Copertina
Autore Francesco Arcangeli
Titolo Giorgio Morandi
SottotitoloStesura originaria inedita
EdizioneAllemandi, Torino, 2007 [1964], I classici della letteratura artistica , pag. 712, ill., cop.ril.sov., dim. 14,5x21,7x3 cm , Isbn 978-88-422-1476-2
CuratoreLuca Cesari
PrefazioneLuca Cesari
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe arte , critica d'arte
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Indice


  9 LUCA CESARI
    Introduzione

 73 Tavole a colori

 81 Criteri di edizione

 85 FRANCESCO ARCANGELI
    Giorgio Morandi

473 Tavole

    Apparati
619 Appendice I
    Punti di dissenso fondamentali

641 Appendice II
    Lettere per una storia editoriale

695 Appendice III
    Il dattiloscritto Turroni

703 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 87

Ricordo la lunghissima, implacabile estate del 1928, le passeggiate e le soste, in solitudine, ai Giardini della mia città, con mio fratello Gaetano: parlavamo poco fra noi, ma certo, poeta, con le sue nascoste attenzioni, con la sua attitudine ad avvertire cose che per solito non si avvertono, fu il primo maestro della mia sensibilità; forse senza nemmeno volerlo. Standogli accanto, credo, maturarono in me le disposizioni che mi fecero amare senza indugio, come se mi fossero state dentro da sempre, le prime riproduzioni di Morandi, qualche tempo più tardi (viste dove e quando, non ricordo più esattamente). Nel '28, a tredici anni, dallo sviscerato amore per Pascoli stavo passando ad altre cose; e con quel lungo tempo estivo si accordavano versi che cominciavo ad amare: «Distesa estate stagione dei densi climi dei grandi mattini dell'albe senza rumore...», «... e sembri mettere a volte nell'ordine che procede qualche cadenza dell'indugio eterno». Mi accorgo, ripensando, che anche quella Estiva di Cardarelli preparava a Morandi; come preparò a Morandi la breve vacanza sul prossimo Appennino bolognese, nella stessa implacabile estate. Le Lagune del Sasso, Medelana, Mongardino non eran troppo diversi da Grizzana o da Roffeno, i luoghi morandiani. La mia fantasia seppe oscuramente, da allora, cosa può trattenere, di tempo e di tacito incanto, una luce romita su una costa un po' denudata, che cosa può essere il ricomporsi in armonia di qualche cosa di chiuso, forse di selvaggio; e si affidò più tardi alle prime immagini mute e severe di Morandi come a una ritrovata origine. Furono immagini profondamente intime alle case che mi son state famigliari: case d'una vecchia Bologna ancora abitata dal senso della campagna, corridoi ombrosi, dimessi ripostigli, mobili gravi e modesti; e, nelle vacanze al mare, la luce del vecchio lume a petrolio, che, ora, splende nella memoria fuori dal mutevole tempo marino, mite, compatta, trasparente e solida, dava già un effetto di 'natura morta in ambiente'. Infinite cose, insomma, che affondavan le loro radici nell'antico tempo italiano ebbero, dentro, lo stesso suono raccolto della pittura di Morandi, e proprio e soprattutto della grande pittura schiva e paesana (non specificamente 'strapaesana') del Morandi di quegli anni. Mi auguro non sia per indiscrezione, o per presunzione, ch'io scriva queste righe: l'intenzione è di rammentare un rapporto d'origine con l'autore di cui mi accingo a parlare. Era un rapporto arrischiato, o 'letterario', si dica quel che si vuole; ma fu 'vero', e non ebbe nulla di 'assoluto'. Morandi fu la conferma più schietta, più alta, d'un mio, d'un nostro modo di essere; e ne porteremo le tracce finché avremo vita, e per quante mutazioni possiamo affrontare.

Per questo, l'ambizione maggiore di questo libro sarà, nei limiti del possibile a me (e, mi auguro, della 'discrezione' storica), quella di intender Morandi non soltanto come pittore e come artista, ché in questo senso egli è, almeno in Italia, già ben conosciuto e definito, ma anche come uomo; al di fuori, insomma, almeno un poco, da una leggenda che suona, alle mie preferenze personali (e con l'aria di sfiducia che tira attorno), non ho vergogna a dirlo, un po' disumana e noiosa. Intenderlo come uomo, ripeto; e naturalmente, soprattutto come uomo-artista in sé e in rapporto al suo tempo.

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Pagina 89

Nell'aprile 1914, preparandosi la mostra romana d'arte libera futurista, Boccioni e Russolo scrivevano all'amico musicista Balilla Pratella, incitandolo a infondere ardimento in certe sconosciute reclute bolognesi. Boccioni aveva ricevuto una lettera firmata da Giorgio Morandi, da Mario Bacchelli e da Osvaldo Licini, con richieste d'informazioni per l'invio di opere a Roma. Scrive Russolo a Pratella, anche a nome di Marinetti: «Ti preghiamo di far tu stesso il giro degli studi dei giovani pittori che mandano a Roma e scegliere i quadri da mandare. Abbiamo piena fiducia nel tuo magnifico fiuto futurista e siamo certi che sceglierai le opere più audaci, più coraggiose, più sconquassate e più violente». E Boccioni: «Scegli roba avanzatissima, ti raccomando la più mossa la più dinamica la più sconquassata, grottesca, schifosa». Finisce: «... e spingili bene». Pensare a Morandi coinvolto in una circostanza che gli chiedeva proprio la qualità di cui sarebbe stato, sempre, fatalmente sfornito, è davvero significativo e divertente. Il maggior personaggio dell'arte futurista, con la più schietta, anche se frettolosa, violenza, portava la sua passione dell' 'antigrazioso' fino al culmine urtante dello 'schifoso'. E quell'impagabile 'spingili bene'! Davvero, chi conosce Morandi, come non immaginare, se mai l'amico Pratella gli mostrò quella lettera, un suo muto contorcimento, e un subitaneo ritrarsi nel suo silenzio? Del resto, scrivendo dall'affannata Milano, i capi del futurismo non sapevano che, alla Mostra della Secessione Romana, inaugurata da poco, stava chiuso nella sua bianca pace, intoccabile sulla parete della sala emiliana, uno Studio di Morandi: un paesaggio d'inverno, dove un albero spoglio e altissimo sembra fendere in due il campo visivo con la sua tacita incrinatura, e regger tuttavia quella chiara, aspra compagine naturale in una unità vivente, ma profondamente immobile. Qualche traiettoria sghemba, anziché farvi 'linea di forza', cicatrizza un possibile accenno di moto entro una stasi desolata. È un'opera, direi, tipicamente antifuturista, dove il giovane bolognese sembra confessare, con tutta la capacità di rinuncia del suo animo, una verità più antica, e per certi aspetti più nuova, della passione avveniristica di quei giorni agitati.

«È gloria di Morandi» - ha scritto un suo esimio esegeta - «di non essersi lasciato prendere nella capziosa avventura della girandola futurista». Eppure, penso che Morandi non si sia mai veramente pentito di aver fiancheggiato, sia pur marginalmente, quelle grandi speranze, quelle generose illusioni sulle 'magnifiche sorti e progressive' dell'arte, e vorrei dire della vita italiana. Quelle illusioni, quelle speranze, inquinandosi in molti modi, si rivelarono in buona parte infondate; ma fu atto morale, fu atto di giusta giovinezza non esservisi totalmente rifiutato. D'altra parte, Morandi non ha mai polemizzato direttamente a dimostrare i suoi dissensi da movimenti e da idee, opponendo, se mai, non lo scetticismo d'una comoda rinuncia, anzi il senso virile del suo lavoro, come confessione vera e totale, come contributo di vita senza residui e senza equivoci. L'opera Morandi pare esaurire e confessare così pienamente l'uomo Morandi che un'analisi attenta di essa è indispensabile non solo per ammirare un grande pittore, ma per intendere meno imperfettamente che si può un'appartata, silenziosa, ma capitale persona dell'Italia del nostro secolo. Morandi non inviò da Sprovieri pitture sconquassate, né tanto meno grottesche o schifose, come avrebbero desiderato i futuristi. Tuttavia, quella Natura morta di vetri e quel disegno di natura morta (meno immobili, più frantumate e 'compenetrate' del silente paese d'inverno), le inviò anche - è probabile - per scegliere, legittimamente, dal suo lavoro qualche cosa che non fosse del tutto opposto all'ansia febbrile del futurismo. Che senso potesse avere il suo invio, lo dice, all'incirca, la ben nota Natura morta della raccolta Scheiwiller, anno 1912. Ma quando Morandi invia a Roma è ormai avviato a concludere un primo lustro di cosciente attività artistica, i cui aspetti, apparentemente 'assoluti', sono in realtà fortemente, implicitamente dialettici alla storia italiana di quegli anni; e appunto in questo rapporto rivelano con sobria durezza il primo, e già personalissimo carattere della sua arte.

Una bella, aderente interpretazione del primo quadro di Morandi che sia comunemente noto, il Paesaggio [fig. 1]

della raccolta Vitali, datato 6-911 fu data dal Brandi verso il '40. Non abbisognerebbe nemmeno d'aggiunte - tutta raccolta com'è intorno alla simbolica immagine di quel «cielo vasto di solitudine senza approdi» - se, già con questa frase, non collaborasse precocemente alla 'leggenda Morandi'. È una leggenda che ha radici reali nel temperamento, nel costume, nelle aspirazioni del maestro; ma che, astratta dalla situazione entro cui dialetticamente si inserì, rischia di chiudere l'opera di Morandi entro i limiti di un apprezzamenro soltanto metafisico ed estetistico. Né qui si vuol perdere tempo in polemica (che, in questo caso, finirebbe per appuntarsi contro il critico che ha dato il maggior contributo a una interpretazione verace e decisamente individua del maestro); ma sia consentito a me, che scrivo in altri anni, ormai immensamente confusi, chiusi-aperti su prospettive non chiare, tentare, almeno in germe, altre vie. Capisco le ragioni che facevano scrivere al Brandi: «Sarebbe... facile e magro sfoggio mettersi ora ad elencare il poco che potesse aver conosciuto a quel tempo, Morandi, della pittura europea che doveva costituirgli un'ideale progenitura»: eran quelle, legittime, di assicurare una ben definita immagine unitaria della sua arte, impresa che per la prima volta si tentava su ampia scala. Quanto a me, cercherò anzi, per moventi opposti a quelli del Brandi, che si sono, nel corso d'un ventennio, pressoché logorati, di 'rapportare' Morandi al suo tempo.

Bologna, l'Italia, il suo temperamento paiono isolarlo entro una solitudine senza relazioni; e in realtà, impressiona intendere l'«irraggiungibile lontananza» del Paesaggio Vitali, quando si pensa che proprio nei primi mesi di quell'anno '11, esplodevano fra Emilia e Lombardia, tra Ferrara e Mantova, le prime serate futuriste. Pur con gli strumenti pittorici, letterari, tecnici, generosi ma quasi rudimentali di cui disponevano allora Marinetti e Boccioni, vi si predicava il più violento attivismo. S'era aperta a Milano, alla fine d'aprile, quella Mostra d'Arte Libera che fu stroncata da Soffici su «La Voce»: vi campeggiavano quadri come La città sale e La Risata di Boccioni e I funerali dell'anarchico Galli di Carrà. Morandi non conobbe certo, direttamente, questi frutti recenti dei più alti ingegni futuristi; e, anche li avesse conosciuti, così tipicamente antimorandiani com'erano, ne sarebbe stato respinto. Tuttavia, se non altro perché fu lettore de «La Voce» e ammiratore di Soffici, ne ebbe nozione indiretta. Tanto più si rileva, perciò, dialetticamente, la sua solitudine, che, così determinata nel Paesaggio del 1911, non ha tuttavia nulla di volutamente mistico, o atemporale; è anzi decisamente umana, e forse, sia pur sobriamente, quasi umilmente, umanistica. Una naturale volontà di sfrondare il troppo e il più di quel tempo gonfio di fermenti, di tener davanti a sé le cose con concretezza, con profonda semplicità, di subordinare ogni dimostrazione di talento (posseduto in alto grado da Morandi, e dimostrato per mille prove) all'essenza d'una poesia impugnata fortemente per non sviarsi in sentimento dichiarato e abbandonato: tutto questo è già in quel dipinto, e include ormai in sé, moralmente per così dire, il nerbo primo e più energico che gli diede chiarezza anche negli anni dei suoi dialoghi col mondo più drammatici o desolati. Ancora intatto dalla complessità del cubismo analitico, quel dipinto non dimostra il suo autore più cezanniano di quanto non lo fossero, negli stessi anni, altri artisti d'Europa. Matisse, Utrillo, Derain; in forma più accostabile, Soffici: ecco i 'cerveaux congénères' del Morandi 1911. Congeneri nel senso che tutti portavano una resistenza alla grande, problematica figliazione cubista da Cézanne. Quella loro sfrondata normalità di visione li espose, allora, a un insuccesso che non toccò né al cubismo né al futurismo; né poi all'astrattismo. Intorno a questi movimenti ci fu rumore, scandalo; intorno all'opera di questi isolati, legati soltanto da una spontanea analogia di situazione, ci fu, soprattutto in Italia, lunga, amara indifferenza.

Morandi fu, per ragioni di diversa estrazione geografica, il più solitario. Anche se la sua Bologna non era quella provincia così infetta e derelitta che ora si potrebbe credere, non era facile potesse aiutare un pittore della sua specie, ventenne. Una lotta politica e sociale abbastanza accesa e intelligente; Carducci, Pascoli, e la loro scuola; una università piuttosto florida; una tradizione musicale tutt'altro che spregevole; una stampa quotidiana degna di nota, soprattutto dal '10 in avanti (è in quel torno di tempo che «Il Resto del Carlino», dove già collaboravano il Bruers e il Giovannetti, il Fovel e il Lipparini e, da Roma, il Bellonci, comincia a ospitar con frequenza Sorel, Prezzolini, Papini, Cecchi, Missiroli): questi eran gli elementi d'una situazione generale di vita civica che mi pare, in complesso, superiore a quella di oggi; ma non per quel che riguarda le arti plastiche.

Non esisteva, a Bologna, una critica d'arte che non fosse quella, improvvisata per le varie occasioni, di scrittori e di giornalisti; e se ciò creava una condizione di stimolo durissimo per pochissimi indispensabili artisti, non diede ossigeno a uomini dotati che, in diverso clima, avrebbero respirato altrimenti. Scarso il mercato dell'arte, rarissime le mostre: unica ricorrenza di qualche rilievo, ma decisamente insufficiente anche se benintenzionata, la rassegna annuale della Associazione Francesco Francia. Bologna aveva lasciato e lasciava soffocare nella 'routine' d'una vita, infine, quasi elemosinata, un pittore potenzialmente forte come Luigi Bertelli >aveva trascurato i momenti migliori del Serra<; e faceva soffrire in silenzio quei delicati 'petits-maitres' del tardo impressionismo e del divisionismo che furono Scorzoni e Flavio Bertelli. Questa soffocazione non permise che scorresse >davvero, e facesse tradizione efficace< la linfa schietta, anche se modesta, di questo naturalismo e impressionismo locale. Fu una sorta di eco cordiale, ma strozzata, alle spalle di Morandi; e non poté importare pertanto, e per ragioni di statura relativa e per mancato riconoscimento, alla sua formazione. Quei nomi non compaiono mai o quasi mai, infatti, nelle cronache cittadine del tempo. Bologna, auspice il Rubbiani, si avvolse invece nelle spire di un estetismo medievalistico e libertineggiante, paradannunziano, che dovette esercitare, per contrasto, su pochi giovani, uno stimolo energico a opporsi a quelle aure debolmente decadenti, così lontane dalla semplicità aristocratica e popolare ad un tempo che è - e fu subito - inseparabile dalla costituzione di Morandi. Egli non fu attratto da Klimt (veduto alla Biennale del '10); figuriamoci se poteva esserlo dai De Maria, dai Sezanne, dai De Karolis, dai Casanova. Egli fu, quasi subito, per Cézanne, il francese.

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