non si è fatto che [...] inculcare l'odio fra gli stati europei". Il duce, del resto, gioca una partita personale ed è "entusiasta di sentirsi appoggiato dalla Germania, pur sapendo che domani il popolo tedesco sarà più forte del nostro e potrebbe avere il sopravvento sull'Italia". Per quali vie gli uomini della polizia politica giungano al gruppo, guidato dal capitano calabrese Pasquale Marcello, è difficile capire. Sta di fatto che il 27 settembre 1938 la Direzione di polizia di Tripoli informa Mussolini di avere "scoperto un'associazione antinazionale fra elementi militari" che si sono "proposti di propagandare l'idea [...] di una Confederazione tra gli Stati d'Europa, per la pace e il benessere dei popoli". Undici militari e otto civili, prosegue il rapporto, sono "stati denunciati in stato d'arresto al Tribunale Speciale di Tripoli" per "costituzione di un'associazione che propugna una Confederazione dei popoli europei, idee contrarie allo Stato fascista e svolgimento di attività diretta a deprimere il sentimento nazionale". Al processo, Antonio Ottaviano se la cava con un'assoluzione per insufficienza di prove e le condanne risultano tutto sommato miti; il carattere antifascista dell'europeismo propugnato da "Europa Unita" appare tuttavia inequivocabile, così come risulta chiaro che l'opposizione al regime del giovane Ottaviano si fa irriducibile quando i rapporti politici e militari tra fascismo e nazismo diventano indissolubili. Un'opposizione che, a questo punto, sembra indicare una vera e propria linea di tendenza. Non si tratta ovviamente di una reazione che coinvolge subito ampi strati sociali, ma è chiaro che l'alleanza con la Germania genera dissenso. Per molti liberali, che hanno sostenuto o subìto il fascismo come argine contro un inesistente "pericolo rosso" o in nome di un "rinnovamento" sbandierato e mai realizzato, la Germania rimane il nemico di una guerra feroce e Hitler ne è il capo che incute timore, sicché chi conserva memoria degli ideali dell'Italia liberale si allontana sempre più dal regime; è un processo che nasce dalla convinzione, ampiamente presente nelle carte sequestrate al gruppo dell' Europa Unita, che la Germania si finga amica dell'Italia, ma sia pronta a sottometterla e che Mussolini, spinto soprattutto da una smodata ambizione, ne sia consapevole e giochi d'azzardo, rischiando di precipitare il paese in un baratro. A partire da queste considerazioni, la vicenda personale dell'Ottaviano sembra percorrere la linea di rottura lungo la quale matura un distacco lucido, destinato a crescere, a farsi scelta collettiva e ad acquisire un peso specifico di gran lunga superiore a quello del presunto consenso; un distacco che trae alimento da fermenti ancora vitali della cultura politica liberale, "anticipa" la frattura degli anni successivi e delinea un antifascismo che non nasce semplicemente da contrapposizioni ideologiche, dalla polarizzazione comunismo-fascismo o dal dramma della guerra persa, ma è l'esito naturale delle contraddizioni e della miseria morale del regime. Contraddizioni e miseria che la popolazione avverte con crescente chiarezza e che, sommandosi alla percezione di un rischio mortale, segnano il momento cruciale di una frattura insanabile tra Mussolini e il paese: gente di varia estrazione sociale, cittadini che – non c'è dubbio – egli ha ammaliato o illuso, piegato con la forza o preso con l'inganno, ma non ha mai veramente conquistato col valore delle idee. Non per caso, quindi, né solo per la disperazione causata dalla tragedia della guerra, nel settembre del 1943, Antonio Ottaviano affronterà con le armi la furia nazifascista nelle Quattro Giornate. | << | < | > | >> |Pagina 79Mentre il Questore celebra il trionfo, in città la "diffusione di copie del discorso tenuto recentemente dal senatore Croce in occasione della questione Lateranense e del Patto di Conciliazione", dimostra che altri tentano di proseguire il lavoro intrapreso dai militanti confinati. E non è tutto. Pochi mesi ancora e, giunti chissà come e da dove, in città prendono a circolare — e da Napoli trovano modo di partire addirittura per Milano — manifestini, fogli dattilografati opuscoli e giornalini coi quali si presenta "Giustizia e Libertà"; essa ha uno slogan — "Insorgere-Risorgere" — e ha fatto una scelta di campo: "il fascismo patteggia con la Chiesa per trarne aiuto spirituale e materiale. La Chiesa mercanteggia con Mussolini per cavarne ricchezza e potenza. Il popolo italiano fa le spese del miserabile mercato col suo denaro, con la sua libertà, col suo sangue, — Ma il popolo italiano sa e ricorda — E giudicherà inesorabilmente". Senza il fascismo, quindi, e senza la Chiesa, con un programma: Giustizia e Libertà si batte per il rovesciamento della dittatura e per la conquista di un regime libero, democratico repubblicano. Agisce sul terreno rivoluzionario perché la dittatura ha reso impossibile ogni altra forma di lotta. Convoca all'azione tutti gli italiani che si sentono offesi nella loro dignità dalla servitù presente e intendono partecipare attivamente alla riscossa. Afferma che nell'attuale battaglia sono in gioco i più alti interessi della classe lavoratrice; perché solo in un regime che garantisca eguaglianza giuridica e libertà politica, essa potrà realizzare il suo ideale di eguaglianza economica e di giustizia sociale. Afferma che la liberazione d'Italia deve essere opera degli italiani. Dichiara che la lotta è durissima e impone i massimi sacrifici. Questo è il prezzo del secondo Risorgimento italiano. Ha, infine, e questo la rende molto più forte di quanto non dicano le aride cifre che quantificano i militanti — profonde radici culturali e storiche, un ethos politico che, per dirla con Arfè, "è l'erede diretto del liberalismo, inteso come umanesimo integrale che, per affermarsi, deve rompere la rete dei vincoli di classe che ne impediscono lo sviluppo", si colloca nel quadro europeo, "come europeo fu il liberalismo ottocentesco nelle sue espressioni più avanzate", guarda "alla sinistra risorgimentale, a Pisacane, a Mazzini, [...] a Bakunin", assume "a valori assoluti i principii indissolubilmente congiunti di libertà e di giustizia" e oppone un imperativo etico al vuoto morale del fascismo. Sembrerà strano, e invece, a ben vedere è estremamente logico, ma si tratta di un movimento che, al solo veder la luce, mette in soggezione il regime: Mazzini morì sotto falso nome, nascosto in casa di chi lo ha fondato e i temi del socialismo democratico — il socialismo liberale dirà Rosselli — sono parte integrante e per certi versi preponderante della storia del paese. Incute timore "Giustizia e Libertà". In quanti da destra ancora ragionano di politica avendo a riferimento i bisogni materiali, i dati di fatto e una filosofia della storia — e sono perciò fuori dal coro fascista — "Giustizia e Libertà" genera il rispetto che si deve ai grandi avversari, ai nemici che interpretano bisogni della storia, concezioni della vita, ideali, che non svaniscono sopprimendo chi si sforza di incarnarli. "A notte più scura, alba più vicina" — ebbe a dire Amendola, dopo che Matteotti aveva dichiarato: "uccidete me, ma l'idea che è in me è immortale". A questa fede si richiama "Giustizia e Libertà" e non serve opporle il pugnale che uccide nell'ombra: occorre un progetto di alto profilo, che interpreti bisogni e sappia tenere il campo nella battaglia delle idee. Il fascismo non ha progetti. Quanti da destra ragionano di politica, intuiscono subito questa necessità e valutano assieme, pongono in un sol campo, quello opposto, la forte ispirazione ideale dei nuovi rivoluzionari animati da Rosselli, la disgregante utopia anarchica e le irriducibili forze di un comunismo che non solo tiene ancora in piedi un'organizzazione clandestina a livello nazionale, ma conta su militanti che sanno auto-organizzarsi sul piano locale. È difficile dire quale delle due molle la spinga a venire allo scoperto, se il timore dei "sovversivi" o la nausea per il regime — ciò che è certo "è che contro l'antifascismo di sinistra va levandosi un'opposizione di moderati, che muovono "da destra", partendo da un dato di fatto — "le dittature non sono eterne" — e guardano, con incredibile preveggenza e innegabile realismo politico, all'Italia da costruire dopo il fascismo. "Guai a lasciare ai sovversivi il monopolio della lotta", scrive nella propaganda che circola in città nel 1930 l'Alleanza Nazionale di Libertà", che ha due nemici da battere: il fascismo, "per l'oltraggio sistematico della giustizia, l'esaltazione della violenza, la dilapidazione delle sostanze pubbliche e, più ancora, l'abito di ipocrisia e di compromesso morale a cui un sistema di spionaggio più perfetto di quello austriaco condanna oggi il popolo italiano", e l'antifascismo di sinistra che "ha commesso due gravissimi errori che non solo gli han precluso ogni efficace azione politica ma gli hanno fatto servire senza volere il gioco stesso di Mussolini: [...] l'atteggiamento antimonarchico e anticlericale". | << | < | > | >> |Pagina 143In quanto alla natura politica e scopertamente strumentale del revisionismo di sinistra, spiace dirlo, ma è così: è figlia di una tradizione che pone al primo posto "la ragione di partito", che è ragione di parte e, quindi, visione parziale. La "ragione", scrive Cortesi, che guida il Pci "già nei primi atti costitutivi della nuova democrazia italiana". Ieri come è oggi è questo il tarlo che rode i rivoluzionari pentiti, che sono fatalmente pessimi riformisti: la necessità di trovar credito presso i moderati. E se nella "ragione di partito" vanno cercate le rigorose premesse del successivo fallimento strategico del Pci, nelle "ragioni di parte" riposano quelle della crisi d'identità della nuova sinistra, riformista, liberale e — perché no? — papalina. È proprio vero che la storia non è maestra di vita. Lo sentì con passione vanamente lucida e premonitrice Sandro Pertini che all'alba della repubblica ammoniva:noi abbiamo visto uscire non soltanto coloro che dell'amnistia erano meritevoli, cioè coloro che avevano commesso reati politici di lieve importanza, ma anche gerarchi: Sansonelli, Suvich, Pala; abbiamo visto uscire propagandisti e giornalisti che si chiamano Giovanni Ansaldo, Spampanato, Amicucci, Concetto Pettinato, Gray. Costoro, per noi, sono più responsabili di quei giovani che, cresciuti e nati nel clima politico pestifero creato da questi propagandisti, si sono arruolati nelle brigate nere e in lotta aperta hanno affrontato i partigiani e ne hanno anche uccisi. [...] Attraverso queste maglie abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato villaggi con i tedeschi, che hanno violentato donne colpevoli solo di aver assistito i partigiani [...] Abbiamo visto uscire una parte della banda Kock, la Marchi, la Rivera, Bernasconi [...] Ricordiamo che l'epurazione è mancata: si disse che si doveva colpire in alto e non in basso, ma praticamente non si è colpito né in alto né in basso. Vediamo ora lo spettacolo di questa amnistia che raggiunge lo scopo contrario a quello per cui era stata emanata: pensiamo, quindi, che verrà giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo e costituirà colpa essere stati in carcere e al confino per questo.
Un monito che ha assunto da qualche tempo una sua amara attualità.
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